La recente eliminazione del generale iraniano Soleimani, da parte delle forze statunitensi, ha riattivato la ruggine secolare tra vecchio e nuovo mondo. Un livore rimasto apparentemente sopito ma che, alla luce dei recenti fatti di cronaca, sembra aver imboccato una sorta di via di non ritorno.
Ad esacerbare ulteriormente le polemiche, la morte per soffocamento del cittadino afroamericano George Floyd per mano della Polizia di Minneapolis. Vicenda che ha dato il via ad un epico movimento antirazzista negli Stati Uniti, tanto che alcuni governi sono stati costretti ad imporre il coprifuoco.
In brevissimo tempo, quello che pareva essere il nobile bersaglio della protesta si è focalizzato su tutte le raffigurazioni artistiche ritenute antidemocratiche, persino su alcune icone rock e, purtroppo, anche sul simbolo da cui inizia la storia italoamericana, Cristoforo Colombo. Una sorta di damnatio memoriae che nulla ha a che fare con l’antirazzismo ma assai con l’ignoranza, e che rischia di cancellare per sempre, come appunto avveniva in epoca romana, i passaggi storici fondamentali per comprendere il percorso dell’umanità.

La furia iconoclasta che si sta abbattendo sui monumenti americani – raccogliendo proseliti anche in Europa – ci amareggia ma non ci sorprende. L’ennesima dimostrazione di non conoscere la Storia e di non riconoscere, nell’esploratore genovese, l’emblema nel quale gli immigrati italiani potessero allora identificarsi ed affermarsi totalmente come cittadini americani, dopo aver subito ogni sorta di discriminazione e segregazione razziale. Lo stesso Columbus Day fu un riconoscimento nazionale all’indomani del linciaggio di 11 immigrati italiani a New Orleans, nonché un pretesto, anni più tardi, per sottrarsi a quella scomoda dichiarazione di guerra agli Stati Uniti da parte di Mussolini, a quattro giorni dall’attacco di Pearl Harbour.
È vero anche che la politica di Donald Trump non piace affatto all’Europa, ma ad essere onesti non piaceva neppure quella di un suo predecessore, George W. Bush.
Un’avversione che, secondo l’umanista Russell Berman, è “un problema ascrivibile agli antiamericani, a prescindere dall’operato statunitense”. È bastato infatti che i media italiani (antiamericani per partito preso) mostrassero le fosse comuni di Hart Island per gridare allo scandalo, cancellando oggettivamente la memoria della recente cremazione, in fretta e senza troppi convenevoli, dei corpi dei cittadini italiani deceduti per Covid-19 nel bergamasco.
Qualcuno ha definito l’antiamericanismo come una sorta di tic nervoso, un’ossessione patologica nei confronti della patria del capitalismo selvaggio, del consumismo sfrenato, della mancanza di assistenza sanitaria e di politiche sociali per i meno fortunati, della libertà sessuale. Ossessione che produce pregiudizi e stereotipi tanto da essere definita, quella americana, “una società di illetterati, obesi, zoticoni e razzisti”. Un vasto e ricco territorio abitato da ‘Mccittadini cocalizzati’ dediti sistematicamente allo sfruttamento dei paesi più poveri, tant’è che Fidel Castro chiamò la nazione a stelle e strisce con il termine ‘avvoltoio’. Sarà che siamo anche invidiosi, che avremmo desiderato per noi, per le nostre potenzialità, quella stessa loro meritocrazia (neologismo coniato da Young il cui concetto resta ancora sconosciuto nel Belpaese) o, più semplicemente, mal abbiamo perdonato agli italoamericani arrichitisi negli States degli anni ’70, l’ostentazione tracotante e sfacciata del loro nuovo status sociale.
Eppure gli americani sono gli stessi europei, anzi, un prodotto dell’evoluzione europea, come affermava Alexis de Tocqueville. Secondo il filosofo e storico francese “le migrazioni verso ovest facevano parte di un unico movimento che dal centro dell’Europa attraversò le praterie del Nuovo Mondo. La nazione americana di fatto, deve la sua nascita alla civiltà europea e ne è il suo risultato più evidente”. Lo stesso termine ‘antiamericanismo’ è implicito nel concetto di panamericanismo utilizzato per patriotizzare chiunque arrivasse sulla striscia sabbiosa di Castle Garden prima e nella baia di Ellis Island dopo, permettendo la costruzione di una comune coscienza nazionale. E a dirla tutta, antiamericanismo resta comunque una locuzione fuori luogo: per essere corretti bisognerebbe parlare di antistatunitensismo o, tutt’al più, di un-American.
Un-American nei confronti di una nazione tronfia e trionfante che da 600 anni influisce sulla cultura mondiale dalla sua posizione etnocentrica, anzi, ‘americancentrica’; nata sul genocidio dei nativi e sulla deportazione degli africani come schiavi, ma che, nonostante tutto, ha prodotto quello che viene chiamato ‘il sogno americano’, ovvero “la possibilità di ogni uomo di raggiungere gli obiettivi lavorativi e sociali ambiti, a prescindere dal suo stato di nascita”, secondo la versione di Thomas Wolfe. Quel sogno che oggi il Presidente Trump sembra voler cancellare con le nuove politiche immigrazioniste. Le stesse politiche nate sulla scia del razzismo differenzialista che in Italia ha generato una grossa frattura nel popolo e, ancor peggio, alimentato negativamente l’antirazzismo con il rischio che diventi più insidioso dello stesso razzismo.
Fino ai primi decenni del Novecento gli Stati Uniti rappresentavano una grande nazione promotrice di democrazia, il cui principio fondamentale era ben espresso nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America: “Tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Principio, come sappiamo, ispirato alle opere del filosofo toscano Filippo Mazzei, amico e vicino di casa di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori.

Poi arrivò l’epoca del Taylorismo, del Fordismo, della produzione di massa, del jazz, del ‘pericoloso’ rock’n’roll, e dell’emancipazione delle donne, ma anche del ‘gangsterismo’ e delle violenze contro i neri. Una modernizzazione che all’Europa non piaceva. Non piaceva alla sinistra vicina al marxismo-leninismo che ne rifiutava il capitalismo galoppante; non piaceva al fascismo che vedeva nell’imperialismo un pericolo per il nazionalismo. Non piacque in seguito al mondo islamico per la sua sfacciata onnipresenza e onnipotenza e per la licenziosità dei costumi, e neppure agli stessi pacifisti americani. Numerose le personalità del presente e del passato, da Sigmund Freud a Noam Chomsky, che hanno avuto una posizione attiva contro l’American way of life e la sua supremazia planetaria.
Perché l’America che puniva i nazisti e cacciava Mussolini, l’America che bloccava l’avanzata sovietica, l’America generosa di Marshall, l’America giusta e meritocratica, era anche l’America che bombardava l’Italia uccidendo 65mila civili, che sganciava la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki spazzando via tre generazioni di esseri umani in un solo istante.
Un singolare poster di propaganda nazista, disegnato da Harald Damsleth nel 1944, raffigurava il bombardiere American Liberator B-24 che ‘liberava’ le città europee distruggendole.
Oggi, quell’America bombarda il Medio Oriente non risparmiando neppure gli infermi e i bambini, giustizia in diretta i loro governanti mostrando il compiacimento di Hillary Clinton, si inserisce coattamente nella questione arabo-israeliana, si erge a ‘gendarme del mondo’.
L’Europa può perdonare tutto, ma non le cadute di stile.
Certo, poi c’è stato l’11 settembre, e allora siamo diventati tutti un unico McPopolo. Forse perché era l’intero Occidente a sentirsi sotto attacco, eppure eravamo sinceramente vicini al dolore degli americani, ma ancora diffidenti nei confronti del loro governo.
“O con noi, o contro di noi” dichiarava Bush figlio, in una situazione che ha lasciato parecchi interrogativi in sospeso. Dal giorno della distruzione delle Torri Gemelle, infatti, la posizione ambigua degli Stati Uniti non è stata mai chiarita. Non è bastata una figura carismatica come Barack Obama a redimere la reputazione del Paese, e il governo di Trump ha di fatto solo peggiorato il pregiudizio antiamericano.
Ma l’egemonia americana non è differente da quella della nuova classe dominante europea.
Tale pregiudizio nei confronti di una potenza che produce ricchezza e benessere per i suoi cittadini, rischia di diventare, secondo la politologa Hanna Arendt “ il fondamento di un movimento a livello europeo. L’americanismo da una parte dell’Atlantico e l’europeismo dall’altra, due ideologie opposte, in lotta l’una con l’altra e, soprattutto, simili tra loro come tutte le dottrine apparentemente antitetiche”.

Pertanto, quando si parla di una società di ignoranti che “si ostinano a votare cafoni razzisti e guerrafondai come Bush e Trump” è bene sottolineare un concetto fondamentale: l’America è stata scoperta dagli europei, e gli europei l’hanno desiderata, immaginata, costruita, amata. In un certo senso anche plasmata ad immagine e somiglianza delle loro terre d’origine, lottando duramente per conferirle una propria identità.
Di fatto, in ogni americano di oggi c’è un europeo di ieri. E c’è anche un nostro avo che in un tempo non troppo lontano è stato oggetto di anti-italianismo, avversione che purtroppo non lasciava scampo.
Ma sbagliato o meno, come tutte le vicende legate ad epoche lontane, da Colombo a Sacco e Vanzetti, vanno storicizzate e contestualizzate e mai usate da contrappeso o, peggio, da ostacolo all’unione futura dei popoli del mondo.
Forse sarebbe più utile ripassare la Storia e magari dare uno sguardo al Mapping Police Violence prima di dichiarare guerra al passato inseguendo una chimera politically correct.
Teniamone conto ogni volta che puntiamo il dito verso Uncle Sam.