Come sarà il mondo quando alla generazione cresciuta nei social media passeranno le redini del potere nelle stanze dei bottoni dei paesi più potenti del mondo? Già, sempre se ci arriveremo a quel giorno con ancora questo mondo. Chi sta attraversando gli anni della bella gioventù a “pandemia e tiktok”, sarà in grado di affrontare meglio delle generazioni cresciute a “sex, drugs and rock’n’roll” o “disco & tv”, certi problemi che potrebbero farci sparire tutti da questo pianeta, come sono il “climate change” o le pandemie a varianti continue?
Il sociologo ed esperto di media Francesco Pira ha scritto Figli delle App: le nuove generazioni digital popolari e social-dipendenti, uno studio ventennale che raccoglie dati e analisi di chi, da una cattedra dell’università di Messina, tiene il polso sugli effetti che i social-media stanno avendo soprattutto sui giovani, e non solo quelli italiani. A Pira, che da anni scrive la column “Tutto scorre” sulla Voce di New York, per questa intervista abbiamo posto tante domande perché il tema ci sembra non solo di grande attualità, ma di assoluta emergenza.
In Homo videns, anche Giovanni Sartori analizzò gli effetti sui giovani della tecnologia di comunicazione e come impatta sul futuro delle generazioni che avranno poi la responsabilità della società: quanto il quadro fosco del politologo della Columbia University di un quarto di secolo fa sarebbe addirittura peggiorato con l’avvento dei social?
“In Figli delle App ho ripreso alcuni concetti espressi sia da McLuhann, Sartori, Popper, Mariet, che avevano investigato sull’impatto della televisione ed in particolare bambini e adolescenti. Ed è vero che la televisione ha innescato processi che si sono espansi nell’era della società delle reti, “il dover far vedere” ingenera il desiderio o l’esigenza di farsi vedere” come sosteneva Sartori. La televisione ha per prima dato vita a quei processi di iper-rappresentazione e in particolare la vetrinizzazione che è cardine nei social media, e che ci fanno meglio comprendere come il passaggio dall’era della comunicazione analogica a quella digitale stia modificando in profondo il modo con il quale si generano i flussi comunicativi e il sistema di relazioni che da essi deriva.
La tecnologia è un fattore di sviluppo e di crescita formidabile, l’evoluzione della società occidentale lo dimostra. Ma quello che preoccupa da sempre è il modo in cui la tecnologia viene utilizzata, le finalità per cui viene impiegata, senza che questi interrogativi si pongano come un freno allo sviluppo, ma accompagnandolo attraverso una costante verifica, una riflessione che consenta di intervenire perché l’uso distorto venga eliminato oppure limitato, perché alle esigenze del profitto non si sacrifichino la salute fisica e mentale degli utilizzatori, in particolare dei bambini e degli adolescenti. Se lasciamo che sia la tecnologia a guidarci e non noi a governarla essa si diventa “accudente”, come spiega la Turkle il tempo che le concediamo trasforma la dimensione stessa del tempo, ma a questo si aggiunge il fatto che gli individui ritengono che vi possa essere uno scambio equo tra ciò che la tecnologia acquisisce, il potere dell’algoritmo indagato da Parisier nel 2013, e ciò che si ottiene in cambio. Stiamo entrando nell’era della robotica, il rapporto uomo-macchina si sta trasformando in modo profondo. Non abbiamo ancora compreso le dinamiche e le loro conseguenze, lasciare che la tecnologia si sostituisca all’uomo anche nelle funzioni primarie, rappresenta un grave rischio”.
Pandemia e Social Network: sembra una miscela micidiale per le nuove generazioni. L’accoppiata Covid -TikTok sta rendendo l’isolamento la malattia incurabile dei nostri giovani?
“Su questo ho letto e mi sono documentato davvero tantissimo sulle dinamiche sociali relative alla pandemia. L’isolamento risulta essere uno dei dati più allarmanti. Tra gli innumerevoli articoli che mi hanno fatto riflettere c’è stato quello del portale Huffingtonpost, scritto da Ilaria Betti, che ha riportato i dati condivisi da Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Vicari ha dichiarato, al portale Huffingtonpost, la presenza di due fenomeni molto gravi: “Abbiamo da una parte adolescenti che per autoaffermarsi diventano aggressivi, fanno male agli altri, fanno male ai genitori, si tagliano, diventano intrattabili. Dall’altra, abbiamo i giovani che si chiudono a riccio, si rifugiano nel loro mondo e nella loro stanza e non sappiamo se avranno voglia di uscire fuori da questo guscio, una volta passata la tempesta. Il fatto è che la pandemia sta facendo aumentare lo stress e lo stress facilita la comparsa di una serie di disturbi, principalmente disturbi d’ansia, disturbi del sonno e depressione. Aumentano per una serie di fattori: prima di tutto, c’è la paura di ammalarsi che i bambini e i ragazzi ‘respirano’ dentro casa. Poi c’è l’assenza del gruppo dei coetanei che fa da ammortizzatore. Un adolescente – lo siamo stati tutti e lo sappiamo benissimo – parla poco con mamma e papà. Se deve raccontare un problema preferisce confrontarsi con un amico, con il compagno di banco. Questa interazione in presenza non c’è più e a distanza non è la stessa cosa”. Condivido il suo pensiero, poiché questo cambiamento di stile di vita ha acuito dinamiche che palesano disagi già latenti nei nostri giovani. La relazione virtuale, di qualsiasi natura essa sia, non può mai compensare la relazione vissuta in concretezza nella realtà di tutti i giorni, anzi diventa frustrante. Inutile negare i dati, durante la pandemia sono aumentati del 30% i ricoveri per autolesionismo o suicidi. Questo è veramente assurdo. Sono tantissimi i ragazzi e le ragazze che si fanno del male, continuano a farsi del male e vivono nell’assoluta solitudine”.
Citi spesso il pensiero del grande sociologo Zygmunt Bauman, quando afferma che il consumismo tecnologico, in questo caso il consumo social on line, rischia di trasformarci in individui senza storia, identità e in piena solitudine. Che fare per invertire la rotta? Siamo ancora in tempo?
“Io sono un ottimista e sono certo che si può fare qualcosa. Oggi credo che i modelli tradizionali di educazione siano superati e serva un nuovo approccio alla formazione delle nuove generazioni. Siamo di fronte ad una sfida di rilevanza globale che può essere realizzata solo se si dà vita ad una nuova alleanza. Bisogna innescare un nuovo processo culturale che deve investire tutti i settori più importanti come: la politica, il mondo dell’informazione, il sistema dell’istruzione e della conoscenza. Se ciascuno riesce a recuperare il proprio ruolo e torna ad essere una guida, costruendo nuove regole e non semplicemente adottando regole e strumenti che l’industria del web (e quindi in parte della disinformazione), realizza per alimentare il proprio business, allora sarà possibile invertire l’attuale tendenza. Solo la cultura e gli strumenti d’interpretazione possono sostenere gli individui e la società nel suo complesso. La formazione è importante e credo non si debba smettere di educare tutte quelle figure che devono guidare nel loro percorso di crescita le nuove generazioni. Non mi stancherò mai di sostenerlo, serve educare ai sentimenti ed è necessario rispolverare quei valori che non esistono quasi più, come il rispetto dell’altro e dell’altrui diversità”.
Hai visto il film “Don’t Look Up”? È questo il mondo che ormai ereditiamo dalle generazioni degli “homo videns” poi passati ad essere “utenti social”? Ma con i figli delle app si può cambiar rotta o con loro alle leve di comando l’impatto sarà ancora peggio?
“No, non ho ancora visto il film, anche se sono un utente Netflix. Ho letto diverse recensioni e sto seguendo il dibattito che ne è scaturito sui social. La tua domanda mi ha stimolato ad una riflessione prima di tutto sul ruolo che un film può avere nell’aprire il dibattito su temi di così grande rilevanza per il nostro futuro come la questione ambientale e la disinformazione. Molti sono i film che nel passato hanno posto questioni controverse al centro della narrazione e hanno così offerto l’occasione per un dibattito pubblico. Quanto poi questi abbiano davvero inciso sulla società credo che sia difficile da stabilire. Il cinema è arte, ma è anche svago, è viaggio e sogno allo stesso tempo. Don’t Look Up nasce come film satirico, un’impresa difficile in questo nostro tempo, dove il senso dell’ironia e della satira, sembra lasciare troppo spesso lo spazio alla battuta ovvia, a volte un po’ becera. Mi riservo comunque di vedere il film, tenendo in debito conto tutte le valutazioni, ma libero di farmi avvolgere dalle atmosfere del film prima di stilare un mio personale parere. Detto questo, non mi sottraggo alla seconda parte della domanda. Ribadisco quanto ho affermato in apertura di questa intervista: serve un nuovo approccio. Ma dirò di più, serve uno sforzo per recuperare la capacità di trasferire conoscenza, a partire dalla storia, se non conosciamo da dove veniamo non saremo mai in grado di capire dove stiamo andando e men che meno di governare i processi che stanno attraversando la società. Rischiamo davvero di diventare individui orwelliani, senza identità né dotati di intelligenza emotiva. La delega che stiamo affidando alla tecnologia è troppo ampia e stiamo dimenticando come si pensa: penso dunque sono, come teorizzava Cartesio”.
Il terzo capitolo è interamente dedicato ai risultati della survey online “La mia via ai tempi del Covid.” Condotta nel periodo aprile – maggio 2020, ha coinvolto in totale 1.858 ragazze e ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori che hanno risposto ad un questionario online composto da diciassette domande. I dati evidenziano come questi adolescenti rappresentino a tutti gli effetti la prima generazione digitale. Quale è il risultato più inaspettato di questa indagine? Quello che ti allarma di più? Quello che non hai trovato e che invece cercavi?
“I dati che ho raccolto mi hanno aiutato a capire le nuove dinamiche relazionali dei giovani. In particolar modo quello che mi ha allarmato di più è la percentuale che vede Instagram e TikTok i due social network in assoluto abitati da bambini, preadolescenti e adolescenti. In particolare, TikTok è prevalente fino a 14 anni e Instagram dopo i 14. Ma pensiamo che Tik Tok dovrebbe essere vietato ai minori di 13 anni. Eppure, è popolatissimo dai giovanissimi. Mi sono chiesto come sia possibile che i bambini riescano ad accedere così facilmente e perché gli adulti non riescano a vigilare abbastanza. Poi la messaggeria veloce. WhatApp è molto usato da tutti. È il mezzo con cui si comunica con la famiglia ma si possono anche compiere atti di cyberbullismo, sexting, revengeporn e body shaming. Esiste di fatto una cross-medialità che non si può controllare.
Come se non bastasse i giovani usano piattaforme poco conosciute dagli adulti. Mi riferisco a Tellonym, molto amato, con una crescita incredibile. Certo lontana da quella di TikTok, che vanta oltre 1 miliardo di utenti. Inoltre, è emerso l’uso di profili falsi a cui i ragazzi ricorrono per svariate motivazioni ed è davvero grave. Quello che avrei voluto trovare è la presenza di giovani meno soli e che invece vivono il dramma di tante mancanze nella loro vita”.
I social stanno cambiando anche l’agenda della politica. Grandi influencer come Chiara Ferragni e Fedez sono in grado di smuovere le masse… Anche nel caso dell’Assalto al Congresso, gli strumenti sono stati i social. È un bene o un male che queste piattaforme entrino così prepotentemente in politica? C’è bisogno di più controlli dai governi? Non è pericoloso che a gestire tutti questi dati siano le grandi corporazioni?
“Non credo ci sia il demonio dietro queste società che gestiscono i social. Ma imprenditori che hanno fiutato quanto siamo disposti a cedere le nostre emozioni, la nostra privacy, la nostra intimità per farci giudicare e approvare dagli altri. Chi gestisce i social network o in generale piattaforme di successo vuole soltanto ottenere il massimo dalla profilazione dei suoi iscritti e guadagnarci un bel po’. Non a caso sono i più ricchi del mondo. Tutti hanno bisogno di loro. Nessuno ormai può più farne a meno. Una volta i più ricchi del mondo erano quelli che costruivano auto, aerei, navi o i titolari di grandi gruppi tessili. Oggi sono gli imprenditori a capo di Amazon, Google, Microsoft, Facebook-Instagram-WhatsApp. Fanno il loro lavoro. Con le regole nazionali che non riescono a gestire grandi gruppi mondiali. Fedez, Ferragni, il loro bimbo Leone e la piccola Vittoria sono seguitissimi dai propri followers perché gli utenti tendono a promuovere i racconti che sono in linea con il proprio punto di vista. Gili descriverebbe il fenomeno come “vivere immersi in una struttura relazionale di consenso che agisce come sistema di specchi che riflette sempre e in ogni modo la stessa immagine, diventa possibile credere anche a ciò che al di fuori apparirebbe del tutto in-credibile”.
L’Italia, in questi ultimi due anni, sta attraversando un terribile momento dovuto alla diffusione del virus Sars-Cov-2 e i Ferragnez hanno cercato di aiutare e dare il loro contributo. Ricordo che il Premier Conte ha deciso di contattare la Ferragni e Fedez per sensibilizzare le nuove generazioni ad indossare le mascherine. Tantissime le critiche per la scelta del Premier, ma secondo me ha sbagliato chi si è scandalizzato. La coppia ha milioni di followers, sulla lotta al Covid ha raccolto 4 milioni di euro per le terapie intensive. Gli influencer si chiamano influencer perché attraverso i loro messaggi su Instagram riescono a convincere con le loro parole, e con una potente capacità comunicativa, tutte le persone che li seguono. Attraverso stories, post e foto, spingono la gente ad assumere determinati comportamenti. Dar vita ad una campagna sociale, come quella di far indossare a tutti le mascherine, è stato davvero importantissimo. Non trovo adeguate le polemiche sui Ferragnez, perché i loro annunci riescono ad essere sempre forti, diretti e convincenti.
Ha fatto bene l’allora Presidente del Consiglio a contattarli, poiché la sua scelta ha permesso ai giovani con i loro codici comunicativi, con il loro linguaggio e il loro slang, di comprendere un messaggio importantissimo, legato alla prevenzione e alla salvaguardia della propria e dell’altrui salute. I social possono essere usati in maniera costruttiva e i Ferragnez ci sono riusciti, donando denaro alle strutture ospedaliere. Ricordiamoci che proprio a dicembre Fedez, grazie alle vendite del suo nuovo album, ha donato un maxi-assegno di 200mila euro alla Fondazione Tog, specializzata nella riabilitazione dei bambini affetti da patologie neurologiche complesse”.
È sempre più chiaro che i social possono diventare una minaccia alla democrazia. In particolare, Facebook, la creatura di Zuckerberg è stato accusato di questo. Ne sono consapevoli i giovani? Censurare i social: si può in democrazia limitare la libertà d’espressione?
“Io non sono per la censura, ma credo molto nell’educazione all’uso delle nuove tecnologie. Quello che manca è una corretta educazione, l’informazione e la conoscenza. Assistiamo alla continua presenza di episodi di odio online. In generale, dovremmo riflettere prima di pronunciarci su qualcuno sui social o prima di postare un’immagine che possa danneggiare un’altra persona o più persone. Bisogna riuscire a regolamentare le cosiddette “piazze virtuali”. Continuo a ripetere quanto sia necessario educare le nuove generazioni al rispetto e alla considerazione degli altri. Viviamo in un’epoca fatta di tanti “ismi”, dove il cattivismo non lascia spazio all’amore e al rispetto”.
Giovani o meno giovani, si fa un uso spropositato di queste piattaforme: Instagram e Facebook hanno il potere di fagocitarti. Il tempo passa senza nemmeno rendersene conto. Mettere per legge dei limiti al tempo trascorso sui social: potrebbe funzionare? Come la chiusura ad una certa ora dei pub in Inghilterra…
“Ribadisco che per me è necessario educare e serve la presenza dei genitori che vigilino sui figli, attivando anche il parental control. Non tutti ancora sanno che esiste il parental control per verificare a quali pagine accedono i propri figli e quanto tempo trascorrono in rete. Riuscire ad educare i genitori sarebbe una grande conquiste, evitando la caccia alle streghe”.
Quanto un like sotto un post, un commento può influenzare l’umore di una persona. Secondo la scienza il cervello non è in grado di distinguere un dato reale (percepito attraverso i 5 sensi) da un dato non reale e quindi virtuale. I social permettono di creare “vite parallele”. Ovvero si pubblica quello che si vuole mostrare agli altri. Apparire piuttosto che essere. Per esempio: anche se si è tristi, si vuole apparire a tutti i costi felici. Quella felicità fittizia, quanto influenza nella vita reale? O viceversa?
“Un like su Facebook o un cuoricino su Instagram possono cambiare l’umore di un preadolescente o di un adolescente. Un bisogno di essere sostenuti, rassicurati, accettati. Il modo di approcciarsi ai social dei nostri figli mostra la complessità e le contraddizioni della vita sociale dei ragazzi sulla rete, le loro fragilità emotive e le loro insicurezze. Si tende ad appagare il nostro desiderio di felicità, mostrando una parte di noi che forse non esiste nemmeno. Credo sia molto triste, perché si pensa più all’immagine da dare agli altri che a se stessi. Ci chiudiamo all’interno di una bolla virtuale, lontana dalla realtà”.
Il problema dei profili falsi nei social. Hai scritto che “insito nel DNA stesso di un falso profilo, è l’interiorizzazione di una visione distorta del principio di tutela della propria privacy. Più in generale appare evidente, una volta di più, come nell’era liquido-moderna l’inganno sia diventato centrale nei processi di comprensione del reale, e la distinzione tra vero e falso non sia più percepita”. Anche le fake news attecchiscono nei social perché essere e quindi credere nel “fake” non è più l’eccezione ma la realtà?
“Esatto. Sono 38 milioni gli italiani (il 75,5% del totale, che salgono al 94,5% tra gli over 65enni) che durante la pandemia hanno cercato informazioni sul Covid-19 sui media tradizionali, come televisione, radio e stampa. Una percentuale non indifferente, ma posso affermare con certezza che il fenomeno delle fake-news si è confermato in tutta la sua gravità anche in questa occasione. Piaccia o no, la nostra società è pervasa dall’uso irresponsabile delle notizie, che ha dilagato anche durante l’emergenza coronavirus. Non bisogna mai dimenticare questo problema, guai ad abbassare la guardia. Le fake news rappresentano il grande nemico della credibilità dei media e il motore della post verità e non si tratta di un fenomeno a carattere casuale o episodico. Assistiamo, purtroppo, ogni giorno a una vera e propria invasione di questa tipologia di notizie. E sono i numeri a sottolinearlo: a quasi il 60% degli italiani è capitato di considerare vera una notizia letta su Internet che poi si è rivelata falsa, mentre il 23% ha condiviso in rete contenuti per scoprire successivamente che erano infondati. In particolare, le principali vittime delle fake news sono coloro che sulla rete vanno in modo saltuario. L’utilizzo degli strumenti digitali, nonché delle piattaforme, è uno degli aspetti più interessanti da analizzare nell’emergenza. Qualcosa di molto serio è successo se, dopo un mese di Covid in Italia, Facebook si è posto il problema di capire come fermare le fake news. Diventa evidente che le fake news destrutturano anche la credibilità dei social network. Le analisi riportate da Facebook hanno dimostrato come la gente ha condiviso le notizie senza nemmeno leggerle ed è stato questo il problema più grave soprattutto nella prima fase della pandemia e poi dell’arrivo dei vaccini”.
Si parla di “vetrinizzazione dell’io”. Lo spieghi nel libro dicendo che i giovani ormai “vetrinizzano” ogni momento della loro vita. Che significa? E che conseguenza si hanno sulla autostima e quindi crescita caratteriale delle nuove generazioni?
“Una delle caratteristiche principali che emergono dalla mia ultima ricerca, relativa alle dinamiche comunicative social, è l’individualismo, la concentrazione su di sé. Il voler offrire una certa immagine di sé agli altri attraverso i social network, giungendo a limiti estremi. Ecco il perché di sfide assurde e pericolose che i giovanissimi decidono di intraprendere, esponendo la propria immagine senza alcuna protezione e mettendo a rischio la propria vita. L’elemento principale da non sottovalutare è quel sentiero della solitudine che i giovani hanno iniziato a percorrere. Sempre connessi col mondo, ma sempre più isolati e chiusi in sé stessi. Un processo che spinge a riflettere ancora una volta sui rischi della “vetrinizzazione” di cui ha parlato il sociologo Zygmunt Bauman “oggi non siamo felici ma siamo più alienati, isolati, spesso vessati, prosciugati da vite frenetiche e vuote, costretti a prendere parte a una competizione grottesca per la visibilità e lo status”. Le conseguenze possono essere, in alcuni casi, gravissime. Quando sui social vieni insultato o deriso è chiaro che si hanno pesanti ripercussioni sulla propria autostima e le conseguenze possono essere davvero tante”.
Gli influencer: parli ovviamente nel libro di Chiara Ferragni e di Fedez e non solo. Scrivi dei loro effetti sulle giovani generazioni. Scrivi che i social sono “il luogo di democratizzazione del privato, dell’auto rappresentazione, dell’auto-narrazione…”. Non ho capito se ne pensi bene o male: ci vorrebbe per caso la patente da influencer?
“Significa che si è creata un’identità iperfluida, in continuo divenire che si plasma per ottenere il miglior gradimento all’interno delle reti social. La connessione ci consente di relazionarci con più pubblici contemporaneamente attribuendo nuovo significato allo spazio e al tempo, dove prevale il tutto e ora, il presente che annulla passato e futuro. L’estrema fluidità diventa fragilità se si concretizza nel bisogno di incontrare il gradimento degli altri come unico obiettivo, piuttosto che quello di esercitare un ruolo sociale. Le relazioni social sono spesso caratterizzate da un’estremizzazione delle emozioni e la ricerca continua di forti emozioni, come se i contenuti digitali fossero un filtro che ammortizza le emozioni o rendesse le stesse altro da sé.
Le azioni sono orientate a seguire di volta in volta sciami di individui che si aggregano intorno ad un’emozione prevalente, pronti ad inserirsi in un’altra tribù appena questa perde di stimolo. Non ci serve una patente, ma una giusta comprensione del fenomeno e una corretta educazione delle piattaforme social”.
Cyberbullismo e sexting: le chiami le nuove devianze. Quanto sono diffuse in rete? I figli dell’app ne sono prede come quelli degli anni settanta lo erano delle droghe?
“Sì, due fenomeni che stanno prendendo il sopravvento ossia: il cyberbullismo e il sexting. Il cyberbullismo è l’espressione in Rete di un fenomeno più ampio e meglio conosciuto come bullismo. Oggi le nuove tecnologie consentono ai bulli di contattare le vittime, di presentarsi in ogni momento della loro vita, perseguitandole con messaggi, immagini, video lesivi della propria dignità, inviati tramite smartphone o pubblicati sui siti web tramite Internet. Il bullismo diventa quindi cyberbullismo. Il cyberbullismo definisce un insieme di azioni aggressive e intenzionali, di una singola persona o di un gruppo di persone, realizzate mediante strumenti tecnologici ( foto, video, email, chat, messaggistica istantanea, siti web, video chiamate), il cui scopo è quello di danneggiare un coetaneo che non è in grado di difendersi e di proteggersi. Una violenza a tutti gli effetti che spesso rimane taciuta. Mi sono occupato in diverse occasioni di violenza sui minori, soprattutto in relazione ai reati legati al cyberbullismo. La cronaca riporta episodi quasi quotidianamente e i danni provocati alle vittime possono essere davvero molto gravi e molto seri. Il sexting rappresenta la tendenza di scambiare messaggi con contenuti altamente erotici da inviare alla persona che si vuole conquistare. Lo scambio di messaggi sessualmente espliciti, magari attraverso la messaggistica istantanea o i social network, può diventare molto insidioso. Tantissimi sono i rischi legati a questa pratica, poiché le immagini e i video possono essere inviati ad estranei, senza che l’interessato ne sia a conoscenza. Molti gli articoli, e le interviste delle vittime, che affrontano uno dei problemi più gravi legati al sexting ovvero la trasmissione delle foto su Telegram e Instagram. I social finiscono, molto spesso, al centro di polemiche e battaglie legali. Come se non bastasse queste foto possono essere diffuse in rete dal partner, trasformandosi in revenge porn. La coppia decide di girare un video in un momento d’intimità, ma dopo la separazione uno dei due partner decide di pubblicare tutto sul web per vendicarsi. Scoprire la pubblicazione in rete di uno dei propri momenti personali, può generare senso di colpa e vergogna con conseguenze estreme per la vittima. Dispiace dirlo, ma i “figli delle app” sono facili prede”.
Quando affronti il tema degli emoticon ed emoji, dici che sembra di essere tornati a livelli di comunicazione di 25 mila anni fa, di essere tornati ai “pittogrammi”. Scrivi: “un processo che in funzione del bagaglio culturale del lettore, genera una lettura che può essere: egemonica-dominante, negoziata. oppositiva. Siamo di fronte di nuovo a un esercizio di semplificazione e di omologazione dei codici linguistici, che si sconta con la complessità dei processi di decodifica dagli esiti imprevedibili”. Puoi spiegarci meglio a cosa pensi su questi esiti imprevedibili?
“L’arrivo nella società dei primi cellulari ha cambiato il nostro modo di comunicare e le nostre vite. Gli iphone e gli smartphone, di ultima generazione, consentono di connettersi in rete e comunicare in modo veloce e pratico. Abbiamo smesso di inviare biglietti d’auguri, telegrammi e missive di ogni sorta, perché adesso affidiamo tutto alla messaggistica istantanea. Un sistema immediato e veloce. Quanti di noi, oggi, riuscirebbero a fare a meno di Whatsapp? Credo, nessuno. Una rivoluzione che ha travolto il mondo a partire dal 2009. Ormai basta muovere le dita sullo schermo, rigorosamente touch screen, per aprire e chiudere innumerevoli applicazioni presenti. Whatsapp non è l’unica applicazione di messaggistica istantanea, perché esistono tante altre applicazioni di questo tipo come ad esempio: WeChat e Telegram. Ogni piccola emoticon lancia un messaggio e tramite la rappresentazione simbolica assume un significato specifico. Le emoticon e le emoji sono davvero tantissime e, di tanto in tanto, vengono aggiornate con nuove espressioni Abbiamo la faccina che sorride, quella che manda i bacini o quella che arrossisce o che piange. Moltissime le faccine innamorate con gli occhi a cuoricino o con tanti cuoricini in testa. Ognuna esprime uno stato emotivo, emozionale o sentimentale. Da qualche tempo possiamo aggiungere gli stickers o le gif ai nostri messaggi. Ormai, stickers e gif sono presenti anche su Facebook sia nell’area dei commenti ai post e sia nello status personale. Penso che bisogna accettare questo cambiamento della comunicazione e questo nuovo linguaggio. Uno sguardo verso il futuro ci fa immaginare una realtà ancora più tecnologica. L’unica certezza che abbiamo è che ormai senza la tecnologia non riusciamo ad esprimere noi stessi ed una piccola emoticon può dire molto di noi, compreso quello stato d’animo che le parole non riuscirebbero ad esprimere al meglio”.
L’ultima trovata di Zuckerberg si chiama “metaverso”: un mondo parallelo fatto di spazi tridimensionali che coinvolgerà almeno tre sensi (vista, udito e tatto). Che pericoli ci vedi e quali opportunità per i “figli delle app”?
“Il nome che Zuckeberg ha accuratamente scelto, per realizzare il suo sogno virtuale, è Meta abbreviazione di Metaverso. Una sorta di monitoring algoritmico che consente a questo gigantesco Big Brother di essere a conoscenza di tutto quello che ci riguarda e di indurci a comportamenti precisi. Ovviamente, tutto ruota nella particolare dimensione del Metaverso. Un universo reale e virtuale, tutto insieme, tutto quasi concreto, tutto da esplorare. Il pericolo credo risieda nel saper distinguere l’online dall’offline.
Bisognerà capire quale conto pagheremo in termini di “sorveglianza” e di relazioni sociali. Le opportunità, secondo me, sono legate alla possibilità di gestire lo studio e il lavoro da casa in situazioni di emergenza, fermo restando che la vita reale è qualcosa di ben diverso.”