Nel primo pomeriggio del 31 Dicembre 2019, l’ambasciata Americana a Baghdad ha preso fuoco sotto l’offensiva di Kataib Hezbollah, una milizia sciita irachena supportata dall’Iran. L’offensiva è arrivata in risposta ai bombardamenti Americani del 29 Dicembre scorso su alcuni siti sensibili di Kataib Hezbollah in Iraq e Siria. I bombardamenti furono declassati come “misura difensiva” dal Pentagono, provocati dall’uccisione di un appaltatore statunitense avvenuta il 26 Dicembre.
Questa serie di feroci controffensive ha portato a un’escalation degli screzi tra Iran e Stati Uniti, risultata nell’uccisione di Qassem Soleimani, il Generale Maggiore del corpo di guardia rivoluzionario Islamico. L’uccisione, avvenuta nella serata di Giovedì, è stata giustificata dal Pentagono come mossa strategica per “dissuadere futuri piani d’attacco Iraniani.” Ma più che dissuadere, questo attacco pare aver incentivato una controffensiva; tanto che il leader supremo Iraniano, Ayatollah Ali Khamenei, ha tempestivamente rilasciato una dichiarazione promettendo “ritorsioni” contro l’America dopo i tre giorni di lutto nazionale che si avviano oggi.

Trump, che ha rivendicato l’uccisione di Soleimani su Twitter, nonostante aver esplicitamente dichiarato di non voler la guerra, si ritrova dunque ad attendere la contromossa Iraniana. Non si sa ancora se l’Iran risponderà con un attacco agli interessi statunitensi nella regione, o se punterà al bersaglio grosso cercando di colpire direttamente gli Stati Uniti. L’unica certezza è che una ritorsione ci sarà, e sarà quantomeno destabilizzante per il futuro del Medio Oriente e dell’amministrazione Trump. Appaiono fuori luogo le dichiarazioni di Mike Pompeo verso una possibile riapertura del dialogo tra Stati Uniti e Iran se quest’ultimi non contrattaccano. Cosa si aspetta il Segretario di Stato Americano? Che l’Iran porga l’altra guancia dopo l’assassinio di uno dei suoi leader più rispettati e popolari? Come ha invece già dichiarato il ministro degli esteri Iraniano, Javad Zarif, “l’America si dovrà prender carico delle proprie responsabilità per tutte le conseguenze del suo avventurismo canaglia”.
L’Iran sembra avvertire la vulnerabilità del Presidente sotto impeachment, il quale vuol essere rieletto per un secondo mandato. D’altronde, 40 anni fa fu proprio una crisi Iraniana a decretare la sconfitta dell’ex Presidente Jimmy Carter nelle Presidenziali del 1980. Questo scenario potrebbe ripresentarsi con Trump, dato che la sua base elettorale è fortemente patriottica e dunque molto sensibile ad attacchi contro i propri “ragazzi” all’estero. Una ritorsione che va a colpire questo nervo scoperto dei supporter del Presidente potrebbe essere la strategia giusta da parte dell’Iran per mettere Trump all’angolo. Donald si ritroverebbe a doversi giustificare con il proprio elettorato su ulteriori perdite di soldati Americani in Iraq a pochi mesi dalla sua promessa di riportarli tutti a casa. Pur di non perdere l’elezione a causa di una guerra in Medio Oriente – che andrebbe a coinvolgere altri partner fondamentali come Arabia Saudita e Emirati Arabi – Trump potrebbe scegliere di sedersi al tavolo con Khamenei e una volta per tutte trovare un accordo che comprenda sanzioni e denuclearizzazione, come fece Obama nel 2015. Ma tutti questi sono condizionali che lasciano il tempo che trovano, dato che sia Trump che il leader supremo Khamenei ci hanno abituato a strategie geopolitiche non convenzionali.

Negli Stati Uniti l’uccisione di Qassem Soleimani è stata accolta con grande entusiasmo dai Repubblicani che hanno subito rivendicato l’uccisione di un terrorista islamico che poteva mettere in pericolo le vite degli Americani. Il giovane Senatore Tom Cotton ad esempio, elogia l’offensiva di Trump come un atto di giustizia verso i soldati Americani morti per via del terrorista Soleimani. I Democratici, d’altro canto, accolgono la notizia con tiepidezza, riconoscendo a Trump l’uccisione di un terrorista pericoloso, ma criticandolo per non aver chiesto l’autorizzazione al Congresso prima di sferrare l’attacco. Il Senatore Chris Murphy riconosce che questa mossa potrebbe mettere in moto un’enorme guerra regionale e che dunque il Presidente doveva confrontarsi con il Congresso. Anche il Vice Presidente e candidato alla Casa Bianca Joe Biden apprezza l’uccisione del generale-terrorista, specificando che però si tratta di una mossa ad alto rischio in una regione già altamente pericolosa. Biden dovrebbe anche spiegare cosa avrebbe fatto lui al posto di Trump, dato che tra meno di un anno potrebbe essere lui a dover gestire la problematica situazione Iraniana.
In tutto questo trambusto c’è anche da considerare la posizione del governo Iracheno, che per anni è stato influenzato dalle strategie di Washington e Tehran. Dalla caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003, l’Iran ha mantenuto sotto stretto controllo il governo Iracheno attraverso i propri clerici shiiti, causando forte disagio tra la popolazione Irachena. Ultimamente sono infatti scoppiate proteste da parte dei cittadini Iracheni contro l’influenza Iraniana nel paese. D’altro canto però, l’Iraq non vorrebbe neanche diventare schiavo degli interessi economici statunitensi. Sarà perciò fondamentale capire da che parte si posizioneranno il governo e i cittadini Iracheni, che potrebbero diventare una vera e propria mina vagante in questo conflitto che assomiglia sempre di più ad una guerra internazionale.
Discussion about this post