Il momento della verità? Può sembrare, questa, una definizione azzardata o eccessivamente ottimistica, per definire le recenti congiunture che potrebbero gettare luce (almeno in parte) su due dei più grandi misteri internazionali che, per uno strano gioco del destino o della storia, si sono succeduti all’inizio degli anni Sessanta. Eppure, non può lasciare indifferenti il fatto che proprio oggi l’ONU abbia reso pubblico il nuovo rapporto sul controverso incidente aereo che uccise l’allora segretario generale Dag Hammarskjöld, e che proprio domani si proverà ad alzare il velo che copre, da 54 anni, l’omicidio del presidente John Fitzgerald Kennedy. E dato che non c’è due senza tre, quell’aereo che, il 18 settembre 1961, si schiantò nella giungla della Rhodesia del Nord (attuale Zambia), provocando la morte di Hammarskjöld e di 15 persone non può non ricordare a noi italiani un altro aereo, precipitato nella campagna pavese il 27 ottobre 1962, in cui morì Enrico Mattei.
Hammarskjöld, Mattei, Kennedy: tre storie diverse, un destino comune: quello di morire in circostanze misteriose senza che, a un cinquantennio di distanza, ancora sia stata fatta totale chiarezza. Quanto all’ex segretario generale delle Nazioni Unite, in particolare, la strada per la verità è certamente ancora lunga, ma il cammino è ormai tracciato, almeno da quando, circa un anno fa, al Palazzo di Vetro si decise di riaprire l’inchiesta a seguito della scoperta di nuove importanti informazioni, tra le quali parevano figurare documenti di intelligence in mano al Governo sudafricano risalenti a diversi decenni fa, che descriverebbero nei dettagli il presunto complotto – chiamato “Operazione Celeste” – che avrebbe avuto l’obiettivo di uccidere Hammarskjöld. Così, l’indagine è stata affidata, in qualità di Eminent Person, a Mohamed Chande Othman, presidente della Corte Suprema della Tanzania che si era già occupato del caso per le Nazioni Unite l’anno precedente.
Da un lato, colpisce come le conclusioni di entrambe le indagini – la prima, già diretta da Othman, e quest’ultima, di cui è stato pubblicato il report – rivolgano al segretario generale delle Nazioni Unite – prima Ban Ki-Moon, oggi Antonio Guterres – il medesimo appello: quello, cioè, che si continui a fare pressione sui Governi e sui Servizi segreti dei Paesi coinvolti affinché desecretino informazioni che potrebbero far luce sul caso. Sì, perché ciò che rende la morte di Hammarskjöld un “mistero” paragonabile agli altri due più sopra citati è che, intorno all’operato dell’allora Segretario nella risoluzione della delicatissima crisi congolese, si affollavano tanti, troppi interessi. Innanzitutto, perché Hammarskjöld era un sostenitore della piena indipendenza del Congo, colonia belga, mentre il Belgio – in qualche misura sostenuto da Gran Bretagna, Stati Uniti e Sudafrica – voleva fare in modo che le ricchezze del Katanga, tra cui l’uranio usato per produrre le bombe nucleari sganciate su Hiroshima e Nagasaki, rimanessero in mani amiche e lontane da quelle dell’Unione Sovietica. Siamo negli anni più bui della guerra fredda: nell’aprile 1961 sarebbe scoppiata la crisi della Baia dei Porci. E poco prima che Hammarskjöld morisse mentre era in viaggio per discutere di una tregua con il capo del movimento secessionista appoggiato dal Belgio, il numero uno del movimento di liberazione del Congo Patrice Lumumba venne ucciso, pare, con la complicità dello stesso Belgio (che ha successivamente ammesso un proprio ruolo negli eventi) e della CIA, a causa di un suo presunto eccessivo avvicinamento all’Unione Sovietica.
Non stupisce, insomma, la reticenza di molti Paesi a collaborare alle indagini. Dal canto suo, Guterres ha sostenuto con forza l’appello alla trasparenza di Othman, ritenendo che le informazioni ad oggi in mano alle Nazioni Unite siano insufficienti e che sia altamente probabile, allo stesso tempo, che ne esistano di altre. Intanto, però, il nuovo rapporto, con tutta la prudenza del caso, definisce “plausibile” che l’aereo di Hammarskjöld si sia schiantato a seguito di un “attacco” o di una “minaccia” “esterni”. Una “quantità significativa di evidenze” da parte di testimoni oculari ha rivelato che “più di un aereo era stato avvistato in volo, che uno degli altri velivoli potrebbe essere stato un jet, che il SE-BDY (l’aereo su cui viaggiava Hammarskjöld – ndr) era in balia delle fiamme prima che si schiantasse, oppure che un altro velivolo potrebbe aver aperto il fuoco contro di esso o attaccato attivamente”.
Parole icastiche, che escluderebbero, a ben vedere, la pista dell’“incidente” ufficializzata nel 1962 dalla commissione d’inchiesta della Rhodesia, e rimasta tra le opzioni aperte sul tavolo della successiva indagine Onu. “Risulta plausibile che un attacco esterno o una minaccia abbia causato lo schianto”. Resta da capire se quest’ultimo sia stato direttamente provocato da un attacco, oppure abbia generato un momento di distrazione del pilota che ha poi portato all’incidente. Eppure, il documento resta ancora sul piano della “plausibilità”: ogni “certezza” è ancora lontana. E lo è soprattutto perché chi avrebbe dovuto collaborare alla positiva conclusione dell’inchiesta si è (comprensibilmente) tirato indietro. Secondo quanto emerge dal report, non è ufficialmente ancora possibile escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, la possibilità che si sia trattato di un incidente “causato da un errore del pilota senza un’interferenza esterna”, favorito magari da “fattori umani, inclusa la stanchezza”. Quanto alla pista del “sabotaggio” – che contempla la presenza di una bomba sull’aereo – Othman ha rilevato come sia impossibile, al momento, verificarla a causa dell’impossibilità di accedere ai famigerati documenti dell’“Operazione Celeste” in possesso del Governo sudafricano.
Il report, insomma, certifica una sostanziale e drammatica epoché: nonostante esistano evidenze che fanno dubitare si sia trattato di un “classico” incidente aereo, le eventuali prove che potrebbero gettare luce sono in mano a Paesi che non sono disposti a desecretarle. “L’onere delle prove è passato ora nelle mani degli Stati membri”, ha infatti affermato Othamn. “Un incidente come questo, dove una o più ricostruzioni contemplano atti ostili o contrari nei confronti del Segretario Generale delle Nazioni Unite è una questione di pubblico interesse”, ha aggiunto. Il momento della verità, insomma? Almeno sul caso Hammarskjöld, la strada è ancora lunga.