“È ben noto l’odio che qualunque italiano nutre per qualunque altro italiano.” (Giorgio Dell’Arti dixit). Gli italiani si incolpano eccezionalmente come gente invidiosa e gelosa. Soprattutto per l’invidia di chi mal sopporta la fama e il prestigio conquistati coll’impegno massacrante di chi fa il suo lavoro con coerenza, costanza e in grande quantità. Questa premessa perché stiamo per parlare con una delle figure più controverse dell’intera stampa italiana. E al suo solito, la sua ultima opera, Nient’altro che la verità (Marsilio 2021), ha creato non poco scompiglio.

Michele Santoro, giornalista, conduttore e autore televisivo, è un volto tra i più noti della televisione italiana. Tra i suoi programmi: Samarcanda, Il rosso e il nero, Moby Dick, Sciuscià, Il raggio verde, Annozero e Servizio pubblico. Sono interventi che fanno la storia dell’informazione in Italia. Andate a trovare su internet il suo programma – uno dei tanti – del 1991, ideato e condotto con Maurizio Costanzo, la maratona Per Libero Grassi, in cui tv pubblica e privata si unirono per una lunga diretta contro la mafia (vedi video sotto). È lì dove Giovanni Falcone fu ripreso in malo modo dall’Avvocato Alfredo Galasso; lì dove la decisione di lavorare al Ministero del giudice palermitano è stata fraintesa e travisata dal Sindaco Leoluca Orlando. C’era anche il dimenticato Salvatore Cuffaro che contribuì in modo memorabile e acceso alla serata storica, anni prima di diventare ex-Presidente della Regione Sicilia e condannato per favoreggiamento verso Cosa nostra. Il tutto trovato come nel corso delle cose che Michele Santoro ha sempre trattato, da vicino – dal di dentro – di tante diverse realtà.
Menziona Santoro è avrai a che fare con opinioni forti, mai indifferenti, di ogni tipo, ma dubitare che lui vada considerata una delle figure giornalistiche e televisive più importanti degli ultimi cinquant’anni sarebbe negare la realtà. Forse noi italiani in America possiamo permetterci un po’ più di distacco e la prospettiva di un lucido apprezzamento sincero e quindi non scontato. In questo libro, Santoro indossa di nuovo l’armatura e si batte contro l’ignoranza oggettiva e i fatti opportunisticamente negati a favore della verità conoscibile della questione; come fa ogni buon giornalista da sempre. E ora lui, ancora una volta.

Ricorda le prime percezioni avute sulle possibili similitudini personali che ha riscontrato tra lei e il pentito Maurizio Avola?
“Mi sono avvicinato a Maurizio Avola con un misto di scetticismo e di repulsione. Era stato il killer di Pippo Fava, un giornalista come me, e aveva confessato più di ottanta omicidi. L’ho incontrato perché aveva testimoniato in alcuni processi, affermando di aver agito in alcune importanti circostanze insieme a Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino conosciuto di Cosa Nostra. Ho deciso di avvicinarmi ad Avola con grande freddezza, rimuovendo ogni valutazione moralistica ma ciò mi ha progressivamente portato a scoprire, non solo “le sue ragioni” ma i fili che univano le nostre storie, la lava di ingiustizia che le avvolgeva entrambe”.

La sua disponibilità a riconoscere qualcosa di se stesso in ciò che ha visto in Avola mi ha fatto pensare all’esortazione sublime della picciridda di Paolo Borsellino, Rita Atria, che la mafia è anche dentro ognuno di noi e che per combatterla veramente ognuno di noi dovrebbe cambiare anche intimamente. Forse ha vissuto la conoscenza con Avola un po’ così?
“Fin dal primo momento ho compreso che Avola non era un banale esecutore o una belva assetata di sangue. Somigliava piuttosto a un terrorista che agisce convinto di stare nel giusto. L’essere stato un uomo d’onore dotato di un vero talento militare lo aveva portato molto vicino ai vertici di Cosa Nostra. I suoi capi forse ne sottovalutavano l’intelligenza ma lo avevano reso partecipe di molti eventi di primaria importanza per la sua straordinaria abilità con le armi. Maurizio Avola è abituato al calcolo e alla programmazione razionale; ha osservato, ha memorizzato molti particolari e ci aiuta a comprendere i valori, il funzionamento e “l’architettura costituzionale” dell’organizzazione, fondata orizzontalmente su Province autonome e non, come si pensa erroneamente, sottoposta a un’unica Cupola. Una Cosa Nostra che forma una associazione unica, dalla Sicilia agli Stati Uniti”.

Abbiamo saputo che il suo progetto principale di indagare sulla figura di Matteo Messina Denaro l’ha portata a conoscere Maurizio Avola. Una deviazione, di questa portata – rivelando dichiarazioni inedite e ora al vaglio di una magistratura scettica, per usare un eufemismo – le è mai capitata, negli anni, nel corso di altre sue indagini?
“Da tempo sono sulle tracce di questo capo [Matteo Messina Denaro, ndr] che sembra essere scomparso nel nulla come la sua organizzazione. Non ha mai fatto un solo giorno di prigione; interrogarsi su di lui equivale a cercare di comprendere quali forme abbia assunto oggi la mafia. È evidente che una potenza economica, militare e politica che è stata capace di condizionare pesantemente la vita nel nostro Paese non può essersi dissolta nel nulla. Le dichiarazioni di un pentito, in questo caso sarebbe meglio dire un collaboratore di giustizia, vanno verificate ogni volta anche quando sia stata accertata in altri processi l’attendibilità del dichiarante. Ma mi occupo da più di quarant’anni di queste cose e ho verificato attentamente e con scrupolo che non ci fossero elementi che smentissero la versione di Avola. Certo la magistratura possiede strumenti diversi da quelli di un giornalista. Ma le accuse di depistaggio e di falso si sono rapidamente sgonfiate e sono emerse nuove conferme del suo racconto. È stato lui a parlare per primo della partecipazione di Matteo Messina Denaro nell’esecuzione della strage di via D’Amelio. E adesso alcune registrazioni appena sbobinate di Salvatore Riina in carcere dicono la stessa cosa. Il fatto è che non solo Maurizio Avola fornisce tutti i nomi dei partecipanti al commando ma nega nella maniera più assoluta che elementi dei servizi segreti italiani abbiano preso parte all’attentato. C’è una corrente complottista dei magistrati che si accanisce a seguire piste senza fondamento, per accertare non le vere responsabilità delle istituzioni ma all’inseguimento di un “Grande Vecchio” con indagini che durano in eterno e non portano a niente. Pensano che Cosa Nostra sia stata una organizzazione di esecutori e non un potere clandestino, a cui nessuno poteva dare ordini. Sarebbe decisamente più importante approfondire la partecipazione di Cosa Nostra americana alle stragi. Secondo Avola, John Gotti e Riina erano saldamente alleati. Non è un caso che siano finiti in carcere tutti e due, dove sono morti, permettendo alla Mafia di trovare nuovi equilibri al suo interno e con lo Stato. Lo Stato Italiano e quello degli Stati Uniti, per intenderci”.

Potrebbe condividere alcune sue osservazioni sul panorama televisivo italiano attuale dei programmi di approfondimento e d’inchiesta? Cosa nota; cosa la colpisce?
“Oggi il linguaggio si ripete monotonamente e regna un conformismo che anche il Movimento Cinque Stelle ha contribuito a creare. Non esiste una trasmissione come le mie che abbia la forza di riscrivere l’agenda politica. I programmi nati sulla scia di Samarcanda hanno pochi servizi o dirette dai luoghi, sono tutti uguali, studi con gli stessi ospiti dove cambia il conduttore e basta. Viviamo una fase regressiva dei mezzi di comunicazione, la tecnologia è impiegata al minimo, si approfondisce sempre di più la crisi del Servizio Pubblico radiotelevisivo e dei giornali. È una decadenza che ha avuto inizio col monopolio di Silvio Berlusconi e che si è andata aggravando. Direi che il nostro Paese sta diventando più piccolo e insignificante dal punto di vista economico, politico e culturale”.
Lei per primo ha portato Marco Travaglio in televisione con una resistente regolarità e già questo sarebbe bastato per meritare il premio Innovazione e rinnovamento, nel bene o nel male, del grande servizio pubblico RAI. Ma poi sono stati scoperti e sostenuti da lei negli anni, in ordine alfabetico, Beatrice Borromeo, Luisella Costamagna, Corrado Formigli, l’ex schermitrice Margherita Granbassi, Riccardo Iacona, l’allora giovanissima Giulia Innocenzi, l’internazionale Rula Jebreal, Maurizio Mannoni, e ovviamente l’Uomo indispensabile: Sandro Ruotolo. In tutti i suoi primi programmi, Mariolina Sattanino. Inoltre, lei ha creato un format a tutt’oggi fiaccamente imitato e mai sviluppato ulteriormente.
Oggi, quasi solo sulla Strada-non-presa, fuori dai riflettori e senza un’immensa sovrastruttura familiare come la RAI, dove prende le sue soddisfazioni e ispirazioni per continuare a mettersi in gioco?
“Non credo francamente che Travaglio possa essere considerata la mia principale innovazione. Certo è stato una scoperta e l’ho molto aiutato a trovare la strada per proporsi al pubblico nella maniera più efficace. Comunque non sarebbe stato possibile senza le sue qualità giornalistiche che sono più che notevoli. Direi che le mie trasmissioni hanno esplorato tanti linguaggi diversi per “raccontare la realtà attraverso la realtà”, mettendo in pratica la lezione di Pasolini. E ho costruito un ponte tra segni d’avanguardia e cultura pop. I libri dei giornalisti in Italia sono, con le debite eccezioni, “usa e getta”; pochi resistono al tempo. Da lettore appassionato, quale sono, preferisco evitare di scriverne altri, come invece amano fare tanti miei colleghi. Ma sarebbe stato un delitto sprecare le tante notizie clamorose che contiene “Nient’altro che la verità”. Non avendo una trasmissione, è stato il mio modo di resistere senza andare in giro a cercare lavoro con il cappello in mano. Visto e considerato che si è trattato di un successo, potrei continuare”.

È facile essere pessimisti ed apocalittici, ma lei riesce ad avere qualche idea – o a vedere delle conseguenze che forse sembrino a lei solo logiche – su come si svolgerà questa grande frattura delle informazioni e delle notizie dei mass-media nei prossimi 10 anni?
“I libri per fortuna consentono ancora al pensiero diverso di esistere e di sollevare dubbi e interrogativi. Internet, al contrario, privilegia il dialogo con i propri simili e l’aggressione delle idee altrui. Scrivere un libro è andare controcorrente e nella mia vita l’ho sempre fatto. Potrei elencare mille esempi di come, ciò nonostante, mi sia trovato più vicino alla verità io da minoranza della maggioranza che contrastavo. Televisivamente mi sono dato il compito di sollevare degli interrogativi. Sulla Mafia, sulla Guerra, sulla Prima Repubblica, su Berlusconi, su Matteo Salvini o Beppe Grillo. Questa volta ho perfino sollevato un interrogativo su me stesso, stabilendo delle connessioni con un Killer. Ma non li ho esauriti tutti; penso di non essere ancora arrivato alla fine dell’opera”.

Autore: Michele Santoro, con Guido Ruotolo
Editore: Marsilio 2021