Tornare in via Fani, all’angolo con via Stresa, 40 anni dopo. A Roma è una mattinata plumbea, l’aria è carica di umidità, e i colori di quella via passata drammaticamente alla storia sono appiattiti sulle sfumature del grigio. Fino a qualche ora prima dell’inaugurazione del nuovo monumento, il marciapiede in prossimità dell’incrocio, dove alle 9.02 del 16 marzo 1978 la Fiat 130 che trasportava Aldo Moro venne bloccata da una 128 bianca guidata dal capo delle Brigate Rosse Mario Moretti, era reso inaccessibile dalle transenne che delimitavano un cantiere. Oggi, alla cerimonia, in presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, è stato scoperto il nuovo memoriale.

Per anni, però, il ricordo del rapimento del presidente della Democrazia Cristiana e dell’uccisione dei cinque uomini della sua scorta è stato affidato a una lapide quasi anonima appesa al muro, momentaneamente rimossa con l’inizio dei nuovi lavori. Una volta rimontata, a fine febbraio, è stata barbaramente imbrattata con svastiche e la scritta “a morte le guardie”. Proprio lì, dove, 40 anni prima, a trovare la morte furono il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi e i poliziotti Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi.


Eppure, anche a distanza di quattro decenni, il tempo, in via Fani, pare essersi fermato. Gli imponenti palazzi che sorgevano ai lati della strada ci sono ancora, qualcuno riammodernato nel corso del tempo; c’è ancora quella strada un po’ in salita che conduce fino a via Trionfale, nei pressi della via dove Moro abitava; c’è ancora la chiesa del quartiere che il leader della Dc frequentava non solo la domenica. Certo: qualcosa è anche cambiato. Come il bar Olivetti, un tempo “crocevia di criminali” – come riconobbe già la Commissione Moro presieduta da Beppe Fioroni -, che fu smantellato subito dopo l’agguato. Oggi al civico 109, dove sorgeva, soltanto appartamenti residenziali, e di fianco un ristorante, “La Camilluccia”. Il proprietario del locale – che negli anni ha cambiato gestione – ricorda bene tutte le cerimonie che di 16 marzo in 16 marzo si susseguono e a cui può facilmente assistere dalla grande vetrata della sala da pranzo che dà proprio sull’incrocio tra via Fani e via Stresa. “Quest’anno hanno fatto la lapide nuova”, osserva. “Dopo 40 anni finalmente si sono decisi: prima era attaccata al muro, era una cosa… bruttina”, spiega. E, indignato, prosegue: “Quando la stavano facendo, hanno fatto pure uno scempio, con scritto ‘A morte le guardie’…”.
Sarà forse per le tante immagini della strage passate davanti ai nostri occhi, anno dopo anno; o sarà perché ancora oggi Aldo Moro resta presente “come un fantasma” – così osservò il figlio – sulla scena politica italiana, che camminando in via Fani è così semplice fare un tuffo nel passato. Un’altra delle ragioni, probabilmente, è anche che tanti, troppi dubbi sono rimasti aperti nella ricostruzione di quei 55 giorni, tra i più drammatici della storia d’Italia.
GLI INTERROGATIVI ANCORA APERTI
Moro si stava recando in Parlamento – alle 10 lo attendeva il voto di fiducia al quarto governo Andreotti, appoggiato anche dal Partito Comunista – quando il rapimento andò in scena. Più tardi, avrebbe dovuto presiedere la discussione di 10 tesi di laurea alla Sapienza di Roma. Nulla di tutto ciò accadde. Ma quello che esattamente avvenne, ancora oggi, non si sa ricostruirlo. Quante persone furono coinvolte in quell’azione giustamente definita “militare”? Perché – come sostennero i brigatisti – venne trasbordato due volte in luoghi affollati (prima, in piazza della Madonna del Cenacolo, su un furgone 850 Fiat guidato da Mario Moretti, poi, in un parcheggio sotterraneo in via Newton, Ami 8 familiare di Laura Braghetti)? Che ne è di quella moto Honda cavalcata da due passeggeri, rapidamente passata in via Fani a pochi secondi dall’agguato, e dalla quale, secondo alcuni testimoni, addirittura partirono dei colpi? Cosa ci faceva un colonnello del Sismi in via Fani? E ancora, che fine hanno fatto le altre 3 delle cinque borse di Aldo Moro? E fu davvero tenuto in prigionia solo in via Montalcini o, dubbio avvalorato dall’ultima Commissione di inchiesta, anche in via Massimi, dove sorgevano i palazzi dello Ior? Che dire, poi, di quella “seduta spiritica”, avvenuta il 2 aprile 1978, nella casa di campagna di Alberto Clò a Zappolino, a cui assistette anche Romano Prodi, dove uscì il nome della località “Gradoli” come luogo di prigionia di Moro?

Tutte domande drammaticamente aperte, anche dopo che sei commisioni d’inchiesta, cinque processi e tanti tentativi di ricostruzione di quei 55 giorni tra via Fani e via Caetani, dove il corpo di Moro fu poi ritrovato.
LA MEMORIA VIVA DEI RESIDENTI
Domande che riecheggiano anche tra la gente che ancora oggi abita quel quartiere: non è difficile trovare persone che già vivevano lì, in quei palazzi, il 16 marzo 1978. E per molti di loro, i ricordi di quei momenti – quei momenti in cui si seppe che qualcosa di grave, gravissimo stava avvenendo – sono pressoché indelebili. La signora Caterina è una degli inquilini del civico 109 di via Fani che all’epoca ospitava il famigerato bar Olivetti, quello della saracinesca mezza abbassata sulla scena del crimine la mattina del 16 marzo e che pure per 38 anni venne dichiarato completamente chiuso quel giorno. Bar frequentato da personaggi quantomeno “sinistri”, commenta un residente, e che le indagini hanno portato a identificare quale centrale operativa per l’innesco dell’agguato a Moro e agli agenti della sua scorta. Nel rievocare quei giorni, la signora Caterina annota degli strani movimenti tutt’intorno: “All’epoca uscivo tutte le sere perché avevo un bassotto: ecco, la cosa che ben ricordo è che per diverse sere vidi una persona che stava ferma proprio lì davanti al palazzo, appostata in mezzo alle piante – racconta – Poi la mattina del sequestro non vidi nulla, perché ero a lavoro. Naturalmente dopo perquisirono la casa e tutta la zona”. E sulle celebrazioni per il quarantennale aggiunge: “E’ chiaro che adesso stiano ricordando tanto questo evento, non soltanto perché ricorrono i quarant’anni, ma penso che abbia più un significato politico, perché si vede che allora dal punto di vista politico… beh, diciamo che c’era un po’ di confusione”.
Ci sono poi le vicine di casa del presidente della Dc, due signore che abitavano nella stessa strada di Aldo Moro, alla Balduina, in via Cortina d’Ampezzo: oggi percorrono una traversa di via Fani con il carrellino della spesa al seguito e, a dispetto dei 40 anni trascorsi, di quel 16 marzo hanno un ricordo nitido, impresso a fuoco nella memoria.“Un’angoscia! Te lo ricordi?”, chiede Mirella all’amica, che annuisce col capo: “Abbiamo sentito proprio i rumori. È un ricordo netto – sottolinea – anche se non abbiamo visto niente, perché nessuno aveva il coraggio di muoversi. Poi siamo andate a prendere subito i figli a scuola, perché dicevano che bisognava andarli a prendere”. “Soprattutto in noi c’era una rabbia! – esclama invece Anna, che scandisce bene ogni parola nel racconto delle emozioni provate in quegli attimi e nei giorni immediatamente successivi all’eccidio di via Fani – Una rabbia per questo ‘coso inutile’, proprio una cosa balorda. I giorni dopo sono stati molto molto brutti, venivano nelle case, ispezionavano… E’ un ricordo chiarissimo. Noi c’eravamo!”
Riferendosi a Moro racconta: “Lo vedevamo sempre. Abitava proprio vicino a noi e la mattina presto lo vedevamo andare a messa, a Santa Chiara. Sapete cosa mi ha fatto un po’ impressione ieri sera alla tv? – confessa – Vedere le interviste ai brigatisti! Perché dare voce a questi soggetti che sono pure tutti liberi?”. Mentre si allontanano insieme, Mirella aggiunge: “E’ stata una morte proprio cattiva, perché era un uomo di grande stile”.
C’è poi chi pur non essendo stato testimone diretto o indiretto, descrive l’atmosfera dei giorni che seguirono il rapimento di Aldo Moro: “Ricordo lo stato di guerra – dice il signor Carlo – ricordo posti di blocco ovunque, anche se fatti malissimo. Mia moglie stessa se ne andava in giro insieme ai bambini con un bagagliaio immenso, ma nessuno l’ha mai fermata – sorride. “Ricordo i cecchini appostati mentre imboccavo l’autostrada per Civitavecchia. È stato un periodo buio certo, ma ormai sono passati quarant’anni, appartiene al passato”.

Risalendo via Fani e imboccando poi sulla sinistra via Trionfale, dopo una manciata di minuti si arriva in un altro luogo chiave del caso Moro, via Massimi 91. Un complesso di palazzine di lusso, nel 1978 di proprietà della banca vaticana, lo Ior, al cui interno gli investigatori della Commissione Moro hanno individuato un covo delle Brigate rosse e dove, verosimimente, venne organizzata la vera prigione dello statista della Democrazia Cristiana. “L’ho vissuto quel periodo, eccome! – racconta il signor Paolo – So’ venuti pure a casa mia e di mi’ moglie a fa’ i controlli. Il complesso adesso è tutto rifatto – spiega – Solo un palazzo è rimasto originale. Dopo che lo Ior l’ha venduto, qui sono passati mafiosi, ‘ndranghetisti e pure strozzini”. Di movimenti strani, però, dice di non averne mai registrati in quei 55 giorni che vanno da via Fani al ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani. E con una scrollata di spalle si congeda. “Tutti banditi e ladri, la storia d’Italia si fonda su questo!”.