Si direbbe che oltre 20 anni di berlusconismo prima e il renzismo poi abbiamo fortemente ridimensionato un attore che aveva un peso non indifferente sulla scena politica e quindi, va da sé, anche in campagna elettorale: l’establishment culturale. Partiamo dai libri, un tempo l’emblema della cultura per eccellenza: cosa pensano gli scrittori italiani di questa scadenza che si approssima? L’impressione è che se ne stiano piuttosto abbottonati e che comunque nessuno sia poi così curioso di saperlo. L’ultimo endorsement di un certo peso che si ricordi risale a qualche anno fa; è quello di Baricco per Renzi, anche se nell’ultimo anno si è vociferato di un avvicinamento della sua scuola di scrittura, la Holden di Torino, alla sindaca Chiara Appendino e quindi al M5S. In un passato un po’ più lontano, come la pensassero i vari Calvino, Pasolini, Morante, Moravia, Eco, Tabucchi era motivo di discussioni ben più accese, orientava il pensiero collettivo, veniva analizzato e commentato.
Dal secondo Dopoguerra in poi, come noto, il mondo dei libri è stato a lungo schierato a sinistra, anche se in maniera spesso tutt’altro che conformista. Tant’è che si diceva che in Italia il Pci non sarebbe mai andato al governo ma aveva comunque vinto la battaglia della cultura, case editrici in testa. Oggi il panorama è molto più fluido, e anche più opaco. Sì, c’è Roberto Saviano, che già nel 2015 pungolava gli intellettuali italiani accusandoli di essersi fatti troppo silenti (nei confronti di Renzi), e che ora tifa Emma Bonino; c’è Mauro Corona, schierato con Grillo, ma Murgia, che già nel 2014 aveva tentato la scalata alla “sua” Sardegna, alla fine ha trovato maggiore soddisfazione nella letteratura, così come l’ex-senatore Pd Carofiglio o l’ex-parlamentare di Scelta Civica Nesi. Poi magari ai lettori di Elena Ferrante piacerebbe sapere come la pensa la loro autrice preferita (ma Ferrante resta ancora ostinatamente anonima). In generale, però, gli autori latitano, vuoi per interesse, vuoi perché non sanno bene cosa dire. Organico o disorganico che sia, l’intellettual-scrittore milita con parsimonia. Il che non è necessariamente un male; ma, certo, priva il dibattito di qualcosa.

Non va tanto diversamente nei mondi contigui del cinema/teatro e della musica. Nel primo, spicca qualche esempio lodevole, come quello di Andrea Segre, regista (e recentemente anche scrittore) molto attento al tema dell’immigrazione. Paolo Sorrentino invece è alle prese con il film su Silvio Berlusconi interpretato da Toni Servillo, che il leader di Forza Italia ha già dichiarato di non amare. Ordinaria amministrazione, in fondo. Altrove, nebbia fitta. Il cinema è impegnato semmai al combattere altre battaglie, in primis quella scatenata in America dal caso Weinstein sulle molestie e le discriminazioni di genere (che ovviamente non sono cosa da poco). Del resto, il panorama politico non aiuta. Se un Nanni Moretti chiedeva a Massimo D’Alema di dire “qualcosa di sinistra”, ora Paolo Virzì allarga sconsolato le braccia e si domanda perché a sinistra il tasso di litigiosità sia così elevato (e perché il Pd abbia sacrificato Manconi, per il quale si erano spesi nomi importanti, da Sandro Veronesi a Chiara Saraceno, da don Ciotti a Dacia Maraini). Siamo sempre all’artista scontento di ciò che fa la politica, direte: può darsi, ma c’è una differenza. Un D’Alema uno sguardo ai produttori di cultura comunque lo lanciava. Oggi un Renzi sembra avere tutt’altri pensieri. E tutt’altri stake holders.
Così, sulle barricate rimangono gli eredi di Dario Fo (a cui si perdona la tardiva sbandata per Grillo), i Moni Ovadia, gli outsider. Il palcoscenico rimane sì un catalizzatore del pensiero critico, ma di nicchia, ‘che i più sono su Netflix. E anche la satira, che dominò la scena dei sulfurei anni 90 della fine della Prima Repubblica e dei duelli Prodi-Berlusconi, ha perso molto del suo appeal.
Nella musica la faccenda si fa più complessa. I cantautori di sinistra, sprezzanti verso il mondo della politica e dei comizi elettorali (ricordate Feste di piazza di Bennato?) ma comunque appassionati alla politica e alle cose del mondo, sono ormai ai margini della scena o sono scomparsi per ragioni anagrafiche. Per non dire di gruppi come gli Area, gli Stormy Six e più tardi i Cccp/Csi (anche se il buon Giovanni Lindo Ferretti, partito dal comunismo punk emilian-berlinese, alla fine finì ingloriosamente alla corte di Giuliano Ferrara). In epoche più recenti, abbiamo avuto Fossati, Jovanotti, Ligabue che, pur con modi e accenti diversi, un piede sul terreno della politica l’hanno poggiato. Oggi, ad accendere giusto qualche animo sembrano essere più che altro i Pentastellati, che hanno raccolto – da Fazio, la più grande vetrina televisiva italiana – l’apprezzamento di Orietta Berti, come in precedenza quello di Fiorella Mannoia. L’uscita di Berti – stigmatizzata dal Pd – è stata difesa da Iva Zanicchi, storicamente schierata con Forza italia, che ha rimarcato il diritto degli artisti a dire come la pensano, sempre e comunque. Il problema per la verità, e guardando a divi un po’ più giovani, sembra essere il contrario, ovvero: a chi importa delle idee politiche di chi esce da X Factor? O dei comunisti col Rolex? Dal canto suo, chi ancora riempie gli stadi, come Vasco Rossi, non sembra molto ansioso di dire la sua sulle riforme costituzionali, la flat tax o il Rei. Ma una campagna elettorale senza musica è dura da digerire.

Cosa rimane dell’intellettuale impegnato? Dell’artista che, come in America, scende apertamente in campo a sostenere il suo candidato, nell’Italia post-grillina? Come mai in questi giorni l’unico music-show di cui si è parlato è quello che ha visto protagoniste un pool di oscure band neonaziste, esibitesi ad Azzano Decimo, Friuli, nel Giorno della memoria? Non ci sarebbero ragioni a sufficienza per inaugurare una stagione di “Rock contro il razzismo” (memore di quella britannica dei tardi anni 70) nell’Italia delle Leghe e dei carriarmati (per fortuna solo minacciati) al confine del Brennero? E, allargando un po’ lo sguardo, dove sono i protagonisti delle nostre università? Chi raccoglie l’eredità di Bobbio e di Magris del 2018? Diego Fusaro, con le sue “pillole di filosofia”? O ha ragione Michela Marzano, altra filosofa, alle spalle una legislatura come deputata dem, che sulle pagine de L’Espresso ha denunciato il suo spaesamento di intellettuale catapultata in un mondo in cui contano come sempre, innanzitutto, le cordate e i capibastone?
Il punto è forse un altro. Donne e uomini di cultura ci sono ancora, e continuano a fare i loro mestieri. E’ che l’opinione pubblica – o ciò che resta di essa – non sente tanto il bisogno di interpellarli. Allora forse non è più solo una questione di Berlusconi, Renzi o Di Maio: è che nell’era dei social network, delle opinioni tutte ugualmente legittimate dai like, ognuno si sente un po’ filosofo. Di se stesso e del suo gruppetto di “amici”, quantomeno. E poi, forse, scrittori, artisti, intellettuali in genere non piacciono tanto all’algoritmo di Facebook.
Certo la rete non è ancora la prima fonte di informazione, essendo rimasta questa la tv. Ma la rete ha indotto dei cambiamenti anche più profondi rispetto a quelli riguardanti l’accesso alle fonti. Lungi dall’essere solo un luogo libero e “selvaggio” dove far circolare il sapere senza censure, come immaginavano gli utopisti della prima ora, il web è diventato una gigantesca rubrica delle lettere on line dove chiunque può dire o scrivere qualsivoglia cosa. Senza alcun vaglio e quindi in definitiva senza gerarchie, piuttosto che senza censure. Il che pone degli interrogativi pesanti non solo sul versante della proliferazione delle fake news ma anche di quello che lo storico Marco Revelli ha definito (parlando di Renzi, ma potrebbe valere anche per altre formazioni politiche) “disprezzo per la conoscenza e per i sapienti”.
L’esibizionismo del sentenziare senza pudore, la presenza massiccia di opinionisti “prezzemolini” è figlia di questo approccio. Così come il desiderio di far tabula rasa, che, di nuovo, ritroviamo in parte nella narrazione del M5S ma è stata di Renzi e di nuovo di Baricco, che già nel 2013, tessendo l’elogio della cattiveria, sentenziava:“Bisogna smettere di affezionarsi alle cose… bisogna accorgersi con serenità e con la giusta cattiveria che alcune nostre conquiste e idee buone che in passato abbiamo avuto e realizzato, nel tempo si sono praticamente stoppate su se stesse e stanno producendo solamente zavorra”. Poteva essere l’incipit di una stagione di riforme di cui pure un Paese conservatore come l’Italia aveva e ha senz’altro bisogno. Ma qualcosa si è inceppato, nella retorica e nella comunicazione prima ancora che in Parlamento. Il risultato lo sappiamo: il riformismo si è fermato a metà strada, alcune proposte sono miseramente naufragate o non sono neanche mai decollate. Il prudente Paolo Gentiloni ha soppiantato il tracotante Rottamatore (che tuttavia tiene saldamente in mano le leve finanziarie che governano la campagna elettorale, fondazioni, network e fund raising).
Il Diluvio, laggiù, si avvicina. Il mondo della cultura, per ora, sta a guardare.