Dopo l’autorevole intervento del professor William J. Connell, vorrei approfittare dell’ospitalità de La Voce di New York per partecipare al dibattito sulla furia iconoclasta che la brutale e ingiustificata uccisione di George Floyd ha scatenato non solo negli Stati Uniti, ma su scala globale, contro i presunti simboli del dominio bianco nonché dell’oppressione, se non addirittura, del genocidio dei popoli di colore. In quanto manifestazioni di una collera emotiva di massa, l’abbattimento e la deturpazione dei monumenti a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni appaiono privi di una capacità di discernimento e, soprattutto, non sembrano in grado di comprendere le molteplici motivazioni che hanno portato all’erezione delle statue della cui presenza ci si vorrebbe liberare. In altre parole, per ricorrere a un’espressione colloquiale, gli assertori dell’eliminazione di queste statue fanno di ogni erba un fascio. In particolare, collocano sullo stesso piano la celebrazione deliberata di forme implicite ed esplicite di razzismo e l’espressione di un riconoscimento pubblico a personaggi che hanno denotato comportamenti discutibili e addirittura riprovevoli, se sono giudicati con i criteri etici del nostro tempo presente, anziché con il metro di valutazione morale coevo.

Al primo genere di monumenti appartengono le statue innalzate a generali confederati come Robert E. Lee, assunti quali simbolo non tanto delle presunte doti militari e guerriere dei combattenti della Confederazione, nel conflitto bellico contro l’Unione, quanto della strenua difesa dello schiavismo da parte della società del Sud. Non a caso, molte di queste statue non vennero erette subito dopo la conclusione della guerra civile, bensì nel successivo periodo del consolidamento della segregazione razziale, in special modo all’inizio del Novecento, quasi a voler minacciare dai loro piedistalli gli afroamericani, ormai emancipati da tempo da un punto di vita legale, affinché non rivendicassero il pieno godimento dei diritti civili e politici che spettavano loro in quanto persone libere.
L’esempio più significativo di questa tendenza è forse il monumento equestre del generale Nathan Bedford Forrest a Memphis, inaugurato nel 1905 e già rimosso nel 2017. La statua non celebrava certo un eroe o uno stratega militare della Confederazione. Forrest fu il responsabile dell’eccidio di Fort Pilow, dove le truppe confederate da lui comandate, il 12 aprile 1864, massacrarono la guarnigione di soldati afroamericani unionisti dopo che questi ultimi si erano arresi e avevano deposto le armi. Come se non fosse bastato, nel dopoguerra, Forrest divenne uno dei primi esponenti del Ku Klux Klan.

Diverso è il caso dei monumenti a Cristoforo Colombo negli Stati Uniti. Chi li ha innalzati e finanziati, come ricorda un recente documento della National Italian American Foundation, sono stati gli italoamericani per onorare lo scopritore dell’America e, al tempo stesso, per contribuire a legittimare la propria presenza negli Stati Uniti, principalmente in anni in cui gli immigrati sbarcati dall’Italia erano considerati indesiderabili e inassimilabili in una società protestante e di ascendenza anglosassone a causa della loro origine mediterranea e della prevalente devozione cattolica. L’intento non era quello di celebrare il genocidio dei nativi americani o l’espropriazione delle loro terre da parte degli europei. Emblematica in proposito risulta l’erezione del monumento newyorkese a Colombo, inaugurato nel 1892 e promosso dall’allora direttore e proprietario de Il Progresso Italo-Americano, Carlo Barsotti, attraverso una sottoscrizione tra i lettori di quello che era al tempo il principale quotidiano in lingua italiana di tutti gli Stati Uniti.

Un caso ancora differente è quello della statua dell’ex sindaco Frank L. Rizzo di Philadelphia. Più che per le sue capacità di amministratore, infatti, Rizzo è noto per il ricorso al pugno di ferro contro le organizzazioni degli afroamericani e per le violazioni dei diritti civili dei loro membri negli anni in cui fu il police commissioner della città. Nell’episodio più controverso, ancorché incruento, quando comandava la polizia, nel 1970 Rizzo costrinse i membri della cellula locale del Black Panther Party a denudarsi davanti all’obiettivo dei fotografi dopo un’irruzione degli agenti nella loro sede al solo scopo di umiliarli pubblicamente. In precedenza, aveva fatto caricare una manifestazione pacifica di studenti afroamericani, che chiedevano di poter indossare abiti di foggia africana a scuola e l’attivazione di un maggior numero di corsi di black studies, provocando il ricovero in ospedale di una quindicina di dimostranti. Per il significato della figura pubblica di Rizzo, pertanto, il suo monumento rientra a buon diritto tra quelli da rimuovere, come del resto già deciso dal sindaco Jim Kenney.

L’invito a valutare i motivi dell’erezione delle statue prima di abbatterle con un indiscriminato impeto distruttore vale anche per le ripercussioni europee del fenomeno americano. L’iconoclastia di ispirazione statunitense ha, infatti, già attraversato l’Atlantico, come attestato dall’imbrattamento del memoriale londinese a Winston Churchill, e si sta diffondendo pure in Italia. Qui a essere presa di mira è stata la statua di Indro Montanelli negli omonimi giardini Montanelli a Milano. La colpa imputata al giornalista? Essersi vantato di aver acquistato una schiava sessuale minorenne mentre combatteva con le truppe italiane nella guerra fascista di conquista dell’Etiopia nel 1935. Il monumento, però, non intende glorificare lo sfruttamento sessuale delle africane, né il colonialismo italiano. Sorge nel luogo dove Montanelli fu gambizzato dal gruppo terroristico delle Brigate Rosse il 2 giugno 1977 e onora la libertà d’informazione e chi ha avuto il coraggio di alimentarla anche durante i cupi anni di piombo della storia italiana. Con la stessa logica dei critici della statua di Montanelli, andrebbero abbattuti anche i monumenti a Thomas Jefferson, che possedeva schiavi e notoriamente visse more uxorio con una di loro, Sally Hemings, dopo la morte della moglie.
Certo, ci sono coloro che già propongono di far rotolare anche il terzo presidente dal pantheon politico americano. Ma, in questo modo, la cieca applicazione del principio del politicamente corretto al giudizio sui monumenti finirebbe per travolgere anche chi, con tutti i limiti dei comportamenti individuali e di quelli del proprio tempo, ha contribuito a promuovere “a more perfect Union” negli Stati Uniti così come in altri Paesi, magari talvolta “turandosi il naso”.
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