John Grisham, ex deputato in Mississippi, scrittore da 300 milioni e passa di copie vendute in tutto il mondo, presenta il suo ultimo lavoro, scritto con Jim McCloskey, “Framed”, che in Italia hanno letteralmente tradotto: “Incastrati”.
I due raccontano una decina di storie tragiche, con aspetti decisamente assurdi, letteralmente incredibili: persone che hanno trascorso gran parte della loro vita in carcere pur non avendo commesso alcun crimine. Dieci drammi umani che svelano aspetti crudeli del sistema giudiziario statunitense. I protagonisti di queste storie si trovano invischiati in vere e proprie trappole, pagano innocenti con decine di anni in carcere, talvolta rischiano la pena capitale, i veri colpevoli, impuniti: vittime di razzismo, negligenze, collusioni, testimonianze false, corruzione tra le forze dell’ordine e nelle stesse aule dei tribunali. È l’America, bellezza; poi pensi che anche in Italia: un pastore sardo, per fare un esempio tra i mille, ha scontato ben 35 anni di carcere per delitti mai commessi. Finalmente hanno riconosciuto la sua innocenza, ma con una serie di cavilli gli negano il risarcimento di cui pure ha diritto…
Rivolgiamoci a Grisham e Trump, 47esimo presidente degli Stati Uniti. Racconta che nel giardino della sua casa in Virginia qualcuno la notte della vittoria di Trump ha bruciato il cartello che avevano esposto in sostegno di Kamala Harris: “Mai successo in vita mia. È tutto estremamente tossico. E triste”. Racconta nonostante il primo emendamento della Costituzione garantisce la libertà di parola, ormai “mai parlare di politica, oggigiorno. È diventato tutto così tossico, sempre sull’orlo della violenza. Mai visto niente del genere, Trump lo ami o lo odi. Non c’è una via di mezzo”. Racconta che la stessa sua famiglia è dilaniata: “Dopo la guerra in Irak io mi sono spostato a sinistra, i miei fratelli a destra. Ma dopo Trump non siamo mai stati così distanti…con mia sorella ‘liberal’ parliamo spesso. Con gli altri due fratelli che da tempo sostengono Trump invece no. Se ci capita di stare al telefono lo facciamo, ma con frasi di circostanza. Ormai ci sentiamo molto raramente. Lo stesso con molti miei amici ora trumpiani…”.
Chi scrive ama da sempre gli Stati Uniti: li considera un modello, pur con le sue mille contraddizioni, lacune, errori commessi. È grato a questo popolo accorso ben due volte in Europa, ai milioni di ragazzi morti per liberare l’Europa da dittature, fascismo, nazismo. Chi scrive si commuove ogni volta che legge i versi di Emma Lazarus incisi ai piedi della Statua della Libertà: “Give me your tired, your poor, your huddled masses, yearning to breathe free, the wretched refuse of your teeming shore…”. (“Dai a me le tue creature esauste, i tuoi poveri, le tue plebi accalcate che bramano respirare liberamente, gli sventurati rifiuti delle tue brulicanti sponde…”).
Per questo, pur consapevole che le migrant deportation flights non le ha inventate Trump, ci sono state anche con Obama, Clinton, Biden, prova un sentimento di orrore nel vedere una decina di disgraziati, i polsi legati, “ingoiati” da un aereo militare, e la prospettiva che nella base di Guantanamo si possano a breve stipare 30mila clandestini in attesa di finire chissà dove.
Come si arriva a questo? Ancora Grisham. Riconosce che Trump ha vinto soprattutto per le pessime politiche di Biden e di Harris sull’immigrazione illegale: “I democratici sono stati un disastro. Con Trump presidente entravano circa 500mila illegali all’anno. Con Biden due milioni. Il Congresso non li ha aiutati nella legislazione, ma il presidente e la vice, tra l’altro con delega proprio sull’immigrazione, hanno fatto pochissimo per risolvere i guai alla frontiera. Non puoi accettare i confini aperti in nessun paese. E anche sull’economia e l’inflazione: Biden e Harris non sono riusciti a parlare chiaro agli americani. Kamala è stata vittima di razzismo e sessismo, senza dubbio. Ma nella storia recete i democratici hanno sempre scelto il cavallo sbagliato: troppo esotici, progressisti o troppo di sinistra per buona parte degli americani, troppo ossessionati dalle ‘guerre culturali’ e da temi come il gender, ma meno interessati alla sostanza e alla vita quotidiana della maggioranza: al bread and butter, come si dice”.
Basta per capire cosa è accaduto e perché?
Forse si deve cominciare a riconoscere che, piaccia o meno, Trump, con il suo linguaggio aggressivo, la sua detestabile volgarità, è comunque un leader. Il suo cognome è diventato un brand; lui stesso lo ha spiegato: “Un brand fa risparmiare tempo al pubblico”.
Resta l’interrogativo: fino a “ieri” negli Stati Uniti dominava il “politicamente corretto”: mai insultare le religioni, l’aspetto fisico, il genere, lo stile di vita di qualcuno. Poi arriva Trump, con i suoi insulti, le sue minacce, le sue aggressioni verbali… Lo applaudono, lo approvano.
Come se qualcosa si sia infranto nei “sacri” principi americani. Non che prima non ci siano state tragedie; ma ora abbiamo assistito al duplice oltraggio: l’assalto a Capitol Hill; la grazia a chi ha preso parte a quell’assalto. La rottura che si è consumata rende ora tutto più facile a chi si sente superiore e come tale si comporta, infischiandosene di regole e leggi.
Si dice che una popolazione bianca, che si sente minacciata, in minoranza, impaurita, ha trovato in Trump il suo paladino e difensore; ma come spiegare che molti latinos e neri hanno preferito Trump? Maschilismo? Perché Trump è maschio e la sua avversaria una donna?
L’europeo innamorato degli Stati Uniti che scrive a questo punto confessa di aver trovato conforto in quella donna, esile d’aspetto, voce che è poco più di un sussurro: quella Mariann Budde, vescovo episcopale, che di fronte a Trump autoproclamatosi uomo da Dio mandato per fare l’America di nuovo grande, ricorda la più cristiana delle parole, misericordia: “Have mercy”. Lui, tronfio della sua arroganza, la fulmina con lo sguardo, irato; lui e la sua corte: non meno significative le espressioni del figlio maggiore Eric, e del vicepresidente J.D. Vance: nei loro occhi si legge: “Come osa?”.
Due mondi diversi, opposti, alternativi. Quella donna è il simbolo di una possibile dignità e umanità che non si piega e rassegna; che ci si augura sappia e possa resistere, insistere, esistere.
C’è infine una questione più che dolente, messo in evidenza dal discorso di commiato di Biden: il passaggio relativo alle oligarchie al potere. Molti hanno obiettato: se ne accorge ora? Anche con lui, e prima di lui, era così.
No. L’allarme di Biden va collegato a un precedente allarme, lanciato dall’uscente presidente Dwight D. Eisenhower: nel 1961 mette in guardia dal potere e strapotere del complesso militare-industriale. Nella versione originale del discorso c’è anche “congressuale”; poi, sembrandogli eccessivo, depenna quel termine. Ora con Trump Vance e Musk, ci siamo.