“Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e alternativa”. E’ la prima parte di una famosissima frase, scritta da Aldo Moro, mentre era sequestrato dalle Brigate Rosse. Si rivolgeva a Benigno Zaccagnini, Segretario del suo partito, in una lettera del 24 Aprile 1978; in realtà, suo tramite, si rivolgeva all’Italia intera. Alle generazioni passate, a quelle presenti e, soprattutto, a quelle future.
Alcune parole si stagliano sulle altre: “ancora”, che tradisce una terribile previsione sulla sua possibile sorte; “irriducibile”, che segue “contestazione”: a confermare, quasi da una dimensione già eterna, la lucidità di quella cupezza; e ad incarnare, in sua difesa, una superiore opposizione al mediocre corso delle cose: nel nome di un’autentica ragione umana, negata da una pretesa Ragion di Stato.
Ma quella frase si completava in una seconda parte, dove previsione, opposizione e difesa trovavano uno scopo, la loro sintesi: “per impedire che della D.C. si faccia quel che se ne fa oggi”.

Ora, proviamo a sostituire idealmente quell’autore e quell’anno: Aldo Moro, 1978; con un altro nome e un altro anno; e a immaginare uno spazio bianco, al posto della sigla “D.C.”. Enzo Tortora, 1983, Bettino Craxi, 2000; e, dove c’è il bianco, leggiamo “libertà”, in un caso, “Repubblica Italiana”, nell’altro.
Ed ecco il risultato: “Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e alternativa, per impedire che della libertà (1)/della Repubblica italiana (2), si faccia quel che se ne fa oggi”. Cosa avrebbero in comune queste frasi parallele?
Intanto, si può subito notare che le due interpolazioni, “della libertà”, per Tortora, “della Repubblica Italiana”, per Craxi, in realtà, si possono leggere come se fossero una: “della libertà della Repubblica Italiana”: con la libertà di uno che è tale, solo se è libertà di tutti, e viceversa.
Le frasi parallele, in primo luogo, hanno in comune di essere intessute alla morte. Due sono gli anni di morte, si potrebbe osservare: quello di Moro, e quello di Craxi; ma Tortora? Il 1983 fu l’anno del suo arresto, non della sua morte; “mi è scoppiata dentro una bomba al cobalto”, così, nella prima lettera dal carcere di Regina Coeli, il 17 giugno 1983. Perciò, poiché le bombe uccidono, anche per Tortora, quello fu un anno di morte. E la visione della morte, sappiamo, può elevare a visioni vastissime, profondissime.
Poi, questi tre uomini, ebbero in comune la coartazione: ingiusta, impietosa, meticolosa; non una coartazione qualsiasi; ma una ricreata da una perturbazione ideologica. Prima delle BR, era stata seminata e sparsa, dai meno giovani, sul capo dei più giovani, quella perturbazione; dopo, da questi, a loro volta cresciuti, fu posta in attesa di riscuotere il frutto di promesse catastrofiche, di livide speranze.
Occorreva però uno strumento adatto alla meta, e schiere organizzate: pretoriani che sapessero maneggiarlo. Prima e dopo di Moro, “Il processo alla DC” è stato un miraggio diffuso, sapientemente coltivato. Da ceti manovrieri: forti di penna e di rango e, per lunga e risalente tradizione, democraticamente irresponsabili. Si badi: “Il Processo”, non la critica, non l’opposizione; perchè l’unica opposizione era il Processo; ogni altra, solo complicità.
Moro aveva capito: e sui rapporti fra magistratura e parlamentari e, in genere, la “politica”, aveva le idee piuttosto chiare. Un anno prima di essere altrimenti “processato”, il 10 marzo del 1977, si presentò in Parlamento: dove si discuteva di presunte tangenti in seno al c.d. scandalo Lockeed, e della messa in stato d’accusa di due ex Ministri della Difesa, il democristiano Luigi Gui ed il socialdemocratico Mario Tanassi. Disse: “…noi vi diciamo che non ci faremo processare nelle piazze”. Ma fu una difesa impotente. La semina era stata capillare: e il raccolto stava crescendo.
Quella parola, così, “Processo”, non più però mosso ad un solo Soggetto, ma, escogitato come un Assoluto Politico, divenne lo strumento con cui la perturbazione ideologica assunse la “Coartazione” come la “Categoria Nuova” della vita comunitaria in Italia: gradatamente, “progressivamente”, ma ineluttabilmente.

Resa il punto di confluenza dei benpensanti e delle plebi, affratellati dall’invida, dalla frustrazione, dallo stordimento inebriante di una furia iconoclasta. Le squadracce delatorie (strumento dello strumento), pertanto, poterono celebrare il loro emblematico battesimo: su un uomo “famoso”, “liberale”, “antipatico”, quanto “inerme”, e in verità anche gentile; poi, così rodate, dilagarono sui “Grandi Colpevoli” (non tre, quattro, cinque, contro cinquecento, come avrebbero fatto, poco dopo, al Pool di Palermo: ma decine e decine contro uno, come avvenne prima e sarebbe avvenuto dopo; questa sproporzione le rende “squadracce delatorie”, e non “fonti di prova dichiarative”).
Ragioni umane, contro Ragioni di Stato. Ma quale “Stato”? La “fermezza” fu oscura e velenosa fecondazione; perchè ne gemmarono “Le Emergenze Permanenti”: fu il loro fondamento teorico. E ciascuna di queste “Emergenze”, avrebbe avuto un duplice alimento: da un lato, un rinnegamento; dall’altro, un travisamento.
Dal rinnegamento, metodologico e finalistico, dell’Antimafia di Falcone e Borsellino, sorse “l’Antimafia di mestiere”. Dal travisamento di un equilibrato redde rationem sul finanziamento irregolare dei partiti, sorse “il manipulitismo”: cioè, l’Anticorruzione carrieristica, liquidatoria: nata a conteggiare colpe altrui fra nascoste scatole di scarpe, finita a conteggiare appartamenti fra microfoni per una volta accesi.
Quindici anni dopo, Craxi, sulla scia di quel Moro già impotente, e in un contesto “maturo” per un più sistematico “cambio di passo”, avrebbe parlato di “processi sommari”.
A Craxi liquidato, fu emanato, fine del 1995, l’Editto Borrelliano, tuttora moralmente vigente: “Se si creano situazioni di emergenza nelle quali diviene indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinare l’ordinamento giuridico, allora, nell’interesse comune, sono favorevole alle restrizioni di diritti individuali”.
Fra Moro e Craxi, Tortora potè affermare: “Sto pensando di chiedere il cambio di cittadinanza, questo Paese non è più il mio”. Rimase, e ne morì. Ma, anche grazie a lui, l’Idea della libertà, vive.
Ma per quanto?