Fidatevi. Non è un altro ennesimo articolo sul “qual’è” apostrofato, un argomento che probabilmente trovereste piacevole quanto le nenie natalizie che talvolta gli zampognari intonano sulle spiagge italiane ad agosto.
Parliamo invece di un argomento molto più generale: la lingua italiana, le lingue tout court e la linguistica.
Non sono un linguista per percorso di studi, ma forse un po’ lo sono per passione e per esperienza acquisita sul campo. In questi mesi, grazie al dibattito sull’annosa questione (il qual’è), sono stato in contatto con linguisti italiani di livello nazionale, inclusi professori universitari.
È stata un’esperienza affascinante che mi ha insegnato, e continua ad insegnarmi, molto.
Se i discorsi di linguistica non vi interessassero, andate pure a leggere qualcos’altro che vi intrighi di più. Non mi offendo.
Se invece l’argomento vi appassiona, leggere questo articolo potrebbe essere istruttivo per capire di cosa parliamo quando parliamo di lingua italiana.
I linguisti. Chi sono costoro?
“La linguistica ha come scopo quello di definire e comprendere le caratteristiche del linguaggio (la facoltà mentale dell’uomo di comunicare attraverso una lingua) attraverso l’analisi delle lingue del mondo: un linguista indaga e descrive quindi le strutture delle lingue per capire come sono quest’ultime e cerca di spiegare perché queste sono come sono (e perché non sono in altro modo)”
E qui cominciamo a intuire che un linguista non è necessariamente un poliglotta. E viceversa. Uno potrebbe conoscere molteplici lingue senza definirsi linguista. WikiPedia stessa offre un’analogia:
“L’obiettivo di un linguista quindi non è quello di studiare le lingue per imparare a parlarle, cioè a comunicare con i parlanti di quelle lingue. La distinzione è parallela a quella che sussiste tra un pilota di aeroplani e un meccanico: il pilota conosce i comandi per pilotare il veicolo e come ad ogni pulsante corrisponda una precisa funzione; un meccanico, invece, conosce le singole parti dell’aeroplano, come queste siano connesse tra loro e come insieme permettano all’aeroplano di volare. Idealmente, un pilota potrebbe non conoscere i circuiti dell’aeroplano e come funzionano e viceversa un meccanico potrebbe non essere in grado di guidare un aeroplano. Parallelamente, un poliglotta è simile ad un pilota, mentre un linguista corrisponde al meccanico.”
Mi sembra un’analogia calzante, tanto più perché “regge” anche nella pratica.
Anche nel mondo degli aviatori i piloti sanno un bel po’ di cose su come funzioni un aereo e i meccanici sanno un bel po’ di cose su come un velivolo lo si piloti. Allo stesso modo, non ho mai incontrato studiosi di linguistica che non conoscessero due o più lingue. E non ho mai incontrato poliglotti che non si facessero domande sulla natura delle lingue alla ricerca dei tratti comuni tra di esse.
A scanso di equivoci, la linguistica è un campo della conoscenza umana di notevole vastità. Per una fotografia che dia l’idea di quanti sotto-campi (e sotto-sotto-campi) esistano, si può guardare la pagina WikiPedia che ho citato o quella della Treccani.
In questo articolo mi concentro su alcune finalità della linguistica.
Ad esempio, spetta ai linguisti elaborare le strategie per spiegare i costrutti delle lingue ed arrivare così a definire la grammatica di una lingua (lessico, sintassi, morfologia e fonetica). La grammatica (incluse le regole ortografiche) è poi alla base dell’insegnamento nelle scuole.
Da questo sembra discendere un corollario: il lavoro dei linguisti può definire cosa sia “giusto” o “sbagliato” in una lingua (osservate le virgolette, presto capirete perché). A cascata, discendono dal lavoro dei linguisti anche i voti più o meno buoni che alunni e studenti ricevono nelle scuole.
Se un alunno scrivesse (o anche semplicemente dicesse) “Se potrei, lo farei”, il malcapitato verrebbe immediatamente corretto dall’insegnante, e forse anche additato a pubblico ludibrio dai compagni. Nella prova scritta di un concorso pubblico il candidato sarebbe bocciato.
Eppure, almeno nel caso del bambino, questa situazione non è necessariamente quella che un linguista vero auspica, né è quello il metodo più corretto per sviluppare le doti linguistiche di un bambino che provi ad applicare, un passo alla volta, le regole del linguaggio che sta imparando.
Spiego meglio.
Linguistica nella pratica educativa: la grammatica dotta e l’italiano delle maestre
Un po’ tutti gli italiani hanno il primo approccio con il mondo della linguistica e della grammatica già in tenera età. L’incontro tra i pargoli (che già parlano italiano, dettaglio importante) con i figli arcigni della linguistica avviene alle scuole elementari. I figli arcigni sono l’ortografia, la morfologia e la sintassi di una lingua colta che, da un certo punto di vista, è solo parente di quella parlata.
Fin da bambini ci insegnano a considerare la grammatica come un unicum di regole sacre e assai poco flessibili. Arrivare a comprendere e ad usare correttamente quelle regole sarebbe il fine ultimo a cui ogni italiano dovrebbe aspirare. E guai a sbagliare.
Ecco a voi la “grammatica dei dotti”, quella insegnata nelle scuole, quella che alcuni hanno chiamato “l’italiano delle maestre”.
Precisando subito che l’obiettivo di dare a tutti gli italiani una base linguistica comune sia encomiabile, occorre osservare come molti linguisti abbiano una visione un po’ più ampia che non la venerazione acritica dell’italiano delle maestre, con le sue regolette inderogabili e la sua tendenza ad imporre registri linguistici elevati distanti dalla lingua usata comunemente.
Per un linguista puro, la grammatica dotta è solo una delle tante grammatiche possibili osservando la comunicazione orale e scritta degli italiani.
Nella scuola italiana le “regole” e le “norme” della grammatica e in particolare l’ortografia sono (o, almeno, sono state) per molto tempo il fondamento dell’insegnamento dell’italiano.
Molti sostengono che sia meglio così. Avere un modello semplice e chiaro a cui fare riferimento è meglio per gli studenti stessi. Il sospetto ovviamente è che sia anche comodo per gli insegnanti avere delle regolette semplici per valutare gli scritti, in modo da non doversi far carico di giudicare scritti magari efficaci ma non aderenti ai canoni fissi di una “lingua colta”.
Descrittivismo e prescrittivismo
L’approccio che pone la “norma dotta” al centro dell’universo linguistico e impone ad ogni altra considerazione di relazionarsi ad essa è definito “prescrittivista”. Le regole sono quelle. Chi trasgredisce sarà esecrato o persino punito, così non sbaglierà più.
È l’approccio che tutti conosciamo dalle scuole.
Però c’è un grosso però. Gli scienziati della lingua, i linguisti appunto, non possono certo fermarsi all’approccio prescrittivista. Parliamo di ricercatori. Menti raffinate che si fanno domande vere intorno alla lingua, tra cui una di importanza fondamentale.
Chi detta le regole di una lingua?
E lì la risposta è, di primo acchito, pressoché unanime: si osserva la lingua così come è stata ed ancora viene usata da parlanti e scriventi, e da quelle osservazioni si estraggono i “modelli” che spiegano cosa vada considerato “giusto” o “sbagliato” (o meglio, più standard o meno standard) dalla grammatica. A grandi linee, questo è l’approccio “descrittivista”.
Oggigiorno, a parole, tutti i linguisti davanti a domanda esplicita si dichiarerebbero descrittivisti. Del resto, trovare un’altra fonte di autorità linguistica avrebbe poco senso per una lingua, l’italiano, nata come “latino maccheronico”, ovvero latino storpiato da gente che in realtà non lo conosceva. Illud, killu, killo, kello, quello… ci siamo capiti.
Se sono tutti descrittivisti, chi è il prescrittivista?
Il prescrittivista moderno non è chi non riconosce la lingua viva come modello (lo fanno tutti), ma chi, data una regola grammaticale dotta in un momento X, indugi oltre misura nel dare un valore forte a quella regola nei decenni a venire, anche davanti a evoluzioni dell’uso in senso diverso. A questo punto è forse meglio usare il nome di “purista” anziché “prescrittivista”. Il linguista purista non si fa problemi a far seguire al non rispetto della “norma dotta” un giudizio morale.
Termini quali “scorretto”, “sbagliato”, “sgrammaticato” assumono così un doppio significato di “non aderente alla norma dotta”, ma anche, in qualche modo, “meritevole di biasimo e riprovazione”. Come si può intuire, questo è un terreno scivoloso per uno studioso, sconfinare nella morale non si addice molto a chi si consideri uno scienziato (di contro, per i sacerdoti di riti esoterici andrebbe benissimo).
Qual’è l’approccio giusto alla lingua? Descrittivo o puristico?
Non si può affermare con certezza che un approccio sia meglio, in assoluto, di un altro. Ad esempio, se foste pubblicisti o correttori di bozze, trovereste utilissimi i dizionari e i manuali di stile. Indicazioni troppo generiche o troppo ballerine su cosa sia da considerare registro popolare e cosa no lascerebbero troppe incertezze per chi, per mestiere, vuole forgiare frasi “a norma” e inattaccabili da tutti i punti di vista.
D’altro canto, si sente ancora gente che condanna il “gli” usato come “a lei” o “a loro” in nome di regole su cui persino la Crusca (che arriva spesso con qualche decennio di ritardo alla festa) ha fatto marcia indietro da tempo, per non parlare, ovviamente, di quel ferrovecchio ottocentesco che la parola “qual” altro non è (e su questo la Crusca non ha ancora capitolato, come sappiamo). Regole troppo severe finiscono per ingessare le capacità espressive degli autori.
Il descrittivismo è stato in generale abbracciato da tutti gli studiosi, inclusi quelli della Crusca, la quale da anni si dichiara descrittivista (se lo sia ancora e lo sia fino in fondo è un tema discusso in questo articolo).
Citando l’articolo apparso su una pubblicazione dell’Accademia (articolo che, per motivi che spiegherò a breve, ha avuto solo alcuni giorni di vita), Giovanni Nencioni, un glorioso presidente della Crusca del passato, scriveva:
«Le lingue naturali non sono algebriche e danno scacco matto ai grammatici e ai loro volenterosi settatori. Mi verrebbe la voglia di maledirle se non fossi loro creato e vassallo»
Che tradotto significa: “lo so che ai grammatici piacerebbe, dopo aver fatto le regole che secondo loro descriverebbero la lingua, sedersi sullo scranno del giudice dell’alta corte e indicare al mondo chi è virtuoso e chi pecca di trasgressione, ma le cose non funzionano così. È chi usa la lingua che decide la direzione in cui essa si sviluppa. I linguisti (grammatici compresi) dovrebbero solo limitarsi a osservare, dal momento che la lingua, semplicemente, non appartiene a loro, ma appartiene alla comunità dei parlanti”.
La lingua è nostra insomma, di noi italiani. Per Nencioni, i linguisti dovrebbero limitarsi a descriverla, a spiegarla, a consigliare gli usi a chi fosse in dubbio, ma scacciando assolutamente eventuali tentazioni dello studioso di salire in cattedra a pontificare basandosi su “norme” che hanno il retrogusto dell’arbitrarietà.
“Qual’è” a parte, chiunque sia un frequentatore abbastanza assiduo delle risposte della Crusca ai quesiti dei lettori (come lo sono io) non può che riconoscere l’approccio di Nencioni nella quasi totalità dei pareri offerti. La recente aura di legittimità offerta a “uscire il cane” ne è forse l’esempio più significativo. La lingua la fanno parlanti e scriventi, e non potrebbe essere altrimenti: un approccio rigidamente prescrittivista diverrebbe, nel giro di pochi anni, assai simile all’imposizione di una lingua morta e i grammatici non se li filerebbe più nessuno.
Di primo acchito tutti descrittivisti, quindi. Ma un minuto dopo?
Se è vero che di primo acchito tutti i linguisti riconoscono la lingua viva come oggetto di osservazione dei loro studi (cioè sono tutti descrittivisti), le cose si complicano, e di molto, un minuto dopo.
La scuola italiana privilegia un approccio purista. Si parla allegramente di “norme” e “regole” da cui far discendere direttamente un giudizio morale su ogni testo prodotto dagli studenti: questo è giusto e quello è sbagliato!, dispongono gli insegnanti di ogni ordine e grado. Con conseguenze significative su come gli studenti si pongono verso l’italiano.
Molti linguisti, invece, danno alle norme ortografiche e grammaticali un peso relativo. Scrivere bene in italiano (o in ogni altra lingua) significa molto di più che non il rispetto delle regolette ortografiche. Occorre sviluppare il lessico, e la capacità degli studenti di capire e “gerarchizzare” le informazioni, mettendo in relazione le une con le altre, elaborandole ed articolandole in maniera comprensibile ed efficace. L’ortografia è più la ciliegina sulla torta che altro. E allora: siamo sicuri che un insegnamento della lingua che parta dall’ossessione per le regole ortografiche e più in generali grammaticali sia il modo corretto?
Ricordando la scuola italiana come l’avevo fatta io, e confrontandola con l’insegnamento di norvegese e inglese impartito ai miei figli in anni recenti nei rispettivi paesi, non posso che rilevare l’assoluta differenza pratica dei due approcci.
Personalmente ricordo l’ossessione per l’ortografia già alle elementari (incluso il “qual è” apocopato, anche se per tutti questi anni non ho capito il perché).
Se osservo come scrive mio figlio in inglese in seconda media, tutta questa ossessione per l’ortografia e la grammatica normata semplicemente non c’è. Eppure riceve voti altissimi in quella materia!
Evidentemente l’approccio è cambiato e gli insegnanti statunitensi, così come quelli scandinavi, sembrano dire:
“Ragazzi, non preoccupatevi troppo della grammatica e specie dell’ortografia. Piuttosto scrivete, descrivete ed esprimete! Fatevi prendere dall’entusiasmo! La grammatica colta e l’ortografia arriveranno dopo, quando sarete voi stessi a rendervi conto della necessità di aderire ad uno standard. Per ora, ci accontentiamo che sappiate tradurre pensieri, opinioni e fatti in parole che formino un testo coerente e comprensibile.”
Sembra esserci un mondo di differenza tra la scuola americana di oggi e quella che ricordo dalla mia infanzia.
È una strategia corretta quella americana? Se dovessi giudicare da ciò che osservo sui social direi di sì.
Il mondo anglofono è pieno di gente che, pur senza essere laureata in inglese, riempie di contenuti il web con articoli, blog e altri interventi online. Persone che scrivono senza preoccuparsi molto del purismo, senza fare particolari errori di morfologia, sintassi e ortografia, ma riuscendo a strutturare i loro pensieri in modo conciso, efficace e coerente.
Posso dire di osservare la stessa cosa nella websfera italofona e italografa? Direi di no. Quelli che scrivono senza vergogna sono gli italiani del “rutto libero”, quelli che farebbero meglio a non scrivere per nulla. Gli articoli dotti sono spesso una palla mortale scritta in italianorum, con periodi aggrovigliati, “annidati” e arzigogolati come una versione di latino lasciata a seccare al sole.
I professori che si avventurano a scrivere sui social (pochi) si preoccupano di terminare i loro scritti con frasi del tipo “Sono su Facebook. Scrivo di fretta. Potrebbero esserci errori. Non sparatemi”. Evidentemente hanno timore anche loro di finire nel tritacarne dei “feticisti dell’ortografia” che imperversano su Twitter e Facebook.
Insomma, c’è il sospetto che il vecchio approccio scolastico orientato al purismo e all’iper-prescrittivismo abbia creato, da una parte, generazioni di persone che hanno paura a scrivere alcunché, e, dall’altra, generazioni di troll dell’ortografia e della grammatica italiane. Più spesso che no, è gente che non ha mai scritto una mazza in vita sua a imperversare sul web pretendendo di avere una qualche superiorità morale, come se il loro mobbing indirizzato a quelli che qualcosa scrivono fosse un servizio alla patria.
Ammettiamolo. L’ italiano delle maestre, creato con l’encomiabile intento di insegnare a scrivere agli italiani, ha finito per rendere poco appetibile la scrittura a generazioni intere di connazionali. Un vero peccato.
Chiacchierata con un linguista puro (non purista)
In questi mesi di discussioni sul “qual’è”, ho percepito come la linea di demarcazione tra descrittivisti e puristi esista eccome, anche all’interno della Crusca. Come spiegato, tutti i linguisti si dichiarano descrittivisti oramai, ma la differenza tra descrittivisti da una parte e puristi dell’altra c’è.
Parlare con un descrittivista vero mi ha aperto un mondo.
“Passani, a cosa serve il congiuntivo?”
“Il congiuntivo è il modo verbale delle ipotesi, professore”.
“No, Passani. Il congiuntivo non serve a trasmettere particolari significati. È semplicemente il modo verbale delle subordinate ereditato dal latino. L’ho dimostrato in un libro che ho scritto sul congiuntivo.”
Questo è un messaggio sconvolgente per un italiano, specialmente per me che, modestia a parte, del congiuntivo sono sempre stato un virtuoso. Eppure, se ci penso, devo ammettere che altre lingue che non hanno il congiuntivo (a parte forse qualche rimasuglio) funzionano comunque alla grande: parlanti e scriventi di quelle lingue comunicano con grande efficacia e le loro letterature hanno prodotto capolavori mondiali.
Che il professore in questione abbia ragione?
“Se potrei, lo farei”
Prendiamo l’esempio quintessenziale di condizionale “errato” (il professore mette sempre la parola errore tra virgolette. Non vuole che qualcuno possa attribuire alle sue parole un giudizio morale): “Se potrei lo farei” al posto di “Se potessi lo farei”. Questa è la frase che, se usata online, autorizza schiere di Napalm51 ad esporre il peccatore a pubblico ludibrio.
Mi spiega il linguista: “farei” indica un condizionale, e non un passato compiuto come “ho fatto” o un futuro come “farò”. Chi dice “farei” ha ben presente che cosa sia il condizionale: un’azione “potenziale” che si verifica sotto certe condizioni. Ebbene, anche il “se” indica una condizione.
Il bambino che dice “se potrei” è il bambino che, costruendo un’ipotesi, correttamente ha individuato l’uso della funzione del condizionale e prova ad applicarlo col se in una posizione in cui ha perfettamente senso. Quel bambino si sta muovendo nella direzione giusta. La regola che vorrebbe il congiuntivo imperfetto (“se potessi”) in quella posizione è dettata da una norma grammaticale colta a sua volta creata dall’osservazione dell’italiano dotto. Quindi non si fa un servizio ad un bambino colpevolizzandolo per una scelta che, in quel contesto, ha perfettamente senso.
Queste sono rivelazioni sconvolgenti per me. Eppure razionalmente mi ci riconosco se penso alle lingue straniere con cui ho familiarità.
Non solo in russo la particella “бы” (buì, pronuncia molto approssimativa) genera sia il congiuntivo che il condizionale, ma, come avevo osservato in un mio articolo, anche nell’inglese americano si osserva una tendenza ad usare il condizionale dove a rigor di grammatica british andrebbero usati i rimasugli del congiuntivo.
Quante scoperte si possono fare sulla natura delle lingue quando si parla con un esperto linguista, quanta fanta-grammatica si insegna e si impara nelle scuole italiane di ogni ordine e grado (e, soprattutto, quante supercazzole la lingua di Dante si è portata dietro dal latino!)
Exit Descrittivismo; Enter Crusca
Dopo tanti discorsi, vi starete chiedendo come si ponga la massima istituzione linguistica italiana, l’Accademia della Crusca, rispetto a tutto questo.
Fino a recentissimamente davo per scontato che il ruolo della Crusca fosse descrittivo, non solo perché questa è stata l’impostazione data da Giovanni Nencioni, ma anche perché tale posizione è stata più volte rivendicata dalla Crusca stessa persino sui social.
Il mese scorso però mi sono trovato coinvolto in uno sfortunato evento che mi ha portato a riconsiderare la cosa. A inizio maggio la Crusca aveva messo in rete il sesto numero della sua pubblicazione “Italiano Digitale, numero 6”. In esso comparivano tre istanze del “qual’è” apostrofato (insieme a “un pò” accentato) a firma del professor Sgroi che ne aveva espressamente richiesto il mantenimento. Sulla questione del “qual’è”, a quanto pare, il professore la vede come la vedo io.
Nell’eccitazione di vedere un “qual’è” apostrofato in una pubblicazione della Crusca, avevo scritto un articolo intitolato “La Crusca sdogana il qual’è apostrofato”.
Mal me ne incolse. La Crusca ha sconfessato pubblicamente di aver sdoganato alcunché, il professore mi ha confermato che anche secondo lui avevo esagerato, dal momento che lui stesso aveva richiesto il mantenimento dell’apostrofato nel suo scritto, e io mi sono scusato per la scelta sbagliata del titolo, poi modificato in “La Crusca sdogana il qual’è apostrofato? No!”
Purtroppo non è finita lì. La Crusca, non paga delle mie scuse, ha deciso comunque di rimuovere gli apostrofi dall’articolo e questo ha portato ad una riedizione di Italiano Digitale 6 senza l’articolo del prof. Sgroi (la prima versione contenente l’articolo del prof. Sgroi può essere scaricata da qui. Pagina 91).
La vicenda mi ha molto amareggiato, ma questo non è il punto. Il punto sono le considerazioni che ne sono scaturite sul ruolo della Crusca e sulla sua natura.
La Crusca nel suo complesso è descrittivista o purista? Sinceramente mi accorgo di non saperlo indicare con certezza, e penso che non lo sappiano neanche i professori della Crusca. Eppure è una domanda non da poco. Mi verrebbe da definirla una domanda “esistenziale” dal momento che riguarda il senso stesso dell’esistenza dell’Accademia.
Cari e stimati professori, qual’è il vostro ruolo rispetto alla nostra lingua? Il vostro scopo è semplicemente consigliare come scrivere, oppure pensate di avere il diritto di dire a noi italiani come dovremmo scrivere secondo le vostre dottissime norme grammaticali?
Checché ne dica la Crusca, ad oggi la questione è ovviamente non risolta.
A parole la Crusca si dichiara descrittivista. Guardando ai pareri dell’Accademia, in effetti, sono molti quelli che rifuggono dall’uso di termini quali “corretto” o “errato”.
Prendiamo il già citato Coletti di uscire il cane:
“Siamo dunque di fronte a innovazioni in incubazione, almeno a mio giudizio accettabili a livello pratico e familiare, soprattutto parlato (specie nel caso di sedere, che non a caso ha già un uso riflessivo, sedersi), ma per il momento sconsigliabili o comunque ancora deprezzate (come si è ampiamente visto) nell’uso formale e scritto e nella coscienza riflessa popolare, perché pesano su di esse l’assenza di un uso autorevole e l’incoerenza di sistema, molto riprovata a scuola.”
Eccola la Crusca descrittivista. Quella che fa riferimento agli usi autorevoli e ai diversi registri e che, a seconda del registro, si limita a consigliare e sconsigliare.
Ma non tutti i pareri sono così. Ad esempio, il già citato parere su gli usato al posto di a lei/le recita:
“L’utilizzo, invece, di gli per le, è sentito più scorretto dell’altro perché ha subito e continua tutt’ora a subire una maggiore censura scolastica; quindi se ne tende a sconsigliare, nella maggior parte dei contesti, l’impiego.”
E qui fa capolino un certo purismo: la parola “scorretto” appare, unita ad un ammiccamento al MIUR, un promemoria alle maestre: intervenire per censurare va benone. (Per la cronaca, come si possa anche solo pensare di censurare gli col valore di a lei nel 2019 rimane per me un assoluto mistero, ma non divaghiamo).
Ma ci sono anche casi eclatanti.
INCIPIT è un gruppo di lavoro attivo presso l’Accademia composto da esperti e da accademici della Crusca, incluso il suo presidente, Claudio Marazzini. Il working group ha la pretesa di monitorare gli anglicismi in entrata nella lingua italiana e, addirittura, di inventare delle alternative in pseudo-italiano e imporle agli scriventi.
Personalmente, trovo emblematico il caso di whistleblower che, secondo i sacerdoti del puro idioma, andrebbe rimpiazzato con allertatore civico (e se nessuno sa chi mai sia costui, poco male).
Gli esempi di tensione tra anima descrittivista ed anima purista sono tanti. Facendo solo un fugace riferimento al “qual’è” apostrofato, alcuni Accademici garantiscono che la Crusca stessa potrebbe arrivare a riconoscerlo come accettabile un giorno. Descrittivisti di una lingua che evolve, quindi. Peccato che in contemporanea la Crusca espunga dalle sue pubblicazioni gli articoli di professori che usano la forma moderna e, addirittura, rilasci comunicati stampa in cui dichiara, per bocca del presidente, che “orrori come qual è con l’apostrofo non saranno mai sdoganati” senza spiegare bene per decisione di chi.
Alla faccia del descrittivismo!
Nel dubbio che si tratti di un refuso, nello stesso comunicato stampa si avverte:
“I fatti di grafia rientrano totalmente in un livello convenzionale perché la lingua scritta, a differenza di quella parlata, non nasce spontanea, ma è regolata. Di fronte alle tendenze del parlato il linguista è sensibile perché tenta di cogliere il mutamento in atto, ma il grammatico no e si erge a limite invalicabile.“
Insomma, antitesi totale e diretta con la Crusca di quel Nencioni che della lingua si considerava vassallo. Nella Crusca di oggi qualcuno evidentemente molto in alto, lungi dal sentirsi vassallo, non si sente neppure primus inter pares. Nelle dichiarazioni del presidente i toni sono quelli di chi si sente Re dell’Accademia e la lingua italiana è il suo regno!
L’anima purista esiste anche alla Crusca e tutto punta in una direzione: che la Crusca si sia fatta interprete dello zeitgeist sovranista attribuendosi il ruolo di monarca assoluto della lingua italiana.
Zeitgeist sovranista all’Accademia
Per quelli che non masticano troppo le terminologie hegeliane, lo zeitgeist è lo spirito del tempo, ovvero una nuova narrazione di massa che in un dato periodo storico affascina un numero significativo di persone. Lo zeitgeist diventa facilmente un carrozzone su cui molti salgono e che a volte ha portato a eventi storici di grande importanza, non sempre positivi.
Negli ultimi anni si è andato affermando uno zeitgeist sovranista, che antepone le identità nazionali e gli interessi dei popoli (veri o presunti che siano) ad ogni tipo di globalismo e di influsso straniero, ricco o povero che sia. Il trumpiano “America first” e il salviniano “Prima gli italiani” sono figli dello zeitgeist.
Se lo spirito del nostro tempo è questo, risulta facile vedere nelle scelte attuali l’applicazione sul piano linguistico di quello che il governo populista attua sul piano politico: rifiuto delle novità provenienti dall’esterno e, per sicurezza, rifiuto delle novità tout court, sostenuto, se serve, da un certo stile autoritario.
Basta con questi balletti descrittivisti, è il messaggio neanche troppo velato che traspare dal comunicato stampa. Troppa la confusione sotto il cielo generata dalla political correctness descrittivista. “Uscire il cane? Ma scherziamo? Noi siamo la Crusca …e metteremo un freno alla deriva linguistica dell’italiano!”
Tutto bene quindi? Direi di no
Ribellarsi allo zeitgeist è un lavoraccio, ma qualcuno lo deve pur fare.
Per oggi me ne incarico io, visto che questo zeitgeist non mi piace per niente.
Una Crusca prescrittivista è una Crusca che effettua una svolta ad U rispetto al suo ruolo storico, che è quello descrittivista indicato da Giovanni Nencioni. Una Crusca prescrittivista non ha assolutamente senso, dal momento che si auto-condannerebbe a descrivere una lingua diversa da quella usata ogni giorno dagli italiani nei diversi registri linguistici.
Chiunque scriva qualcosa si assume la responsabilità delle forme e dei contenuti utilizzati, e su questo non ci piove. Detto ciò, trovo buffo che la Crusca di oggi pensi di avere il diritto di esprimere giudizi “morali” sulla grammatica degli altri.
Ma c’è un problema più profondo. Dal mio punto di vista il nostro paese ha un bisogno assoluto di fare uno sforzo per rimanere nel novero dei paesi occidentali a pieno titolo. Questo può avvenire solo con un’apertura culturale (e quindi in primis linguistica) verso il mondo globalizzato di stampo nord-europeo e anglosassone.
Ho trattato questi temi in due miei precedenti articoli. Nel primo indicavo come una prosa più semplice e scorrevole rispetto a certi canoni promossi dai licei e dalle università italiani porti grandi benefici ad una scrittura chiara ed efficace. Nel secondo spiegavo i motivi per cui una dichiarazione di guerra all’inglese, la lingua franca globale, non possa che essere controproducente per il nostro paese.
In questo contesto, il nuovo approccio della Crusca va esattamente in direzione opposta, sia attraverso il lavoro del gruppo INCIPIT sia con la scesa in campo per impedire che le università italiane possano offrire corsi in lingua inglese senza un equivalente corso in italiano.
Prima ancora che purista, trovo questo approccio autolesionista.
La Crusca che mi piace è quella degli “scienziati della lingua” con approccio descrittivista, cioè una Crusca che, usando le sue stesse parole, osserva, consiglia e spiega, anziché prescrivere.
La svolta prescrittivista degli ultimi tempi appare come la pretesa di poter avocare a sé il diritto di dettare lessico e grammatica della nostra lingua secondo le logiche opache di un’élite.
Questo nuovo tipo di Accademia non mi piace per niente.