In queste ore i riflettori sono tornati ad accendersi su Matteo Messina Denaro, il boss della mafia siciliana che le autorità italiane cercano, senza successo, da 23 anni. Dicono che attorno a lui sarebbe stato fatto il vuoto. Anche se le stesse autorità, a denti stretti, debbono ammettere che il territorio – cioè la gente che vive a Castelvetrano e, in generale, nel Trapanese – non sembra molto vicina alle forze del’ordine. Questo tema viene trattato con sufficienza, a tratti anche ignorato. Invece è proprio di questo che noi vorremmo parlare oggi: del fatto che la gente del Sud del nostro Paese o è indifferente ai temi della lotta ai boss, o – addirittura! – com’è avvenuto nelle scorse settimane in Campania, si riversa in strada per difendere il boss dagli uomini delle forze dell’ordine: con lo stesso boss che ‘lancia’ baci alla folla a scena aperta.
Che succede? Intanto va detto che nel Sud lo Stato italiano non è mai stato di moda. E’ una storia vecchia, che inizia nel 1860, a causa di quella grande truffa politica e storica chiamata ‘risorgimento’ (con la r minuscola). Una truffa massonica mediante la quale il Mezzogiorno d’Italia è stato conquistato da casa Savoia, ovvero da una delle peggiori monarchie europee. Anche se i libri di storia continuano a ignorare la verità dei fatti, è sotto gli occhi di tutti che i generali piemontesi, nei riguardi delle popolazioni del Sud, si comportarono da criminali per certi versi peggiori dei nazisti.
In Sicilia la truffa è stata doppia. Perché Garibaldi – un mercenario senza scrupoli che la storia italiana ha fatto diventare “eroe dei due mondi” – per ‘conquistare’ la Sicilia e consegnarla a casa Savoia, non esitò ad allearsi con i mafiosi. Abbiamo parlato di Garibaldi: in realtà, a trattare con i mafiosi siciliani dell’epoca erano in tre: all’eroe di Nizza si associavano, infatti, Bixio e Nicotera, che non erano meno spregiudicati di Garibaldi: anzi.
Da un’Italia che annetteva la Sicilia con l’aiuto dei mafiosi non c’era da aspettarsi molto. E infatti oltre a governare la Sicilia e il Sud con l’apporto ‘strategico’ delle mafie locali, l’Italia degli anni della post unificazione (con la u minuscola) ha sempre utilizzato i criminali per reprimere le rivolte popolari della povera gente. Crispi e Giolitti hanno utilizzato i mafiosi per controllare i voti del Sud. Crispi, quando arrivava in Sicilia, si accompagnava direttamente con i mafiosi, senza ritegno, mentre Giolitti, più ‘diplomatico’, utilizzava i Prefetti.
Sui rapporti tra Crispi e la mafia è paradigmatico il delitto di Emanuele Notarbartolo, che tornando alla guida del Banco di Sicilia rischiava di svelare tutti gli imbrogli di Crispi e dei suoi sodali. Sui modi criminali utilizzati da Giolitti nel Sud esiste un libro scritto da Gaetano Salvemini: “Il ministro della malavita”, ovviamente ignorato dai libri di storia che continuano a celebrare Giolitti come uno ‘statista’.
Anche Mussolini, alla fine, trattò con l’alta mafia, cioè con la borghesia mafiosa. Certo, negli anni ’30 aveva inviato in Sicilia Cesare Mori, il ‘Prefetto di ferro’. Mori fece piazza pulita di picciotti, di boss di medio calibro e anche di alcuni boss importanti (che emigrarono negli Stati Uniti). Ma quando arrivò alla borghesia mafiosa – i cui esponenti coincidevano spesso con i vertici del suo partito in Sicilia – fu costretto a trasferire il prefetto Mori per evitare di smantellare i vertici del fascismo nell’Isola. Un problema, quello delle collusioni tra politica e mafia, che la Sicilia si trascina fino ai nostri giorni, se è vero che, ancora oggi, esponenti dei partiti di governo vanno a braccetto con i boss ai quali chiedono voti e soldi, con le ‘autorità’ che fanno finta di non vedere (per la cronaca, onde evitare confusione, sono i boss che danno i soldi ai politici e non viceversa: i mafiosi ‘investono’ e non si accontentano certo degli ‘spiccioli’ dei politici: si fanno pagare in altra maniera, e molto bene, sfruttando le ‘pieghe’ del Diritto Civile e, negli ultimi due decenni, del Diritto Amministrativo).
Il rapporto tra la mafia e lo Stato italiano si sono rinsaldati nel 1943, con lo sbarco degli americani. E da allora non si sono mai interrotti. Anzi è grazie allo sbarco che gli USA hanno piazzato nella nostra Isola armi, persone e ‘strutture’ non sempre visibili (si pensi a Gladio) che, con molta probabilità, nella Prima Repubblica, sono serviti a eliminare i politici e, in generale, gli uomini dello Stato che si sono intestati la vera lotta alla mafia.
In questo scenario i siciliani e, in generale, i meridionali non hanno mai amato lo Stato. Non senza buone ragioni, dal momento che nel Sud, in certi casi, lo ‘Stato’ si identificava con le varie mafie locali. Una diversa sensibilità è maturata nella seconda metà degli anni ’80 del secolo passato, non per merito della politica (che ha fatto sempre poco, a parte alcune nobili eccezioni), ma grazie alla magistratura e alle forze di Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Uomini come Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno contribuito a creare un clima positivo, dando a tanti cittadini siciliani la fiducia verso lo Stato. Ne citiamo solo tre, ma sono tanti i magistrati, molti dei quali ancora in vita, che hanno contribuito a liberare la Sicilia dalla mafia e, soprattutto, dalla mentalità mafiosa, che non è meno pericolosa della stessa mafia.

Matteo Messina Denaro
Chi ha vissuto la stagione che va dai primi anni ’80 fino al 1992 ricorderà che la magistratura, in quegli anni, ripeteva fino allo sfinimento che, da sola, non avrebbe potuto sconfiggere la mafia. Perché la mafia – e questa è stata la grande battaglia fatta propria dal movimento sindacale della Sicilia – non si può battere con la sola repressione: servono posti di lavoro, per evitare che i disoccupati vadano ad alimentare la manovalanza mafiosa. Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 – e di questo va dato atto a sacerdoti coraggiosi – è iniziata anche un’attività di sostegno ai ragazzi dei quartieri a rischio, per strapparli alla mafia. Su questo terreno cade Padre Pino Puglisi, che si batteva per strappare i ragazzi ai mafiosi di Brancaccio, quartiere a rischio di Palermo. Accanto a lui, dagli anni ’90 fino ad oggi (anche se negli ultimi anni con grandi difficoltà), operano tanti sacerdoti. Ma, lo ribadiamo, in condizioni sempre più difficili.
Cos’è successo negli ultimi dieci anni? Qualche giorno fa la Svimez ci ha detto che il Sud non fa più parte dell’agenda dei governi nazionali. Non è un fenomeno nuovo. E’ così da dieci anni, forse da quindici anni. Gli ‘avvertimenti’ lanciati dai grandi magistrati degli ’80, circa la necessità di investire nel Sud per strappare manovalanza alla mafia, sono stati totalmente disattesi. Negli ultimi due anni – e questo è veramente incredibile! – i governi nazionali fanno di peggio: non solo non danno al Sud i fondi ordinari, portandoli tutti nel Centro Nord, ma rubano al Mezzogiorno i fondi straordinari nazionali e comunitari. L’ha fatto, nel silenzio generale, il governo Renzi tra il settembre e il dicembre dello scorso anno. Agli ‘annali’ rimarrà l’atteggiamento beffardo dell’allora sottosegretario di Stato, Graziano Delrio, che ha strappato i fondi per le ferrovie del Sud per portarli al Centro Nord, motivando tale opzione con la presenza, nel Meridione, di “rocce” che impedirebbero l’esecuzione dei lavori!
Lo stesso Delrio, sempre lui, si è ripetuto con i fondi Pac (Piano azione giovani). Oltre 5 miliardi di euro destinati al Sud (in parte ai Comuni per la spesa sociale che lo Stato non finanzia più), riprogrammati dall’ex Ministro Fabrizio Barca e scippati dal governo Renzi per finanziare il fallimentare Jobs Act con interventi in favore delle imprese (nel 90% con sede nel Centro Nord). Ed è ancora Delrio a dare ‘spettacolo’, con la farsa dei lavori per la riparazione dell’autostrada Palermo-Catania bloccata da una frana da oltre tre mesi. Finora, su questo fronte, dal governo nazionale, registriamo il nulla (a parte i soliti appalti per gli ‘amici’).
Il fallimento del governo Renzi in materia economica è sotto gli occhi di tutti. La disoccupazione giovanile nel nostro Paese supera il 44% (nel 2011, con Berlusconi, sfiorava il 30% e il PD chiedeva le dimissioni del governo dell’ex Cavaliere: e oggi che dovremmo dire del governo Renzi?). In Sicilia la disoccupazione giovanile sfiora il 70 per cento. In pratica, 7 giovani su 10 sono a rischio di finire tra le braccia della mafia. Non solo. Sulla scorta dell’azione pastorale portata avanti da sacerdoti coraggiosi negli anni ’90 la Regione siciliana era riuscita a organizzare un sistema per recuperare i minori che abbandonano la scuola dell’obbligo. Creando un segmento di formazione professionale dedicato proprio a questi ragazzi, gestito in massima parte da sacerdoti (Oif).
A questo punto è arrivato il governo regionale di Rosario Crocetta che, tra i tanti obiettivi ‘nobili’, ha anche quello di smantellare il sistema della formazione professionale per darlo in ‘pasto’ al solito gruppo di imprenditori-professionisti dell’antimafia che, più che di impresa, vivono grazie alle ‘mammelle’ della pubblica amministrazione. Attenzione: la formazione non opera con fondi regionali, ma con risorse europee. Non si può dire che sia stata colpita dalla crisi finanziaria della Regione. I soldi ci sono. Ma il settore è stato smantellato lo stesso per dare ‘biada’ ai professionisti dell’antimafia. Una vergogna! Così è stata sfasciata anche la formazione dedicata ai ragazzi che non finiscono la scuola dell’obbligo. Un altro favore alla mafia. La dimostrazione che il sacrificio di don Pino Puglisi, al di là dell’ormai insopportabile retorica, è stato inutile.
Vogliamo parlare delle aziende confiscate alla mafia? Dovrebbero essere gestite da imprenditori di provata esperienza. Invece sono appannaggio di una cerchia ristretta di ‘raccomandati’ che fa incetta di incarichi e li gestisce sul ‘modello’ delle curatele fallimentari (e vedi che mangi…). Ci sono studi professionali (avvocati o commercialisti) che gestiscono una serie impressionante di aziende confiscate ai mafiosi. Lungi dal cambiare registro, il ministero degli Interni ha costituito quello che, in fondo, si configura come la brutta copia della cerchia dei ‘raccomandati’ per provare a ritagliarsi uno spazio di gestione clientelare (leggere Agenzia per la gestione dei beni confiscati alla mafia).
Il risultato è che in Sicilia e, in generale, nel Sud Italia, quando un’azienda viene confiscata, i lavoratori sanno di aver perso matematicamente il lavoro. Certo, si organizzano dibattiti, si parla di introdurre novità. Per ora solo chiacchiere. In realtà, la Lega delle cooperative e altre organizzazioni imprenditoriali serie hanno offerto collaborazione. Ma la politica (e gli affari che stanno dietro la politica) non vogliono perdere quella che è la gestione di un grande bussiness.
Chi scrive, tra il 2005 e il 2009, è stato testimone di una vicenda allucinante che, forse, non è chiusa. Ci sono locali (per esempio, la sede dell’assessorato alle Attività produttive, che allora si chiamava Cooperazione, o edifici dove operano uffici della Asl 6, oggi Asp 6) che sono stati confiscati alla mafia e affittati alla stessa Regione, alla Asl 6 e ad altri soggetti pubblici. Un articolo della legge finanziaria nazionale di qualche anno fa prevedeva il passaggio di questi beni alla Regione, ai Comuni e alla Asl. Ma il passaggio veniva ritardato per consentire a chi gestiva questi beni di continuare a incassare gli affitti. Sarebbe interessante capire se la vicenda si è conclusa o se il ‘babbio’ va avanti.
Ci avviamo alla fine del nostro ragionamento chiedendoci e chiedendo: per quale motivo, oggi, in Sicilia, la gente dovrebbe collaborare nella lotta alla mafia se i primi a favorire la mafia sono gli organi dello Stato? Il governo nazionale, da due anni, deruba – non troviamo un termine più calzante – fondi pubblici destinati alla Sicilia. Ribadiamo: non solo non eroga i fondi ordinari, ma ruba anche i fondi straordinari, lasciando sul campo, come già ricordato, una disoccupazione giovanile del 70%. E’ o non è, questo, un oggettivo aiuto alla mafia? E o non è un invito alla mafia a ‘iniziare’ questi giovani disoccupati alla vita criminale?
I boss, quando investono in Sicilia o nel Sud, bene o male, danno lavoro. Poi arriva lo Stato, confisca le aziende e, invece di farle vivere, le sbaracca perché non è in grado di gestirle (o perché non è in grado di eliminare i parassiti che vivono a spese dei beni confiscati) . E perché stupirsi, allora, se in Campania la gente scende in piazza per difendere i boss, dal momento che lo Stato non solo non investe nel Sud, ma chiude anche le aziende avviate dalle mafie che davano comunque lavoro?
Lo stesso discorso vale per la Sicilia. Si cambierà registro, o le ‘autorità’ e la tv di Stato continueranno a ‘stupirsi’ che nel Sud la gente con ‘collabora’ nella lotta alla mafia? Che fine hanno fatto gli ‘avvertimenti’ dei magistrati degli anni ’80, che invitavano lo Stato a investire nel Sud per non lasciare soli gli stessi magistrati nella lotta alla mafia? Insomma, chi è che sta lasciando soli i magistrati nella lotta alla repressione della mafia, i meridionali o lo Stato? Matteo Messina Denaro avrà di certo complici importanti. Ma quello che lo Stato non fa in Sicilia e, in generale, nel Sud non creano certo le condizioni favorevoli per liberarsi dai mafiosi. Anzi.