In Italia è tra gli ultimi registi ad aver lavorato con il premio Nobel per la Letteratura, Dario Fo. Negli Stati Uniti, invece, è stato il protagonista della rassegna “Italy on Screen Today 2017”. Stiamo parlando di Michele Diomà, 34 anni e una vita divisa tra Napoli, Roma e l’Europa, che nel corso della Settimana della Lingua italiana ha presentato a New York il suo ultimo film, Sweet Democracy. Una pellicola che ha visto tra i protagonisti proprio Dario Fo, che è stata co-finanziata da Donald Ranvaud, e che si pone l’obiettivo di denunciare “il sistema di censura che vige oggi in Italia”. Un sistema basato su una “sorta di neo-maccartismo autoritario, ma solo verso certi registi”, in un contesto in cui la produzione cinematografica non è quasi mai basata sul merito, “ma sulle clientele”, limitando così in modo subdolo la libertà d’espressione.
La prima americana di Sweet Democracy, che in Italia era stato presentato nel 2016 a Taranto, ha avuto luogo giovedì 20 ottobre 2017 presso la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University. E nel corso della sua settimana newyorkese, Diomà è stato protagonista anche alla La Guardia High School di New York per un Q&A organizzato dal professor Mario Costa, improntato proprio sul concetto di libertà d’espressione e di stampa in Italia (“Un’occasione preziosa per confrontarsi con gli studenti americani”).
Michele Diomà, il suo film parla proprio di questo: di libertà d’espressione e censura. Come si sviluppa la pellicola?
“Il film racconta delle vicissitudini di un giovane primo ministro italiano ed è costruito su due binari: uno di pura fiction e uno di documentaristica. È una pellicola auto-prodotta, senza uso di denaro pubblico, e che si pone l’obiettivo di far capire quanto le maglie della censura si stiano restringendo in modo subdolo e silenzioso, nel nostro Paese. In particolare, il giovane primo ministro protagonista della mia storia è il tipico politico che prende il potere e cambia qualcosa superficialmente, senza però cambiare mai nulla nel concreto”.
Un richiamo all’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi?
“Per più di un certo verso non posso negare che ci sia eccome”.
Quali sono i cambiamenti che non sarebbero stati fatti?
“Glieli riassumo tutti in una scena, che per me è l’essenza della pellicola e di quello che sta succedendo in Italia oggi. Una scena nella quale un assistente dice al primo ministro: ‘Presidente, lei ha cambiato l’Italia’. Lui ci pensa su e risponde: ‘Ma no, che ho cambiato? Sono solo il primo Presidente che sa dire la parola ketchup nel modo corretto e che non ha problemi di prostata. Questo ho cambiato’. E l’assistente controbatte: ‘Beh, per l’Italia è un grosso passo avanti’ “.
Lei ha lavorato con Dario Fo, protagonista del film nel filone di documentaristica. Ci racconta com’è stato collaborare con una personalità così?
“Non penso di essermi mai trovato davanti a un giovane della mia età con la potenza di Dario Fo. Ci pensi: lui da premio Nobel quasi 90enne se ne sarebbe potuto completamente disinteressare, di fare un film con me, non gli veniva in tasca nulla. E invece da vero combattente si è rimesso in gioco con la stessa energia di un 30enne, e lo ha fatto anche nel mio film nonostante non ci vedesse né ci sentisse già bene”.
Come ha fatto a convincerlo?
“È stato un percorso di vari passaggi, frutto di una serie di meeting e incontri che io e il mio cast abbiamo fatto con lui a Milano. E ammetto di essere stato un po’ sfacciato”.
In che senso?
“Ci pensi, un regista come me allora 32enne, figlio di nessuno, che va a chiedere a un Premio Nobel: ‘Vuoi lavorare nel mio film?’. Gli ho spiegato il concept del mio film, che era auto-prodotto e non aveva ricevuto finanziamenti statali. E gli ho raccontato che mi ponevo l’obiettivo di denunciare il sistema produttivo del cinema, sbagliato alla radice, e la limitazione alla libertà d’espressione che viviamo oggi”.
Molti suoi detrattori dicono che è arrivato qui a New York solo grazie a lui, a Dario Fo…
“Non nascondo abbia avuto un certo peso, è innegabile. Ma io rispondo sempre che Fo ha partecipato al mio film perché ha deciso lui di farlo, convinto da un progetto cinematografico e dalle intenzioni della pellicola. Nessuno mi ha regalato nulla”.
Altri suoi detrattori aggiungono che il suo sia un film grillino e che abbia pesato molto l’appartenenza del premio Nobel a un movimento politico come il Movimento 5 Stelle. Cosa risponde?
“Rispondo dicendo che Dario resta da considerarsi una persona libera intellettualmente, perché è rimasto indipendente. Su alcuni punti relativi al tema dell’immigrazione, ad esempio, si è discostato da certe posizioni espresse in certi momenti dal movimento a cui ha deciso di aderire, e non ha mai guardato in faccia a nessuno. Per quello sono adirato nei confronti di chi oggi lo idolatra, dopo averlo calpestato tutta una vita”.
Lei parla di neo-maccartismo autoritario e di censura. Ci spiega meglio cosa intende?
“Quasi sempre un film in Italia lo si fa e si ha ‘successo’, tra virgolette, se si riceve un finanziamento pubblico. È normale quindi che, se chi ti finanzia è lo Stato, tu regista o produttore rimani legato a doppio filo alle istituzioni e al finanziatore che ti hanno permesso di realizzare quel film o quel prodotto. E la prova di questo è che il nostro cinema sta morendo”.
La rassegna cinematografica “Italy on Screen”, che ha visto la sua pellicola tra le protagoniste, è stata però una rassegna promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Se ci fosse davvero un sistema di censura, lei sarebbe arrivato fin qui?
“Mi rendo conto che la parola censura sia forte, ma a volte è meglio utilizzare termini ridondanti per far capire il concetto. Per me oggi c’è una censura al 98%, che è paradossalmente peggiore di quella che c’era in passato: ieri sapevi chi fosse il tuo nemico, chi ti ostacolava e dove fosse il limite della tua azione. Oggi no”.
E lei ha usato quel 2% per arrivare qui?
“Potrei dire di sì. Una buona parte del sistema cinematografico oggi è asservita a questa struttura e questo ricade sulla qualità delle pellicole: non parlo di estetica, parlo di contenuti. Oggi, ad esempio, un film come “Il caso Mattei” di Francesco Rosi non si potrebbe più fare. E se io sono arrivato qui è perché sono stato protagonista di un quadruplo salto mortale, come dico sempre: ho fatto un investimento privato forte spendendo risparmi personali, e ho avuto la possibilità di lavorare con un premio Nobel come Fo che ha dato visibilità al mio prodotto”.
Cosa ne pensa della critica cinematografica in Italia?
“È, molto semplicemente, inutile. Non ha più un peso perché ha perso tutta la sua credibilità. Ben diverso è quanto succede qui negli Stati Uniti, dove c’è un sistema basato sulla competizione e sul merito, anche in relazione alla critica”.
A giugno, a New York si è svolta la rassegna cinematografica “Open Roads” e tra i vari film italiani presentati uno in particolare, Indivisibili di Edoardo De Angelis, è stato lanciato di recente nel sistema di distribuzione americana. Questo fatto non stride un po’ con la sua idea, secondo cui il cinema in Italia sia in caduta libera dal punto di vista contenutistico, anche all’estero? Cosa ne pensa?
“Non mi permetto di giudicare il lavoro di nessuno dei colleghi. E riaffermo che il problema non è nella qualità delle pellicole in sé, ma sta nella qualità del sistema che permette a certe pellicole di essere prodotte e finanziate, e porta altre ad essere scartate. È il sistema di produzione che va cambiato fin dalla radice e dovrebbe permettere anche a un rompiscatole come me di competere nel mercato cinematografico alla pari di tutti gli altri. Un contesto in cui il giudizio è legato al merito e non alle clientele. In America funziona così: se fai un flop, perdi il treno. In Italia no”.
Ma c’è qualcuno che lei apprezza, in Italia?
“Sì, ci sono colleghi che apprezzo, in particolare potrei dirle Luca Guadagnino. Un regista che negli USA è noto ed è stato anche protagonista all’ultimo New York Film Festival. Lui per primo si è opposto a questo modo di produrre opere in Italia”.
In che modo deve cambiare oggi il cinema, quindi?
“Poniamo di considerare una realtà a sette strati: oggi nel fare un film in Italia ci si ferma spesso al primo. Magari facciamo la fiction su Mattei, ma i contenuti non vanno più in profondità come un tempo. Bisogna invece tornare ad avere un contesto che permetta alle pellicole di andare in profondità, di indagare, di denunciare, e io credo sia ancora possibile”.