
Breve promemoria di fatti tragici e per più di una ragione. Fatti noti e di cui è comunque bene serbare la memoria.
16 marzo, ore 9 circa del mattino. In via Fani a Roma le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana; uccisi gli uomini della scorta, Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Camera e Senato, con procedura d’urgenza esprimono fiducia al governo, un monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti. Per la prima volta anche il Partito Comunista appoggia il governo. Dopo quel giorno il Parlamento non sarà più convocato.
Le Brigate Rosse recapitano il primo comunicato e una fotografia: ritrae Moro prigioniero, sottoposto ad un processo da parte di un cosiddetto “tribunale del popolo”. Mondo politico, intellettuali, giornali si dividono tra i fautori della cosiddetta fermezza, NO a qualsiasi ipotesi di trattativa, e possibilisti, disposti a qualche concessione pur di salvare Moro. Per la fermezza democristiani, comunisti, repubblicani, missini; per la cosiddetta trattativa socialisti, radicali, sinistra extraparlamentare.
30 marzo, le Brigate rosse recapitano la prima lettera di Moro al ministro dell’interno Cossiga. Tra l’altro scrive: “Il sacrifìcio degli innocenti in nome di un astratto princìpio di legalità è inammissibile”. Per i fautori della fermezza la lettera è stata chiaramente estorta.
3 aprile. Papa Paolo VI rivolge un appello ai rapitori, li scongiura di liberare il prigioniero. Il PSI con Craxi si distacca dai sostenitori più intransigenti della ragion di Stato. Andreotti alla Camera afferma che «Non si può patteggiare con gente che ha le mani grondanti di sangue».
10 aprile. Intercettata una lettera di Moro alla moglie che propone lo scambio di prigionieri.
16 aprile. Le Brigate Rosse comunicano che l’interrogatorio di Moro è terminato: colpevole, pertanto condannato a morte. In favore di Moro si mobilitano la Caritas e Amnesty International e il segretario dell’ONU Waldheim.
19 aprile. Un messaggio, rivelatosi falso, annuncia che Moro è stato ucciso. Il corpo gettato nei fondali del lago della Duchessa.
21 aprile. Arriva il vero “comunicato, accompagnato da una foto: Moro è ancora vivo.
25 aprile, anniversario della Liberazione. Le Brigate Rosse chiedono la scarcerazione di tredici detenuti politici in cambio di Aldo Moro.
29 aprile. Andreotti sancisce chiaramente il rifiuto del governo a trattare con le Br. Non tutti però sono d’accordo. Il presidente della Repubblica Leone potrebbe firmare la grazia per una brigatista che non si è macchiata di reati di sangue. Il presidente del Senato Fanfani è per la trattativa. Il consiglio nazionale della DC, convocato, si prepara ad approvare un ordine del giorno in questo senso.
6 maggio. Le Brigate rosse recapitano il comunicato “numero 9”: “Concludiamo la battaglia eseguendo la sentenza a cui Moro è stato condannato”.
9 maggio. Il corpo di Moro viene trovato dentro una Renault rossa posta in via Caetani vicino la sede della DC e del PCI.
Cosa ricavarne, quale succo spremere da questa sequenza di fatti? E innanzi tutto la domanda principale: le Brigate Rosse hanno agito da sole, in autonomia, oppure è lecito credere, pensare che siano state un qualcosa di etero-diretto? Essendo dei cretini, oltre che dei delinquenti, nulla esclude che fossero degli incapaci di intendere ma non di volere; e magari ci hanno creduto, in quello che hanno fatto. Però come escludere che alle loro spalle abbiano operato portatori di interessi americani, russi, inglesi, francesi, e via dicendo? Dice nulla “l’incidente” di cui fu vittima il presidente dell’ENI Enrico Mattei? Dice nulla “l’incidente” di cui fu vittima il segretario dell’ONU Dag Hjalmar Agne Carl Hammarskjold? Dice nulla “l’incidente” di cui fu vittima il generale dei carabinieri Enrico Mino? Dice nulla il sospetto rivelato da Emanuele Macaluso di un probabile attentato – per fortuna fallito – subito da Enrico Berlinguer durante un suo soggiorno in Bulgaria?
Oggi, quarant’anni dopo, è possibile tracciare il contesto di questa tragedia italiana?
Le conclusioni della Commissione Moro ribaltano la verità giudiziaria finora accertata. Tutta la documentazione raccolta è ora parte di un fascicolo aperto dalla procura della Repubblica di Roma. Il fantasma di Moro continua ad aleggiare sul paese, nonostante siano trascorsi quarant’anni. Sono tanti i nodi irrisolti. E qualcuno, ancora oggi, ha motivo di tramare (e tremare).

Pochi, pochissimi, all’epoca avevano compreso quello che accadeva, sarebbe accaduto. Tra quei pochi, ancora meno quelli che cercarono di impedirlo.
A chi in quegli anni non c’era (ma tutto sommato anche a chi quegli anni li ha vissuti) consiglierei di leggere (o rileggere) l’Affaire Moro di Leonardo Sciascia, libro scritto a “caldo” commentando e ragionando intorno alle lettere che il leader democristiano scrive dal “covo” dove era sequestrato.
Sciascia il giorno del rapimento si trovava a Roma. A un amico confida: “Non ne uscirà vivo”. Moro gli appare subito come agnello sacrificale. Non per un caso ricava da un libro di Elias Canetti l’epigrafe che inserisce ad apertura dell’ “Affaire”: “Qualcuno è morto al momento giusto”. Illuminante.
Moro lo vogliono morto i suoi amici democristiani e i suoi avversari comunisti, che lui ha coinvolto nel governo del Paese. Ed è gara per proclamare che Moro non è lui, è plagiato, irriconoscibile, lui scrive, ma altri detta il contenuto di quelle missive. Pochi, pochissimi, e quasi sempre silenziati, sepolti da una valanga di insulti, i dissenzienti. Pochi, pochissimi, obiettano che Moro, anche quando è prigioniero delle Brigate Rosse, continua a essere se stesso, a pensare come sempre ha pensato; che in lui la comprensibile, umana paura di morire non arriva al punto di sconvolgerlo; gli conferisce anzi una maggiore lucidità di sapore testamentario.
Si arriva così a un punto cruciale. Moro viene si ucciso dalle Brigate Rosse. Ma si può dire sia ucciso anche da coloro che lo negano, lo disconoscono, che sostengono di non riconoscere, nel Moro prigioniero, il Moro di prima del rapimento. Né vale una presunta ragione di Stato: che la si poteva benissimo difendere senza disconoscere Moro. Il “delitto” commesso, consumato è stato l’aver voluto sostenere con ottusa pervicacia che Moro era impazzito, non era più lo stesso. Mentre lo era. In modo lucido e coerente.
Il Moro democristiano, leader del suo partito, viene definito “grande statista”, e poi negato una volta catturato dalle BR. Il processone esattamente l’inverso: da politico Moro non è mai stato uno “statista”. Da prigioniero, forse lo è stato. Le BR vogliono “processare” Moro; ma è di tutta evidenza che Moro non si lascia processare. Moro nei suoi interrogatori non rivela nulla che già non si potesse sapere, solo a usare con occhiuta sagacia e media intelligenza il sapere di cui abbondantemente si può disporre se ci si dà pena – letterale pena – di seguire i fatti politici, leggere i giornali, tirarne la somma, spremerne il succo.
E per dire di qualche interrogativo, di qualche nodo che attende d’essere sciolto, spiegato. Alla vigilia dell’esecuzione, oltre ai socialisti, ai radicali, al variegato partito della cosiddetta “trattativa”, sono scesi in campo il papa Giovanni Montini, che ha in serbo svariati miliardi da consegnare in cambio della vita di Moro. C’è il presidente della Repubblica Giovanni Leone, con la penna in mano, pronto a firmare la grazia a una brigar sta che non si è macchiata di reati di sangue. C’è Amintore Fanfani, all’epoca presidente del Senato, la seconda carica dello Stato, che si accinge a fare un discorso al consiglio nazionale del suo partito, in favore della trattativa. E c’è una entità più forte e potente che blocca tutto. Chi è questa entità, perchè agisce come agisce, e perché?
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