Si sente a casa solo quando scrive e considera la scrittura come parte fondamentale della propria identità. Nata ad Aosta e laureata a Venezia in Lingue Orientali, Chiara Marchelli ha vissuto in Belgio e in Egitto prima di trasferirsi a New York, dove vive dal 1999. Nel 2003 ha pubblicato il suo primo romanzo, Angeli e cani (Marsilio), che ha vinto il Premio Rapallo Carige Opera Prima, e nel 2007 una raccolta di racconti, Sotto i tuoi occhi (Fazi) e, per Piemme, L’amore involontario (2014) e Le mie parole per te (2015). Dal 2004 insegna italiano, traduzione e scrittura creativa alla New York University e collabora con varie agenzie e case editrici americane e italiane come editor, copywriter e traduttrice.
A La VOCE di New York raccontato del suo rapporto con la scrittura e di cosa occorre per essere bravi scrittori.
Una laurea in lingue orientali con specializzazione in lingua araba e un passato vissuto in Belgio e in Egitto. Sembra che New York fosse, apparentemente, una destinazione lontana..
“Ho scelto di studiare arabo perché l’ultimo anno di liceo mi sono innamorata dei romanzi di Naguib Mafouz. Mi sono laureata in lingue orientali e ho, durante l’università, iniziato ad avere un certo interesse per la geopolitica. Sono arrivata a New York per curiosità, perché avevo bisogno di un cambiamento, di iniziare un nuovo capitolo. Ma anche per una serie di coincidenze che mi hanno portato qui. Dopo l’Egitto, ho lavorato in un hotel di Venezia molto frequentato da americani e mi è venuta la curiosità di conoscere New York”.
La tua tesi di laurea nel 1997 aveva come oggetto il nazionalismo arabo. Alla luce di quello che è accaduto, come rivedi quello che hai scritto?
“Certamente non ho gli strumenti adeguati per una valutazione accademica, socio-politica e antropologica perché mi sono allontanata da quegli argomenti e non li ho approfonditi, dal punto di vista accademico. Ricordo però che ho lasciato il Cairo con un forte senso di frustrazione per il modo in cui gli egiziani vivevano la loro quotidianità, ancora da colonizzati. Poi ci sono state le primavera arabe, quella egiziana, che alla fine non ha portato grandi cambiamenti. Mi oppongo ad ogni forma di brutalità e mi piacerebbe saperne di più rispetto a questi fatti. Chi sta dietro queste persone, chi fornisce loro le armi?”.
Molti dei tuoi romanzi sono ambientati in Italia e a New York. In che modo l’Italia che hai lasciato a 19 anni riemerge nella tua scrittura?
“Ci sono i ricordi, c’è la memoria, c’è anche l’Italia reale che nasce dai racconti della mia famiglia. Anche se trascorro molto tempo nel mio paese, mi rendo conto che non vivo più la quotidianità che si è fermata al tempo in cui ho lasciato Aosta. E poi c’è sempre questo ideale, questo paese che non esiste, questa pulsione verso il ritorno che è il tema principale del mio scrivere”.
Per te cosa diventa la scrittura, vivendola anche dalla prospettiva di un’italiana espatriata?
“L’unico posto dove mi sento a casa e che mi fa sentire in pace, che placa questo mio cercare altro e altrove dove le radici sembrano ricostruire nuove identità. La mia identità, il mio modo di essere al mondo. Non riesco ad immaginarmi altro dalla mia scrittura. È un bisogno primario: come bere, mangiare. È un filtro che nel quotidiano diventa strumento per valutare i miei incontri, quello che mi succede”.
Da dove nascono le tue storie? Dentro di te o fuori di te?
“Entrambe le prospettive sono necessarie. Sono interessata all’umanità, non vedo l’individuo come un'entità isolata. In tutto quello che scrivo c’è una parte di me, se non nelle esperienze, nei sentimenti. Quello che per me è importante è la rielaborazione della mia vita attraverso la scrittura, il trasmettere i sentimenti e la visione delle cose. Questo per me è l’elemento autobiografico”.
Nell’ultimo tuo romanzo Le mie parole per te, affronti il tema dell’omosessualità. In che modo hai deciso di affrontare questo tema delicato?
“È venuto da sé. Volevo raccontare una storia d'amore, cosa che non avevo mai fatto, e la storia ha preso questa forma: due donne, una sposata e l'altra no. Come nascono certi scenari spesso rimane un mistero. Può succedere che una notizia ci colpisca (come nel caso del mio primo romanzo, Angeli e Cani, che trattava del mercato nero di bambini tra Europa e Stati Uniti), oppure che la storia di qualcuno che incontriamo o di cui sentiamo parlare ci rimanga dentro. Oppure può anche essere che l'immaginazione faccia il suo corso, e che la storia venga fuori con dei connotati particolari e suoi”.
Come identità, migrazione e scrittura, sono mutati, si sono legati tra di loro nella tua esperienza? Come sono cambiati?
“Credo che per quello che mi riguarda questi tre elementi, tutti estremamente importanti, siano legati tra loro. Sarei probabilmente stata una scrittrice anche se non mi fossi mossa da casa, ma poi chissà, difficile capire cosa saremmo stati fuori della nostra realtà”.
L’amore involontario, il tuo romanzo pubblicato nel 2014 parla di una storia complicata tra un fratello e una sorella. Quali sono gli amori involontari?
“Prima di scrivere questo libro pensavo che ci fossero due amori: quello volontario, sentimentale, e quello involontario, che non si sceglie. Poi ho capito invece che tutti gli amori sono involontari perché si ama qualcuno, come il nostro compagno, marito, non per un motivo specifico”.
Elena Ferrante è un’autrice contemporanea molto letta in America. Perché dopo Calvino, è difficile che gli autori italiani contemporanei trovino spazio negli Stati Uniti?
“Con Elena Ferrante finalmente si parla di narrativa italiana. In America hanno apprezzato molto Umberto Eco, che non è un vero e proprio narratore, Oriana Fallaci, che è più una giornalista e Italo Calvino, l’ultimo scrittore che in America ha riscosso molto successo. Credo che forse dipenda da diversi fattori. L’America è un grande paese molto accogliente ma che ingloba e non riesce ad andare fuori dai propri confini. E poi la scrittura italiana si distingue molto, da sempre, per la stilistica, meno per la narrativa. Bisogna guardare alla letteratura anglofona per cercare le grandi storie. La letteratura anglofona gira intorno alla storia. Noi italiani non scriviamo grandi e complesse storie come gli inglesi, gli americani. Credo quindi sia una questione di plot, di struttura narrativa. Certe storie italiane sono meno accattivanti per un pubblico americano. Sembra che negli Stati Uniti l’interesse per l’Italia si concentri molto sul cibo, sull’arte del passato, sul turismo, ma meno sulla letteratura contemporanea”.
Cosa occorre per diventare bravi scrittori?
“Leggere, essere curiosi, aperti, lavorare sodo. L’ispirazione dura poco. Il resto è un lavoro sodo ma bello ed appassionante”.