Appocundria – s. f. – fatalistica accettazione delle sorti della vita, segnata da una noia esistenziale e venata di scettico ma malinconico distacco per qualcosa di indefinibile che non è, non è stato e non è potuto essere (Treccani)
Dopo aver messo il suo alter ego nei contesti più diversi – dalla camorra ai reality, dalle sedute psicoanalitiche al divorzio, e anche in una malattia che minaccia l’esistenza stessa – lo scrittore napoletano Diego De Silva ci propone, in controtendenza, lo star-bene di un personaggio emblematico del nostro tempo.
Nel romanzo Sono felice, dove ho sbagliato? (Einaudi, pp. 248, 17,50 €), l’avvocato Vincenzo Malinconico si trova davanti allo stato d’infelicità più pietosa e commovente perché senza soluzione di quantificazione. Lo strazio che provano gli innamorati maltrattati si mischia con la mentalità litigiosissima di tutte le società moderne, ossia lo spirito del “io non sono felice: colpa sua!“. Forte dell’idea di organizzare una class action contro i loro irresponsabili amanti, un gruppo di “impantanati sentimentali” vorrebbe intentare una causa legale per infelicità. Finalmente un contesto dove il più fuso di tutti non è il nostro eroe. Se Malinconico non fosse mai esistito, questo gruppo lo avrebbe inventato quale avvocato ideale per sostenere la loro causa.
Ma questo la dice lunga su quanto, di Malinconico, De Silva riesca sempre a nascondere prima e a mostrarci, poi – oltre le apparenze nelle vicende più strampalate, per svelare la vera profondità di questo personaggio-meraviglia. Alla causa degli infelici, è Malinconico per primo a non credere. E il libro spiega come questo, in fondo, sia logico (e malinconico).
Se non si frequenta Vincenzo Malinconico, attraverso ormai più di sei bei romanzi, ci si sta privando di una delle chiavi di lettura più esilaranti e gioiose del – e per – il nostro tempo per addolcire questa nostra vita “moderna”. Se, “‘a vita è ‘na chiaveca”, come diceva Pino Daniele (che ha reso nuovo l’uso del termine partenopeo appocundria), allora l’avvocato Malinconico funge da chiave di lettura, uno tra quei pochi attrezzi che sembra funzionino ancora.
La serie TV Vincenzo Malinconico, Avvocato è una novità televisiva dirompente su Rai 1. Sappiamo che non è estraneo alla scrittura per il cinema e le fiction. Ma ci può parlare di come ha vissuto lo sviluppo e la lavorazione di questa nuova avventura per le sue opere, finora solo letterarie?
Oltre ad aver scritto la sceneggiatura (insieme ad altri tre colleghi: Gualitero Rosella, Valerio Vestoso e Massimo Reale) sono stato anche molto presente sul set, dove in pratica il lavoro di scrittura è andato avanti perché c’erano sempre degli interventi da apportare, sulla base della scena viva da girare di volta in volta. Tra me, Alessandro Angelini (il regista), Massimiliano Gallo (il protagonista) e, devo dire, tutta la troupe, si è creato un rapporto molto disteso e felice, per cui abbiamo lavorato insieme con gran piacere.
Curiosità del lavoro della trasposizione dalla pagina allo schermo – penso a quanto detto da Andrea Camilleri del suo Salvo Montalbano oppure da John La Carré del suo personaggio spia, George Smiley – è che l’autore di un personaggio letterario, a forza di vederlo rappresentato cinematograficamente, arriva spesso a vederlo solo nelle vesti dell’attore e non più nella sua immaginazione d’ideatore. Sappiamo che considera l’attore Massimiliano Gallo una trovata malinconicissima…
Per lei, questa dinamica potrebbe creare un ibrido di ciò che solo lei per primo, come autore, aveva sempre immaginato di Malinconico? È preoccupato oppure preparato per questa possibile eventualità?
Prima di questa esperienza non avevo alcuna idea di chi fosse Malinconico, fisicamente parlando. Da quando Massimiliano ha accettato il ruolo, ora la faccia (perfetta) di Malinconico è la sua. Devo dire che è un vantaggio, quando passi a scrivere la storia successiva, perché è come se confezionassi un vestito per una figura che finalmente conosci.
Ci puoi dire di cosa parla il suo libro?
Di un gruppo di infelici sentimentali invischiati in relazioni senza sbocco (Malinconico li chiama “gli impantanati)” che vorrebbero istituire una class action per portare in giudizio le sofferenze amorose. Malinconico è contrario fin dall’inizio alla possibilità d’intraprendere una simile causa, perché crede che la nobiltà del dolore sia nella sua inestimabilità. Da qui, si articolano altre storie che si risolvono in finale di romanzo.
Quali sono state le sue influenze – se ci sono state – in particolare per l’ultimo libro?
Non credo di aver subito alcuna influenza nella stesura di questo libro. Fortunatamente, Malinconico ha una voce, e mi basta seguirla. Da questo punto di vista, avere un personaggio seriale con una personalità letteraria definita è un bel vantaggio.
Quali sono alcune parole che “disprezza” che sono state usate per descrivere le sue opere da parte dei lettori e/o dei recensori?
“Carino”. È un aggettivo che va bene per i barboncini. Ma fortunatamente l’ho sentito dire solo da qualche imbecille senz’arte né parte.
Quale sarebbe la carriera che sceglierebbe, se potesse, oltre ovviamente alla scrittura – indipendentemente dai requisiti scolastici e/o dal talento?
La mia prima passione è la musica. Da ragazzo avevo una band in cui componevo i pezzi e suonavo la chitarra. Ma stiamo parlando di sogni giovanili. Con la musica me la cavavo ma non avevo un vero talento.
Dopo il successo da scrittore ormai consolidato, come affronta la “arroganza” (chiamiamola così) di pensare che qualcuno abbia o dovrebbe avere interesse per quello che ha da dire su qualsiasi cosa?
Ah, non è un mio problema. Io non m’interrogherei mai su qualsiasi cosa, e generalmente tendo a parlare di quel che so. Se un problema di comunicazione abbiamo, oggi (pensiamo alla pandemia, o alla guerra in Ucraina), è che qualsiasi sfessato dice la sua. È un malinteso senso della libertà di espressione, per cui più nessuno si vergogna di parlare a orecchio.
Una sua recente comparizione su RaiNews mi ha fatto molto piacere inaspettato, perché lei è riuscito a parlare di questo momento storico – l’invasione criminale dell’Ucraina – in modo organico (dinamica rara) connettendolo anche al tema del libro (la felicità/infelicità di noi occidentali privilegiati) e il momento che stiamo vivendo: l’imbarazzo di prospettive contradittorie, tra gli aumenti del costo della vita e le immagini di morte sul suolo europeo. A quei cinici che dicono che la scelta è tra l’impossibile di affrontare il carovita oppure l’insensibile di non supportare più gli ucraini, dico che sia il caso di convincerci che questa decisione sia piuttosto tra il supportare gli ucraini oppure avere eventualmente le bombe anche qui dai nostri cieli.
Lei cosa ne pensa? Ha un’osservazione in merito?
Beh, questa insopportazione verso un popolo che sta soffrendo un’invasione proprio non me la spiego. Davanti alle immagini delle stragi che abbiamo visto in questi giorni divento particolarmente allergico a ogni polemica da cortile (che si tenga in un cortile o in un talk show). Vorrei solo che potessimo contare su una strategia politica ben concepita per affrontare questo dramma o almeno sostenere il popolo ucraino nel modo migliore. Per ora mi pare si stia andando un po’ a tentoni, ma in parte questo è anche comprensibile, considerato che gli eventi in questione si sono succeduti a valanga. Certo, non mi pare che otterremmo la pace semplicemente spegnendo i condizionatori la prossima estate.