Che qualcosa sia cambiato, a Washington, lo si percepisce da un dettaglio uscendo dalle lobby degli hotel vicini al Convention Center, dove riposano gli agenti della guardia nazionale in pausa. Per aprire la seconda porta scorrevole all’ingresso non serve più essere ospiti della struttura e avere la carta della propria stanza: si apre da sola a tutti, come dovrebbe sempre essere. Il sottile segnale che rende chiaro un punto: con l’esaurirsi della cerimonia d’inaugurazione si sta finalmente andando a esaurirsi anche l’emergenza attacchi terroristici.
Proprio dalle porte di quegli hotel, al piano di sotto, decine di agenti della guardia nazionale continuano ancora a entrare e a uscire per le ultime operazioni di routine. Sono tutti molto cordiali, ma anche (ancora) molto abbottonati. Squadrano l’interlocutore per qualche secondo prima di capire se possano rilassarsi a dire da dove vengano, mentre sorseggiano caffè in hotel in attesa dell’inizio del loro turno. Fanno squadra come si sono dovuti abituare a fare velocemente all’inizio di una missione senza precedenti, in questi termini e in queste proporzioni: proteggere con 25mila mitra la transizione pacifica dei poteri negli Stati Uniti. Vivono anche loro queste ore in uno stato di confusione e incredulità. Confusione, perché la capitale del mondo libero non dovrebbe avere bisogno di loro durante l’insediamento di una nuova amministrazione. Incredulità, per aver dovuto controllare le strade americane con checkpoint e posti di blocco degni dei racconti dei corrispondenti in Medio Oriente.
Washington si è risvegliata il 21 gennaio con la sensazione di essere più libera. Libera di liberarsi delle armi, dei camion, dei furgoni delle squadre speciali del Border Patrol, giunte in emergenza dal confine per proteggere la Casa Bianca. Libera di tornare ad essere tranquilla, istituzionale, quasi noiosa, “perfetta per le famiglie”, come si tende a dire per rimarcare le sostanziali differenze rispetto a New York. Libera da un anno di eventi che l’ha vista sotto i riflettori in una quantità di occasioni uniche. Il primo giorno di giugno, quando Trump ha chiesto alla guardia nazionale di usare la forza per rimuovere i manifestanti di fronte alla Casa Bianca e permettergli di recarsi a piedi alla St. John’s Episcopal Church per la famosa “photo op”, di lui davanti alla chiesa con in mano una Bibbia e l’oscuro viso imbronciato. Il 17 ottobre, con la marcia delle donne contro la nomina di Amy Coney Barrett come Giudice della Corte Suprema. Il 6 gennaio, con l’insurrezione al Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump.
“Credo che la città abbia bisogno di farsi una bella dormita e così anche il Paese: ce lo meritiamo tutti”, dicono con fare bonario Sandra e Romain, due arzilli vecchietti che hanno passato l’intera vita a Washington e hanno deciso di vivere l’ultima parte della loro vita in Vermont. Dopo aver visto l’assedio del Campidoglio, però, si sono sentiti in dovere di prendere la macchina e guidare fino a Washington per l’inaugurazione di Biden, nonostante le imponenti misure di sicurezza. “Abbiamo sentito la cerimonia da lontano passeggiando per quest’area a L’Enfant Plaza, mercoledì”, spiegano. Come loro, tanti Washingtoniani li hanno copiati usufruendo di una strisciolina di città lasciata libera dalle forze di sicurezza attorno alla zona rossa per permettere ai residenti di godersi all’aria aperta, con la vista del Campidoglio, il momento storico che ha reso presidente Joe Biden e vice presidente Kamala Harris.
La loro è stata una folla alla Biden: silenziosa, un po’ intimorita, molto discrete, senza bisogno di urla. Una folla che il giorno dopo l’inaugurazione ha trovato la città sulla via della “noiosa” normalità. Con i camion che trasportano via, pezzo dopo pezzo, le transenne e le pareti metalliche di sicurezza. Con le code di vetture della polizia che a sirene spiegate lasciano la capitale passando per Dupont Circle. Con delle immagini ordinarie trasmesse dai network televisivi, a cui gli americani non erano più abituati. Da una parte i pacati botta e risposta tra portavoce del Presidente e giornalisti, alla Casa Bianca. Dall’altra un Anthony Fauci libero di dire che la pandemia coronavirus è fuori controllo e che la situazione necessita di essere amministrata. E nel mezzo un presidente decente e normale, quasi noioso, certamente con dei difetti, già imbeccato (giustamente) dai giornalisti per aver promesso appena 100 milioni di dosi di vaccino in 100 giorni e non di più. In molti si erano dimenticati di quanto fosse piacevole, tutta questa imperfetta normalità.