Menti raffinate, nonostante i loro messaggi siano grossolani, e soldi, tanti soldi, dietro la diffusione di bufale sul web. Sui social la fitta rete di fake news ha sviluppato una vera e propria microeconomia come veicolo su cui viaggiano le notizie false. La post-verità del terzo millennio ricorda la figura antica del “professore” al bar sotto casa, esperto di calcio, economia, fisica nucleare, teatro e anche di safari pur non essendo mai uscito dal quartiere.
Le recenti elezioni negli Stati Uniti e la consultazione referendaria in Italia costituiscono un punto di svolta per i “bufalari” di professione. Certo, l’introduzione in politica della “narrazione”, cioè il racconto di una realtà che non è la realtà ma soltanto la visione della realtà di chi la propone, ha favorito non poco la loro azione.
Eccone alcune sul referendum costituzionale italiano. Per il No: l’approvazione in parlamento della riforma era illegittima; nel testo era inserita una norma segreta che cedeva la sovranità nazionale alle UE. Dal fronte del Sì: il nuovo Senato sarebbe stato eletto dai cittadini; in caso di vittoria del Sì sarebbe aumentato il Pil. Queste bufale, prese dal mucchio, hanno in comune elementi di verità parziale poi utilizzata per deformare il messaggio finale agli elettori.
Per le presidenziali negli Stati Uniti è davvero difficile la selezione, ma Papa Francesco che “scomunica” Donald Trump va di diritto al primo posto, con 960mila interazioni sui social, secondo BuzzFeed News; Hillary Clinton che avrebbe venduto armi all’Isis segue da vicino con 760mila riprese; affascinante anche la presunta collaborazione tra Russia e Wikileaks per rendere pubbliche le email della Clinton quando era segretario di Stato.
Fake news date comunque in pasto ai lettori da quotidiani autorevoli come il Washington Post , anche se sotto accusa sono finiti naturalmente i social. In particolare Facebook, al punto che lo stesso Mr. Zuckerberg ha sentito il dovere di affermare che solo l’1% di notizie postate è falsa. Chiunque navighi su Fb sa bene che quella di Zuckerberg è a sua volta una bufala, per difendere il valore di mercato della sua creatura.
Se i quotidiani tradizionali cominciano adesso a capire che senza una maggiore attenzione e controllo rischiano di perdere milioni di dollari in cause per diffamazione, ci sono già dei precedenti in Gran Bretagna, è molto più difficile per Fb, Twitter e Instagram (la manipolazione di foto è un elemento base delle Fake news) porre dei filtri all’utilizzo ingannevole della rete.
Il direttore di BuzzFeed Ben Smith, rivela che durante le elezioni americane sono stati almeno 140 i siti di false informazioni attivi, generando su 20 storie false 8,7 milioni di condivisioni su Facebook contro i 7,4 milioni scaturiti complessivamente da 20 storie verificate tra New York Times, Washington Post e Huffington Post. BuzzFeed ha poi tracciato, tramite una ricerca sugli IP, la sede reale di questi siti, arrivando a scovarli per la maggior parte in Macedonia.
Tra Fb e AdSense di Google, con ogni clic valutato tra i 3 e i 5 centesimi di dollaro, possiamo avere un’idea della mole di denaro che finisce in tasca ai manipolatori dell’informazione.
Il demistificatore di frottole, il “debunker”, è ormai la figura emergente del giornalismo. Scott Shane è il reporter del New York Times che, tra le altre, ha smascherato la bugia delle decine di migliaia di voti fraudolenti per la Clinton ritrovati in un magazzino dell’Ohio . Shane ha tracciato l’inventore della bufala identificandolo come Cameron Harris, un ragazzo di 23 anni, che ha poi ammesso di aver fabbricato il falso direttamente dalla cucina di casa sua. Tramite la pubblicazione della fake news sul suo sito, ChristianTimesNewspaper.com, Harris ha guadagnato 22mila dollari senza andare incontro a nessuna conseguenza legale.
“La maggior parte dei siti di fake news erano contro la Clinton probabilmente perché i supporters di Trump hanno messo più passione nella campagna – spiega a La Voce di New York Scott Shane – quindi erano più propensi a cliccare anche su storie false e i clic producono denaro per i siti web”.
Il NYT spenderà 5 milioni di dollari per seguire passo dopo passo l’amministrazione Trump.
“Non è denaro per proteggersi dal rischio di fake news – prosegue Shane – serve a scoprire le notizie e garantire al pubblico che siano vere. Nell’era di internet, che permette alle false informazioni di diffondersi rapidamente, il controllo dei fatti e il debunking sono più importanti che mai”.
Se la maggior parte degli inventori di notizie sono mercenari senza bandiere, c’è anche chi è convinto di unire l’utile al dilettevole. Paul Horner è ad esempio pensa che Trump debba a lui la vittoria. Per Horner l’opinione pubblica conservatrice è ormai pronta a credere a tutto. Fu lui ad inventare i manifestanti anti Trump pagati 2mila dollari dai democratici e, per suffragare la notizia, pubblicò egli stesso un finto annuncio di reclutamento su Craiglist. Si dichiara ancora stupito dall’ingenuità diffusa, intanto però sostiene di godersi circa 6mila dollari al mese solo con i banner pubblicitari di Google collegati ai siti che riportano le sue manipolazioni.
A smentire Horner sono gli economisti Hunt Alicott della New York University e Matthew Gentzkow della Stanford, che nella ricerca appena pubblicata Social media and fake news in the 2016 election demoliscono il mito del ruolo fondamentale dei social nella vittoria di Trump. I due ricercatori, esaminando un vasto campione della popolazione, hanno accertato che solo il 14% degli intervistati si era documentato sulle elezioni attraverso i social e che l’americano medio aveva visto e ricordava 0,92 notizie false pro-Trump e 0,23 notizie false pro-Clinton. Metà del campione che ricordava la notizia falsa era anche convinto che fosse vera., mentre gli esperti considerano che per cambiare il corso della campagna elettorale una singola fake news avrebbe dovuto avere lo stesso effetto di persuasione di 36 spot televisivi.
Anche in Italia c’è chi ha tratto enorme profitto dalle bufale come il ventenne Gianluca Lipani, con una serie di storie false a sfondo razzista del tipo “Immigrato violenta bambina di 7 anni, il padre gli taglia le palle e gliele fa ingoiare” . Due euro ogni mille visite sul suo sito, accreditato di 500mila visite al mese.
C’è chi considera inutile smentire le bufale. Walter Quattrociocchi coordina un team dell’Imt di Lucca che ha studiato l’interazione di due gruppi di utenti Fb statunitensi con l’informazione scientifica. Il primo gruppo seguiva solitamente articoli di riviste “ufficiali” e il secondo informazioni provenienti dal mondo diffidente verso la scienza ortodossa. I due gruppi non si sono mai sovrapposti e ogni volta che i secondi trovavano articoli che smontavano scientificamente le tesi “complottiste” si rafforzava il loro rifiuto verso le fonti classiche d’informazione.
La politica italiana online sembra dare piena ragione alla ricerca condotta dall’Imt sul voler credere a quel che già si crede. Un esempio è l’account Twitter @BeatricedimaDi, Beatrice Di Maio, cognome che ricorda il 5stelle e cultore del congiuntivo Luigi Di Maio, da cui partivano insulti terribili verso il Pd, in particolare verso Luca Lotti, il più stretto collaboratore di Matteo Renzi al governo. Un’inchiesta malriuscita del quotidiano La Stampa stabiliva che quello era l’account chiave della propaganda del Movimento 5 Stelle se non di hacker russi filo M5S. Peccato che dietro quel nick si celasse Tommasa Giovannoni Ottaviani, detta Titti, moglie del capogruppo alla Camera di Forza Italia Renato Brunetta.
Come tutte le bufale anche questa era basata sul verosimile, sull’uso enfatico della rete che M5S in effetti pratica con le decine di siti e gruppi Fb che ruotano intorno al blog ufficiale di Beppe Grillo. Un’inchiesta, stavolta realizzata seriamente da BuzzFeed, BuzzFeed News ha scoperto che il blog di Grillo, i siti web del partito, e i cosiddetti siti di notizie indipendenti condividono lo stesso indirizzo IP, così come ID Google Analytics e AdSense. Inoltre la centrale da dove viene lanciata e spinta l’intera rete ha sede in Macedonia, come già appurato per la campagna pro-Trump.
Come avrete ormai capito non esistono i buoni in questa storia. Ecco quindi che un gruppo nato nel 2011 su Fb “800mila iscritti per Homer Simpson presidente del consiglio” improvvisamente ne 2013 fa campagna a favore del M5S. Poi il gruppo non viene aggiornato fino a dieci giorni dal referendum, quando si trasforma in un gruppo di sostegno al Comitato per il Sì al referendum, con Homer che invita a sostenere la posizione che fu di Renzi.
Leonardo Bianchi è il giornalista che su Vice Italia ha pubblicato l’intera storia dopo aver ripercorso i passi degli account più presenti nello scambio di opinioni sul gruppo.
“E’ chiaro che si è trattato di un’operazione di marketing politico, altro che post verità – ci racconta – Scrivere che dietro c’era il Pd senza documentarlo sarebbe stato scorretto ma è chiaro che c’è stata una oggettiva convergenza d’interessi. Nessun soggetto politico può comunque tirarsi fuori dall’aver alimentato questa tendenza. Il compito di un giornalista adesso – conclude – non è quello di fare una crociata ma di rivedere l’intero sistema informativo”.
Il punto debole, denunciano tutti i debunker italiani intervistati è proprio il mondo dell’informazione giornalistica classica.
“Cambiano nome a pagine oppure usano il likejacking – spiega il fondatore e admin di Bufale.net, Claudio Michelizza – Io parlo molto con i ‘bufalari’ perché s’imparano molte cose interessanti e mi sono fatto l’idea che la pretesa del pubblico che il giornalismo sia gratuito sul web è sbagliata, perché impedisce ai giornali di sviluppare risorse economiche per non cadere nella rete delle fake news”.
Su Bufale.net oltre a molte false notizie sbugiardate potete trovare una blacklist utile come autodifesa del navigatore.
Anche Michelangelo Coltelli, che ha fondato e dirige Butac , sostiene che una parte delle colpe dell’ingorgo di false notizie ricade sulla scarsa attenzione dei giornalisti. Ma ci introduce a un aspetto innovativo delle tendenze nella gestione di fake news:
“Mandano messaggi talmente stupidi per la loro rozzezza che non li capisci ragionando sul contenuto. La mia impressione è che la manovra sia molto più complessa e raffinata. Ti fai portavoce di una battaglia e la infanghi con le bugie fino al punto che il vero supporter di quella stessa posizione – semplifica per farci capire il meccanismo – prova schifo assoluto per quello che dici”.
A sorpresa chi condivide questa interpretazione così sofisticata della bufala politica è uno degli autori più conosciuti di bufale in rete, Ermes Maiolica, fake artist, riconosciuto come tale dal debunker Paolo Attivissimo.
“Sono specializzato in false morti e falsi arresti dei vip, ma vado a periodi ogni tanto mi prende una fissa. Ho un codice etico preciso, non ho mai propagato bufale sugli immigrati ad esempio. Studio il verosimile, cerco il corto circuito informativo e mi c’infilo. All’inizio – ricorda ridendo – io su internet credevo a tutto, per questo so che la gente crede a tutto e l’accontento”.
Ermes Maiolica, che collabora come debunker con il sito Bufale e Dintorni per paradosso non è convinto nemmeno della genuinità di alcune bufale:
“Quando le sparano troppo grosse – come è accaduto con i gruppi di gattini trasformati in Comitati per il Sì al referendum o come avviene per molti siti attribuiti a M5S io m’insospettisco, perché sembra che ti vogliano convincere del contrario”.
Difendersi dalle bufale è quindi possibile ed è un compito che dovrà vedere impegnati in prima fila proprio i giornalisti. Quando la maggiore agenzia stampa nazionale riporta senza commenti notizie riprese da testate britanniche tabloid come The Sun o il Daily Mail non è che stia esattamente aiutando la lotta per il ristabilire la veridicità delle notizie.
A proposito: se fossi in voi controllerei ogni singolo link e parola di questo articolo per cominciare da subito a stare con il fiato sul collo anche alle testate giornalistiche più serie. Il lettore passivo è il miglior alleato dell’untore di bufale.