Non è sfuggita sui media la notizia del boom di bocciati all’ultimo concorso in magistratura. In base al più recente aggiornamento, su 2.152 candidati, soltanto 127 sono gli idonei ammessi all’orale: circa il 6% del totale. Una tendenza negativa, analoga a quella degli anni scorsi.
Nel dibattito sulla crisi della giustizia e sui possibili rimedi (su cui tanto si è soffermato il presidente Sergio Mattarella nel discorso di insediamento), il risultato offre spunti per una riflessione dolente sulla preparazione degli studenti in vista dei più importanti concorsi pubblici: in discussione è innanzitutto la capacità di esprimersi correttamente nella lingua scritta.
Si comprende che possa esserci maggiore severità in un esame che è tra i più difficili. Su 6.000 partecipanti circa, sono stati consegnati appena 3.700 elaborati, poco più della metà, segno che anche la preparazione scientifica era lacunosa, tanto da non giustificare l’azzardo di portare a termine le prove. Però, fin d’ora si può ritenere che il record sia ricollegabile principalmente alla scarsa qualità tecnica degli scritti. È questa la ragione delle bocciature, in base ai risultati di altri analoghi concorsi.
Gli aspiranti magistrati non sanno scrivere nella lingua italiana e, per riprendere appunto le osservazioni sconsolate di una precedente commissione d’esami, “gli errori grammaticali sono davvero troppi”. A questa deve aggiungersi un’altra considerazione, che non riguarda solo la professione giudiziaria, ma certo presenta qui connotati specifici. L’abilità espressiva scritta (anche orale) è un problema aperto in molti contesti.

L’esperienza indica che il superamento del concorso non assicura né garantisce la competenza linguistica. Proprio le “prove” successive lo confermano. Il dato emerge dall’esame delle sentenze da parte degli specialisti, ed è avvertito anche dai non esperti, se si prova a interpretare le motivazioni delle decisioni.
La costruzione dei giudizi è spesso tortuosa e faticosa, già a prima vista. La lunghezza spropositata, contraria al requisito della sintesi, maschera il difetto di lucidità. Il percorso logico è complicato, talvolta arduo, per la vastità ed eterogeneità dei materiali da esaminare e valutare: pluralità di atti, diversità di operazioni tecniche, varietà di temi ed argomenti. Specie in materie scientifiche, che implicano il ricorso ad altre metodologie, e nelle quali si dovrebbe fare buon governo dei criteri basilari del ragionamento probatorio, emergono oscurità e incoerenze.
La sonora bocciatura di gran parte dei candidati pone il problema delle condizioni del sistema scolastico da cui provengono gli aspiranti magistrati. Il quadro non è più confortante se si osservano da vicino altri esami di Stato, come (per rimanere nel settore) quelli annuali di abilitazione alla professione forense, dove ugualmente vi è scarsa attenzione per le competenze linguistiche, pur indicate come prioritarie nelle linee guida. La questione della lingua italiana scritta è una vera emergenza culturale in tutti gli ambiti scolastici e professionali.
Qual è la preparazione precedente, quali sono le esperienze sul campo? Da ultimo all’università (anche prima, la situazione è simile) si ricorre al massimo ad elaborati brevi o a tesine, se non a semplici test, ma non è raro che si arrivi alla laurea senza essersi mai misurati nella redazione di testi organici su materie specifiche, tanto meno nell’analisi e nel commento.
Non sono pochi gli studenti che non hanno mai scritto nulla sino alla conclusione dei cicli di studio. All’origine, almeno di recente, la causa maggiore è individuabile negli effetti antisociali della pandemia che ha ostacolato le riunioni in presenza e impedito le esercitazioni di gruppo: sarà difficile ripristinare la normalità.

Il Covid-19 ha reso precario il rapporto tra educatori e allievi: la Dad, in particolare, se ha permesso di mantenere aperto il circuito scolastico, ha fatto venire meno la centralità del rapporto insegnante-studente, minando il contesto necessario per fare esperienze pratiche.
Ma a parte ciò, si avverte una sorta di ostilità ideologica nei confronti del lavoro linguistico scritto che ormai dura da tempo, quasi un pregiudizio culturale per qualcosa di arcaico, superato nella società digitale, inservibile rispetto alle forme moderne di comunicazione. Lo si avverte pure in certi ricorrenti dibattiti sugli esami di maturità.
È rimasto inascoltato l’allarme lanciato nel 2017 da ben 600 accademici per denunciare la scarsa conoscenza della lingua italiana da parte delle nuove generazioni. La scrittura, una delle abilità ritenute fondamentali nella civiltà occidentale, è in fase di grave decadimento. La classe politica è rimasta insensibile all’appello: i test Invalsi 2021 hanno evidenziato che, alla maturità, metà degli studenti ne sa, della lingua italiana, come nella scuola media e spesso non è in grado di comprendere testi di media difficoltà né di riassumerli e spiegarli.
Il fenomeno viene da lontano, la scarsa abitudine alla scrittura deriva da consuetudini, a cominciare dall’uso della rete e delle applicazioni tecnologiche. L’espressività è sempre più “diversa”, altra dal segno scritto su una pagina. Si usano immagini, video, disegni, icone, per comunicare efficacemente e quando proprio si ricorre alle parole, la scrittura non è tradizionale: sincopata, frammentata, sconnessa. Si prescinde dalle connessioni logiche, dalle transizioni tra un concetto ed un altro, si finisce per utilizzare forme sgrammaticate e sintatticamente errate.
Non è inevitabile che Internet implichi approssimazione, è possibile sfruttare la velocità del mezzo senza sacrificare la logica, ma la fatica è maggiore e non sempre si ha voglia di affrontarla. Sullo sfondo, gli effetti perversi dell’orizzonte post moderno: la società liquida (Zygmunt Bauman), il villaggio globale in cui l’oralità ha preso il posto della scrittura (MacLuhan), l’epopea dei nativi digitali (Prensky). La vaghezza soppianta la precisione.
In questo contesto, spicca la responsabilità della scuola, che ha scambiato il senso della tradizione per immobilismo pedagogico, rinunciando ad impostare una didattica della scrittura, scientificamente fondata, e a renderla permanente, in modo che accompagni tutte le forme di insegnamento. Il paradosso dello studio dell’italiano è la mancanza di una pratica della lingua scritta in parallelo alla lettura e all’apprendimento dei concetti.

Ci si stupisce che in America siano così diffusi i corsi di scrittura, definita lì “creativa”, mentre in Italia sono tenuti in scuole private e su iniziativa di singoli scrittori. La mancanza di corsi universitari di questo tipo segnala una lacuna generalizzata a livello di apprendimento scolastico. Lo studio della lingua italiana si concentra nella decifrazione contenutistica dei classici e ha il suo focus nella lettura contemplativa dei testi.
La forma espressiva scritta è occasionale, rappresentata solo dal “tema”, strumento poco studiato e curato, spesso “rituale” obbligato per chiudere il ciclo di studi, e concentrare in esso, una volta per tutte, conoscenze numerose e capacità eterogenee. Un compito da svolgere per il professore, più che per sé stessi, per la propria crescita personale, per il futuro.
Nonostante il proliferare di manuali, studi e riflessioni, la scuola appare impermeabile al rinnovamento. E questo tratto è davvero singolare, perché mentre si denunciano le insufficienze del sistema scolastico, manca un cambio di passo, a livello politico, e dei singoli. Con eccezioni preziose, si intende. Nella Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa è stato varato in vista del prossimo anno accademico un “Laboratorio di italiano scritto”, per consolidare le competenze di scrittura italiana in campo espositivo e argomentativo. È previsto lo studio della “coerenza nei testi” e della “differenziazione dello stile in base alle esigenze comunicative”.
La denuncia della scrittrice-insegnante Paola Mastrocola e dello studioso Luca Ricolfi (Il danno scolastico, la scuola progressista come macchina della diseguaglianza, La Nave di Teseo, 2021) sarebbe un allarme nostalgico se non infrangesse un mito della cultura progressista.
Alla base di tante recenti riforme, vi è l’intento lodevole di favorire le classi meno abbienti. Tuttavia proprio queste categorie sono penalizzate dalla semplificazione degli studi, dalla rimozione di ostacoli ed esami, dalla scuola scadente. In questo modo, si preclude proprio a coloro che ne hanno più urgenza la possibilità di conoscere, di impossessarsi di strumenti conoscitivi. Almeno nell’apprendimento, l’approccio democratico è controproducente, non rimuove le diseguaglianze. Toglie insomma alla scuola il ruolo di ascensore sociale.
Il linguaggio non è solo forma, pur importante, è bellezza, cultura, umanità. La didattica della scrittura richiede uno spazio quotidiano, dedicato, non occasionale. C’è un rapporto diretto e reciproco tra apprendimento e scrittura. La lettura su cui si basa lo studio richiede un efficace confronto con la realtà e la ricerca di mezzi espressivi adeguati.
La scrittura è il mezzo da utilizzare per questa virtuosa connessione tra il pensiero individuale e la realtà circostante, quella che ciascuno può intuire e l’altra, percepita e interpretata dai grandi. Bisogna muoversi alla ricerca delle strategie espressive per cogliere la pluralità di generi e seguire la diversità di temi.
Alla fine conta, come in tutte le cose, la motivazione a fare. Può essere data dalla percezione del valore comunicativo della lingua, dalla consapevolezza della sua utilità pratica non solo formale. Si tratta davvero di una risorsa comune ad ambiti diversi, in grado di unire orizzonti. Terreno comune a tanti campi del sapere oltre a quello classico e letterario.
La padronanza espressiva è una esigenza che può essere condivisa da molti, anche da chi pratica studi classificati con l’acronimo modernista “Stem”, che raggruppa Science, Technology, Engineering e Mathematics. Il vecchio dilemma tra cultura umanistica e discipline tecniche forse ha fatto il suo tempo, appartiene ad un’epoca che ci siamo lasciati alle spalle.