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June 6, 2020
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June 6, 2020
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Yes, We Trump! Parla l’autore del libro convinto che Donald non si fermerà

Intervista con Luca Marfé, il giornalista che dopo aver viaggiato per gli Stati Uniti, ora spiega che il consenso di cui si nutre Donald Trump lo farà rivincere

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Yes, We Trump! Parla l’autore del libro convinto che Donald non si fermerà

Luca Marfé con dietro Trump nella vignetta di Luigi Gallo

Time: 23 mins read
La copertina di Yes We Trump!, edizioni Paesi, 2020, è anche disponibile in versione e-book

Luca Marfé, giornalista napoletano classe 1980, ha vissuto diversi anni prima in Sud America e poi negli Stati Uniti, dove è arrivato nel 2015, in tempo per la campagna presidenziale del 2016. Scrivendo per il quotidiano della sua città Il Mattino e per l’edizione italiana del magazine Vanity Fair, Marfé comprese prima di altri colleghi che Trump avrebbe vinto contro Hillary Clinton. Come? Girando per cittadine sperdute di quegli Stati dell’Unione lontani dai riflettori di New York, Los Angeles o Chicago. Poi ha continuato a viaggiare, anche in compagnia della firma di punta di Repubblica Federico Rampini (che ha scritto la prefazione al suo libro) per continuare a scovare e tenere il polso di quegli americani che col loro voto avevano spalancato le porte della Casa Bianca a Donald Trump.

Forte di questa esperienza, alla vigilia della elezione del 2020, Marfé ha scritto Yes, We Trump! Chi riuscirà a fermarlo?, (Paesi Edizioni, 2020) un libro che cerca non solo di spiegare ancora come Trump sia riuscito a conquistare l’America, ma soprattutto perché, secondo Marfé,  continuerà a rimanere l’inquilino della Casa Bianca ancora per quattro anni, nonostante l’impeachment e tutto quello che i democratici si sarebbero “inventati” per fermare il tycoon.

Ma sarà ancora possibile una conferma di Donald Trump nonostante la pandemia di Covid-19 che ha provocato negli Stati Uniti più di 100 mila morti sconquassando l’economia? Nonostante le proteste e le violenze, scaturite dal movimento anti razzista in tutti gli USA scatenato dalla morte di George Floyd?

Ecco la nostra lunga intervista, in cui nelle domande citiamo interi passaggi del saggio di Marfé per seguire meglio il filo logico del libro che, lo diciamo subito per chiarezza, invece noi speriamo questa volta sia smentito da quegli stessi americani che comunque il giornalista “Made in Naples” dimostra di aver conosciuto bene.

Luca Marfé nella press room della Casa Bianca
Luca, iniziamo dal titolo del primo capitolo: L’America non è New York. E infatti tu sei andato a scovarla in New Hampshire e in altri stati dove tengono i fucili  a casa pronti. Ma questo si sapeva già. Forse volevi dire anche che New York non è l’America? Eppure Trump viene da New York. Come ha fatto lui, newyorchese, a capire meglio degli altri l’America?
«Sono andato in molti posti, non solo dove tengono i fucili a casa pronti. È un’equazione, certo: l’America non è New York, New York non è l’America.
Il segreto è questo: molti considerano New York un punto di arrivo, Trump l’ha interpretata invece come un punto di partenza. Si è mosso tra gli altri Stati così come un’imprenditore si sarebbe mosso tra gli altri mercati, cogliendone i bisogni, a tratti disperati.
È stato furbo, ma anche disposto a sporcarsi le mani nel malcontento popolare, a differenza di chi pensava di continuare a pontificare da chissà quali torri di avorio, perfettamente rappresentate dai grattacieli di New York o dai palazzi del potere, quasi tra le nuvole, quasi scollegati dalla realtà delle strade.
E ha parlato chiaro, in un’apoteosi di tutto ciò che è opposto a un politically correct che ha il sapore, amarissimo, del non poter parlare nemmeno più».
Trump nella illustrazione di Antonella Martino
Scrivi: “Per conoscere gli Stati Uniti una vita non basta. E pensare che c’è sempre qualcuno che pensa di averli capiti. Bisogna provarci, però”. A che punto di comprensione pensi di essere arrivato? 50%? 90%? 1%?
«Non pretendo di annoiare nessuno con i miei trascorsi né sono arrivato da nessuna parte. Continuo a girovagare, ad ascoltare più che a parlare, mi diverto, non ho nessuna intenzione di smettere».
Oltre che divertirti tu provochi col tuo libro, quando scrivi per esempio dei democratic che hanno troppo utilizzato “…una narrativa inclusiva di tutti: neri, gay, transessuali, musulmani, latinoamericani, migranti, persino di migranti illegali. Una narrativa che ha finito, però, neanche troppo paradossalmente, con l’escludere proprio gli americani, che si sono ritrovati un po’ increduli e altrettanto smarriti alla ricerca di un nuovo leader che li aiutasse a restaurare un predominio vecchio…”. Allora, credo che tu intendessi così spiegare anche lo slogan “Make America Great Again” di Trump. Ecco, proprio in questi giorni, leggere la considerazione dei neri tra i migranti illegali e non tra “gli americani…”. Che cosa significa? Che volevi dire? Che per l’America di Trump, per restare “great” i neri non saranno mai americani? Spiegati meglio, soprattutto di questi tempi è importante mi sembra…
«Il “Make America Great Again” è uno slogan strillato più sul piano internazionale che non su quello interno. Trump ce l’ha a morte, per larghi tratti giustamente, con la globalizzazione, non con le minoranze. Certo è che qualcun altro, invece, a furia di occuparsi di questa o di quella minoranza, si è dimenticato della “maggioranza”. Non lo dico certo io. Lo dice, ad esempio, la sconfitta di Hillary».
Un collage dei fedeli lettori di Luca Marfé con la copia del suo libro appena acquistato
I democratici nel tuo libro ne escono a pezzi. Anche perché quando Hillary perde, invece di fare mea culpa, cerca il colpevole altrove, la Russia, e tu scrivi “come se Trump fosse figlio di Vladimir Putin e non invece della working class americana, abbandonata da otto lunghi anni di promesse e pochi risultati, costretta a fare i conti con l’aumento del costo della vita, con la paralisi dei salari, con un sistema sanitario evidentemente inefficiente, con un’educazione universitaria per molti inarrivabile e con delle infrastrutture che grosso modo cadono a pezzi. E allora meglio parlare di Putin…”. Sono d’accordo con te su questo, che i democratici avrebbero dovuto fare più penitenza sui propri errori. Ma Putin allora secondo te non l’ha aiutato per nulla Trump?
«No. Anche in questo caso, non si tratta di una mia opinione, bensì del risultato di tre anni di inchieste sfociate nel più colossale buco nell’acqua dell’intera storia americana».
Trump supporter davanti alla Trump Tower di Manhattan (Foto Wikimedia/Marco Verch)

Nel tuo saggio, Trump attrae il voto di “un’America per l’appunto maschilista, in parte vecchia, nell’interezza di una sua abbondante metà conservatrice”. E che è la democrazia baby, se la gente vuole “un presidente lontano dall’essere illuminato, impeccabile, sofisticato, perfetto e saggio. E però vicino, anzi vicinissimo, all’americano medio che per riconoscerlo come leader non ha bisogno di muovere alcuno sforzo. Trump è l’espressione naturale di quegli Stati Uniti che conosciamo poco. E che poco o nulla hanno a che vedere con le grandi città come New York o Los Angeles, con il mondialismo sfrenato di chi vorrebbe mescolare tutto e tutti, e con il riformismo irrefrenabile di chi punta ad annientare cultura, radici e tradizioni fino all’iconoclastia del buttare giù i monumenti…”. Ma secondo te, Trump recita nell’essere “espressione naturale” degli USA che non conosciamo? Oppure è proprio come loro, anche se lui è di New York?

«Caratterialmente, assomiglia molto al suo elettore tipo. È come fosse esasperato per sua natura, esausto di certe maniere accomodate e accomodanti, ma terribilmente vuote, praticamente finte. Un uomo di polso, abituato a fare, anche a strafare come del resto è evidente in tanti dei suoi scivoloni. Ma pragmatico come l’americano che nell’immaginario collettivo si tira su le maniche e si mette al lavoro.

E poi recita pure, su questo siamo d’accordo.
Ha capito, da solo e con il suo staff, che il suo personaggio funziona e dunque calca volentieri la mano.
Ripeto: furbo».
Per te Trump è un maestro nel saper trasmettere quello che non sa, e dopo averlo scritto affermi: “Bisogna avere la lucidità di ammetterlo per provare anche soltanto a immaginare di poterlo contrastare. E sconfiggere”. Ci spieghi meglio il concetto del Trump che riesce a comunicare meglio ai suoi elettori pur non capendone niente di quello di cui parla?
«È un fuoriclasse nell’agitarsi, lo è senz’altro meno nello studiarsi dossier che meriterebbero invece di essere approfonditi. E viviamo in un tempo in cui quasi nessuno ha più tempo né voglia di approfondire, quindi paradossalmente la sua superficialità e la sua rapidità/ferocia di “esecuzione” paga».
Donald Trump (by Antonio Giambanco/VNY).
Inutile cercare in Trump lo statista che rispetta le istituzioni. Anche tu scrivi che lui “interpreta il suo mandato non come un dovere istituzionale figlio di un’investitura democratica. Ma come una battaglia da vincere, dove restare in piedi fino alla fine può dipendere anche e soprattutto da coloro che sono lì a guardarti le spalle, addirittura a salvarti… Contro un sistema politico-mediatico che tra deputati, senatori e giornalisti di lungo corso rivela una certa intolleranza proprio alla democrazia, pari almeno a quella dell’odiato presidente”.  Quindi lo difendi da chi l’etichetta, come per esempio faccio io da direttore di questo giornale, come un pericoloso autoritario, fascista, razzista, perché invece secondo te Trump “di dittatoriale o fascista o razzista non ha alcunché”.
Neanche quando fa smuovere a colpi di manganello pacifici dimostranti difronte la Casa Bianca per potersi far fare le foto con la bibbia in mano?
«Ne sono convinto e in generale mal digerisco l’abuso degli “ismi”, sempre più utilizzati come un’etichetta infame da appiccicare addosso al nemico di turno e sempre meno aderenti con certe definizioni storiche.
Certi episodi sono odiosi, le manganellate o gli spintoni ad esempio.
Certi altri sono criminali, la morte di George Floyd per cui mi auguro che gli (ex) poliziotti paghino caro e amaro a rigor di legge.
Ma queste storture della società americana non sono certo “figlie” di Trump che dal canto suo, ancora una volta con fare furbo, si fa fotografare con la Bibbia in mano per strizzare l’occhio ai conservatori e per vendersi come il restauratore dell’ordine pubblico. Così, però, com’è furbo il fare di chi vorrebbe strumentalizzare le stesse storture di cui sopra per sostenere invece la tesi opposta. Ovvero che sia tutta colpa sua».
Di nuovo, per te Trump è un genio della politica che serve il popolo e scrivi: “A Trump va riconosciuto, comunque, il merito di aver scardinato il meccanismo di una politica che nel corso degli ultimi anni, a colpi di globalizzazione sregolata e sfrenata, si è autoconvinta e ha cercato di convincere che non esista altra via all’infuori della sua. Non è così. E non per chi scrive. Ma per milioni di elettori americani. Trump ne è la prova. E, che piaccia oppure no a chi scrive e a chi legge, di quei milioni di elettori americani lui ne è la voce ed espressione più autorevole”. Secondo te, dopo quattro anni, tutti i suoi elettori la pensano ancora così? E perché?
«“Tutti” non lo so. Sicuramente continuano a vedere in lui una sorta di resistente. Al di là della sua figura, però, il pensiero, e il consenso, è legato a doppio nodo all’economia. Sarà fondamentale capire se e quanto terranno le fondamenta di prodotto interno lordo e occupazione da qui al 3 novembre».
Melania, la First Lady emigrata dalla Slovenia, è un po’ l’eroina del tuo libro. Sembra Luca che tu ne sia perdutamente innamorato e non solo della sua bellezza irresistibile. Indichi anche che la guerra con la figlia di Donald, Ivanka, sia ormai ai ferri corti: ma chi vincerà? Potrebbe proprio il duello Melania-Ivanka far barcollare Trump? Oppure Trump è un genio anche del “dividi et impera” in famiglia?
Melania Trump nell’illustrazione di Antonella Martino

«Confesso il mio amore, oramai dichiarato pubblicamente.

Battute a parte, Melania ha una storia molto affascinante che si sarebbe prestata a narrazioni grandiose, se soltanto qualcuno lo avesse voluto. O, tanto per essere ancora più chiari, se fosse stata la moglie di un presidente di sinistra.
Ci sono state, in passato e in particolare nei primi mesi della “nuova” Casa Bianca, delle scintille con Ivanka. Ma credo appartengano appunto al passato e non immagino in alcun modo che possano ripercuotersi sull’attualità della politica né tantomeno far barcollare Trump.
Ancora su Melania: credo che invece possa rappresentare l’altra faccia della medaglia di questa presidenza. Il suo volto buono e la sua pacatezza, capaci di bilanciare in maniera quasi scientifica gli “strilli” del marito.
Un elemento di stabilizzazione, dunque. Non di destabilizzazione».
Il taglio alle tasse: ha avuto ragione Trump, fai capire nel libro. Insomma un genio in tutto…
«L’azzardo della riforma fiscale, e del taglio delle tasse che definirei quasi brutale, era stato accompagnato da un coro di catastrofismi. Ebbene, non c’è stata nessuna catastrofe. Nessuna voragine nei conti pubblici e viceversa un Pil a tratti sopra la soglia del +4% (Obama diceva che sarebbe servita una “bacchetta magica”) e una disoccupazione praticamente inesistente.
Fino all’esplosione della pandemia di coronavirus, naturalmente. Ma questa è un’altra storia e la stiamo ancora vivendo».
Trump a cena con Xi Jinping
Anche nella politica estera, Trump promosso a pieni voti. Scrivi: “Le maniere del nuovo presidente sono certamente sbagliate, ma lo sono di proposito in quanto volte a spaventare. E, fino ad ora, nonostante il fare guerrafondaio, non c’è stata nessuna guerra. Altra differenza, non di poco conto, con la maggior parte di quanti lo hanno preceduto. L’estetica da bullo paga, insomma”. Ha pagato veramente? Il mondo è più sicuro con Trump? Sbaglia chi crede che stia portando gli USA a uno scontro fatale addirittura con la Cina? Anzi, da quello che scrivi, la “guerra” è già scoppiata con la Cina e chi gli va dietro nella questione del 5G, Huawei etc.. Ha sempre ragione Trump e torto gli europei? Persino a Boris Johnson Trump ha tirato le orecchie sulla questione…
«Con la Cina non ci sarà mai nessuna guerra perché nessuno al mondo può permettersela. Non nella sua accezione tradizionale. Viceversa è già in corso la “guerra” per il predominio mondiale, tra economia, dazi, tecnologia, vero e proprio colonialismo (Pechino si sta comprando l’Africa) e addirittura virus. Che, a prescindere dalle sue eventuali origini naturali o sintetiche, è diventato nelle ultime settimane il vero terreno di scontro tra i due giganti. Almeno sul fronte della propaganda. Un teatrino surreale in cui Xi Jinping gioca a recitare la parte del buono, persino del salvatore del mondo mandando medici a spasso. E in cui Trump, invece, agita il drappo rosso delle responsabilità cinesi sotto gli occhi del toro furioso che sono i suoi elettori. Per la partita elettorale, almeno sul fronte Esteri, il nemico perfetto.
Sorvolo infine su un’Europa, o meglio su un’Unione Europea e su una colpevolissima Germania oramai appiattite alle volontà e ai soldi della Cina. Un’Europa che parla tanto, ma di cui evidentemente dei Diritti Umani non gliene frega niente».
Sempre sulla politica estera. Luca tu dai spazio al Venezuela, paese che conosci bene. Anche qui appari entusiasta della politica estera del tycoon americano. Scrivi: “Per adesso, il presidente americano resta a guardare, affacciato alla finestra del Sud, con l’aria e l’aura dell’unico uomo al mondo coraggioso al punto da tendere una mano alle forze democratiche. Anche se questo non può bastare, e il dossier «regime change in Venezuela» non è, in realtà, ancora stato affrontato”. Trump “liberatore” di popoli oppressi?
«Entusiasta è un parolone, perché al pari di Hong Kong siamo al cospetto di dossier drammatici. Trump non li ha di certo risolti, ma gli va riconosciuto il merito di aver sbattuto i pugni sul tavolo e di alzare tuttora, praticamente ogni giorno, la voce su un doppio scempio sul quale gran parte della politica occidentale sembra invece disposta a sorvolare. Nel caso del Venezuela, per stantie ragioni ideologiche. Nel caso di Hong Kong, per non rinunciare agli affari con la Cina. A che prezzo, però? Perché si solidarizza (giustamente) a prescindere con i manifestanti di Washington e non si presta invece alcuna attenzione a chi muore di fame a Caracas? O, quasi peggio ancora, alla libertà che muore strangolata tra le mani del regime comunista cinese?»
Trump e Kim Yong Un
Kim Yong Un e Donald Trump (Credit: Wikipedia CC)

Dopo aver parlato degli incontri di Trump con il dittatore della Corea del Nord, scrivi: “Il tycoon veste così i panni di un uomo saggio e ragionevole, le cui aspirazioni Nobel, a fronte di ciò che mai era accaduto negli ultimi settant’anni iniziano francamente a essere più che fondate, persino legittime”. Luca, ripeto la domanda: Trump si merita il Nobel per la pace?

«Oggi non ve ne sarebbe alcuna ragione. “Ieri”, per l’apertura storica e addirittura clamorosa sul fronte Pyongyang, lo avrebbe meritato di certo più rispetto a quello poggiato sul nulla e letteralmente regalato sulla fiducia a un certo Barack Obama. Un Obama rivelatosi, nel tempo e nel concreto, molto più guerrafondaio di Trump».

La questione “razziale” in America non l’affronti mai nel tuo libro. Forse non ti sembrava, fino a pochi giorni fa, che potesse sconvolgere anche la corsa alla presidenza. Eppure ora le reazioni e le manifestazioni per la morte di George Floyd, sembrano aver cambiato gli scenari. Secondo te quello che sta succedendo in questi giorni, favoriscono o no la corsa di Trump? Il suo chiedere l’intervento dell’esercito, il suo farsi fotografare con la bibbia invano dopo aver fatto sloggiare a manganellate pacifici dimostranti? Ha fatto errori o il suo solito fiuto di “showman” sa attrarre più di chi respinge?
In sostanza, ci sarà una “maggioranza silenziosa” che fece volare Nixon e che spaventata dai saccheggi e distruzioni farà volare anche Donald, oppure l’aver chiaramente offeso gli afroamericani con quella chiamata alle armi, potrebbe scuotere una massa ad andare al voto contro di lui e far la differenza?
«È la domanda dell’anno.
Yes, we Trump! è stato un libro difficile, che sono stato a più riprese costretto a riscrivere. Perché è difficile stare dietro a un presidente che, alle volte anche con un solo tweet, stravolge la sua agenda e di conseguenza l’agenda della politica, dei media, degli Stati Uniti e del mondo intero.
Sinceramente no: non avrei pensato che la questione razziale potesse tornare di colpo tanto al centro di questa corsa elettorale. E invece la surreale morte di George Floyd, gravissima e assolutamente inaccettabile in un Paese che possa anche soltanto lontanamente definirsi civile, esplode come una bomba al centro del dibattito e di conseguenza del voto.
Come?
In tutte le maniere sbagliate possibili e immaginabili.
Sbagliate perché un uomo non può morire così, con l’aggravante del morire per mano di chi la vita, assieme all’ordine, dovrebbe tutelarla.
Ma sbagliate anche perché solidarizzare con una battaglia giusta non può degenerare nella distruzione, nel saccheggio, nel volgare furto.
Se la protesta resta pacifica, Trump ci rimette e pure parecchio.
Se la protesta dilaga nel caos, Trump ci guadagna e vince di nuovo».
Trump alza la bibbia ma non la aprirà e non leggerà alcun passaggio (Immagine da youtube)
Trump, prima ancora dell’incidente per la foto con la bibbia, aveva twittato che prossima volta scioglierà i cani feroci contro i manifestanti davanti alla Casa Bianca che non si comportano bene… Secondo te queste provocazioni le fa perché ne è convinto insomma è lui, il vero Trump al 100%, oppure sono slogan elettorali puntati verso una certa base che deve essere saziata ogni giorno con questi proclami violenti?
«Sono messaggi da “law and order”, neanche troppo in codice, evidentemente. Forti, persino pericolosi, ma se vogliamo discutere seriamente di violenza, dobbiamo guardare a entrambi gli schieramenti. È vero che un presidente, considerata la posizione di vertice, dovrebbe essere più cauto. Ma è anche vero che certi “manifestanti” sono tutt’altro che pacifici. Le virgolette perché delinquenti, da arginare a prescindere dai cani feroci, nell’interesse del Paese, della sua stabilità economica e di ordine pubblico».
Qualche mese fa, sulle tensioni con l’Iran, come ricordi nel libro, Trump scrisse tu twitter: «Siamo pronti a colpire i siti culturali iraniani», per poi esser smentito dal suo ministro della Difesa Mark Esper. «Sarebbe un crimine di guerra, agiremo nel rispetto del Diritto Internazionale». Ora Esper ha di nuovo smentito Trump sull’opportunità di utilizzare l’esercito per i tumulti di protesta per il caso Floyd. Seguito anche dall’ex ministro della Difesa James Mattis che ha definito le mosse di Trump incostituzionali e lo ha accusato di essere l’unico presidente a non cercar mai di “unire” il paese: Secondo te, Trump dovrebbe  stare più attento a questo tipo di critiche “interne”, insomma che non hanno il marchio democratico,  oppure anche questa volta ne uscirà illeso?
«Dovrebbe coordinarsi di più e meglio con le varie estensioni dello Stato. Non fosse altro che per risparmiarsi la figuraccia di essere smentito. Concordo, dunque.
Ma guai a pensare che lo faccia perché ingenuo.
Lo fa per sfidare a viso aperto, sempre agli occhi attenti dei suoi elettori, quello che ama bollare come “sistema”, così da proporsi come paladino. Come quello che sta, sempre e comunque, dalla parte della gente e non da quella dei vecchi potenti di Washington e dintorni.
Gioca a farsi intralciare per scaricare su chi lo intralcia anche la responsabilità dei suoi eventuali fallimenti».
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, durante la Conferenza stampa congiunta alla Casa Bianca. (foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)
Con L’Italia, scrivi dell’intesa tra Trump e Conte perché entrambi estranei alle carriere politiche. Poi racconti nei particolari la visita a Washington di Sergio Mattarella – ricordo che eravamo seduti vicini durante la conferenza stampa –  E anche qui, nella tua analisi promuovi Trump a pieni voti. Insomma lo consideri non un “improvvisatore” ma uno stratega che sa quello che vuole e come ottenerlo:  “Sergio Mattarella ancora non lo sa, ma quella conferenza stampa renderà esplicite come mai prima d’allora le linee guida che Donald Trump in persona ha in mente per la politica militare degli Stati Uniti negli anni a venire: rinforzare la NATO esigendo più soldi dagli alleati nonché sfruttare gli altri Paesi per la prima linea dei conflitti trincerandosi nella cabina di regia. Chi pensa che il presidente improvvisi e non sappia di cosa parla si sbaglia di grosso. E le successive mosse del Pentagono lo dimostreranno in maniera sempre più esplicita”.
Dai Dieci e lode alla politica estera di Trump anche nei confronti dell’Italia e dell’Europa?
«Premessa: oggi non so se scriverei di nuovo di Giuseppe Conte come estraneo della politica, considerato che in procinto di annunciare un suo partito personale mi sembra sia diventato più politico di tutta la vecchia classe politica messa insieme.
Detto questo, i due si sono trovati personalmente in ottima sintonia, ma nella realtà dei fatti hanno strutturato convergenze evanescenti. Tutto il discorso Libia, ad esempio, è rimasto per l’appunto un discorso.
Boccio Trump sia sull’Italia che sull’Europa, di cui probabilmente non gli importa granché rispetto ad altri scenari che considera invece chiave.
Si è limitato a ostentare qualche simpatia nei confronti di Johnson, animale politico molto simile a lui, e più in generale una mano tesa nei confronti del Regno Unito, ma più in un’ottica anti Unione Europea che non in coincidenza di chissà quale progetto.
Progetto che Trump, nella sua relazione con l’Europa, non ha. Anche perché è difficile affermare che esista un’Europa, quanto meno che esista un’Europa sola».
Trump alla riunione della NATO a Londra
Ti faccio la stessa domanda, usando le parole dell’ambasciatore ed ex ministro degli Esteri Giulio Terzi che firmando la postfazione al tuo libro, scrive: “Trump entrerà nella Storia come un presidente che avrà rilanciato libertà, diritti umani e stato di diritto a livello globale, o piuttosto come alleato di «potenze revisioniste» di un ordine mondiale al quale l’America del dopoguerra e del post Guerra Fredda aveva fortemente contribuito?”
«È una domanda importante, che come tutte le domande che hanno a che fare con la Storia dovremmo porci a storia conclusa.
Il rischio di una deriva favorevole a un revisionismo addirittura pericoloso c’è, ma ultimamente sembra essere limitato dalle grida che Trump rivolge alla Cina. Con la Russia il rapporto è più quieto, ma comunque teso. Sul fronte della libertà e dei Diritti Umani, deve maneggiare con grande cura il dossier della razza, ma fa bene ad agitare certi temi a livello globale. Nella speranza che la voce del presidente degli Stati Uniti d’America, per quanto discusso e discutibile, possa arrivare in ogni angolo del mondo, specie là dove ce n’è più bisogno. In questo senso, sì, storicamente potrebbe incidere. E a prescindere dalle proprie inclinazioni politiche, ciascuno di noi dovrebbe augurarselo».
Il presidente Donald Trump ha appena finito il suo discorso e dietro di lui, la speaker Nancy Pelosi lo straccia
Per te il Russiagate, è solo un flop. Però poi per l’Ucrainagate Trump vacilla, terzo presidente ad essere impeached. Eppure ecco che, come del resto capitava al nostrano Berlusconi, scrivi che anche qui il presidente riesce a ribaltare tutto: “Trump ce la sta facendo di nuovo, i suoi avversari si stanno lasciando fregare un’altra volta. Più lo attaccano, più si rafforza. Più parlano di lui, più gli regalano il centro della scena. Più insistono con la via giudiziaria, più svelano il vuoto della loro proposta politica. Tanto accanimento non fa che compattare ulteriormente le fila di un tycoon che, furbo come nessuno, dice di essere addirittura chiamato a salvare il futuro di questo Paese…” E ancora: “Finisce così una strategia che gli stessi democratici, a più riprese, avevano considerato come potenzialmente fallimentare. Con Nancy Pelosi che in diretta televisiva, vistasi rifiutare la stretta di mano dal presidente, strappa stizzita i fogli del discorso con un gesto tanto rabbioso quanto puerile. Che cosa resta, dunque, della messa in stato di accusa del presidente? Una sensazione di colossale buco nell’acqua, dove proprio Trump sguazza con nonchalance. Il tycoon, infatti, è come se avesse ricevuto un assist, come se scalpitasse adesso, pronto per scatenare la controffensiva, svestendo i panni del martire e vestendo quelli dell’eroe. Quelli di chi, cioè, aveva ragione sin dal principio”. Ok, i democratici non avevano i numeri al Senato per buttarlo fuori dalla Casa Bianca. Eppure non credi che il marchio indelebile dell’impeachment possa danneggiarlo a novembre?
«No. Credo che questa (doppia) vicenda lo abbia rafforzato e basta. Che lo abbia ritratto, cioè, come la vittima di un’impalcatura crollata perché fondata più su una certa smania politica avversa che non su una prova che di fatto non è emersa.
Temo che il marchio riguardi più i suoi avversari, che sarebbero più credibili radunati attorno a proposte concrete che non sugli scranni degli inquisitori ad oltranza».
Dal tuo libro è chiaro che ci sono due Americhe che si combattono per il potere. Scrivi:
“«Adesso sono cazzi vostri!», l’incipit di questo libro, torna così quale sintesi perfetta del principio e dell’epilogo di uno scontro. Quello tra repubblicani e democratici, quello tra politica e giustizia, quello tra quattro anni di promesse mantenute e quattro di accuse infondate. Quello tra due Americhe che si disconoscono a vicenda e che, invece di parlarsi, si allontanano, costruendo e demolendo un Paese a fasi alterne. È lo scontro tra il metalmeccanico del Michigan e il miliardario di New York, tra il minatore dell’Ohio e il genio della Silicon Valley, tra lo sceriffo del Texas e l’immigrato messicano, tra il commerciante di Phoenix e il visionario dell’Oregon, tra l’operaio dell’Iowa e il divo di Hollywood. Ed è uno scontro tra passato e futuro, là dove «passato» non significa necessariamente «sbagliato» o «peggiore» e «futuro» non significa necessariamente «giusto» o «migliore». Quello cioè tra tradizione e rivoluzione, tra conservatorismo e riformismo. Tra chi vuole rimanere fieramente americano e chi vuole assomigliare un po’ di più all’Europa e al resto del mondo. Tra chi segue in maniera quasi ottusa i dettami del proprio partito e chi ragiona talmente su tutto da mettere in discussione persino se stesso. Quello tra chi tiene dieci fucili mitragliatori in casa e chi riempie le piazze per una fratellanza più o meno chimera. Quello tra un muro e nessun confine, tra filo spinato e carovane, tra rimpatri e accoglienza. Quello tra gli ordini esecutivi firmati di fretta e l’impeachment finito in soffitta. Tra la rabbia e la calma, tra l’iniziativa feroce e la diplomazia calcolata, tra i pugni sbattuti sul tavolo e i discorsi di anche troppe parole. Quello tra repubblicani e democratici sempre più distanti”.
Trum e Marfé: illustrazione di Mario Improta

Insomma il popolo contro le élite. Benissimo. Ma questo popolo, non riesce mai a vedere che Trump non solo appartiene, ma alla fine fa anche gli interessi di certe élite? (Ad esempio all’industria petrolifera e in genere l’industria che vuole inquinare fregandosene delle conseguenze sull’ambiente…).

«Un presidente è élite per definizione. Immagino lo capiscano anche i suoi elettori, che di Trump conoscono il passato di imprenditore e showman televisivo, di certo non quello di operaio o di contadino. Gli va riconosciuto, però, ed è questo che la sua metà di America gli riconosce, di aver prestato orecchio e attenzione alle necessità degli ultimi. O forse sarebbe il caso di scrivere dei “penultimi”, volendo tornare al discorso delle minoranze e degli ultimissimi. Una delle mosse che è piaciuta di più? Il contrasto alle delocalizzazioni che talvolta è riuscito a imporre senza neanche dover firmare alcun ordine esecutivo, ma “soltanto” minacciando le multinazionali americane che si sono viste costrette a operare almeno qualche marcia indietro. Lasciando o addirittura riportando certe produzioni nel perimetro dei confini nazionali. Sono aspetti del genere che lo avvicinano alla gente, prevalendo sul suo passato e sul suo presente elitario».
Nel tuo saggio Trump viene promosso sempre, sia nella politica interna (da al popolo ciò che aveva promesso) che in quella estera (dici che meriterebbe il Nobel). Allora parliamo della pandemia Covid-19. La chiami il “cigno nero”. Potrebbe far saltare la rielezione di Trump? Siamo a oltre 100 mila morti, Qualcuno ha calcolato che se Trump non avesse tardato la reazione, se invece di gridare nei comizi “it’s a hoax” avesse subito creduto ai danni che avrebbe provocato, i morti sarebbe stati meno… Tu cosa rispondi a queste accuse? E soprattutto, pensi che il coronavirus sia un’arma in mano ai democratici di Biden che potrebbe distruggere Trump o anche qui, lui ha sempre ragione o comunque farà credere ai suoi elettori di averla?
«L’ho già bocciato su Italia ed Europa, lo boccio ancora sul coronavirus.
Troppi momenti di incertezza, troppe parole tirate a caso. Trump è passato, come quasi tutti i leader mondiali (penso nello specifico all’Italia della “Milano non si ferma” o delle campagne “Abbraccia un cinese”), dalla “banale influenza”, all’avere a sua detta “tutto sotto controllo”, al caos di centomila e più morti.
Proprio sulla gestione del coronavirus, potrebbe davvero cadere.
Biden e i democratici, più di quanto non sia credibile fare con la morte di Floyd, potrebbero davvero riuscire ad imputargli la responsabilità di queste morti.
Sono a loro volta poco credibili, considerato che anche quando il presidente si stava muovendo nella direzione giusta, ostentando la volontà di chiudere i voli da e per la Cina, non hanno saputo fare di meglio che dargli del razzista.
Insomma, la politica tutta avrebbe potuto dare migliore prova di sé.
Ma alla Casa Bianca c’è Trump ed è giusto che gli occhi, soprattutto quelli più critici, siano puntati su di lui».

Trump, che ha finora dominato i social, soprattutto Twitter, adesso gli ha dichiarato guerra. Secondo te ha fatto bene o sarà un boomerang? Insomma perché l’ha fatto se proprio con i social detta ogni giorno a tutti i media del mondo l’agenda su cui dibattere?

Uno dei recenti e infuocati messaggi su twitter di Trump

«La partita dei social è delicatissima, giocata sulla soglia della censura. È vero che al momento dell’iscrizione si accetta un regolamento, è vero pure che la piattaforma è privata, ma è altrettanto vero che non sia troppo bene chiaro chi possa e soprattutto chi debba erigersi a detentore della verità assoluta o peggio ancora a censore, appunto, della “contro verità” altrui.

L’unica cosa chiarissima è che Trump non fa nulla per abbassare i toni.

Nulla di nuovo sotto il sole d’America: una metà inorridisce, un’altra metà lo adora per il guanto di sfida gettato a viso aperto.

Non credo sia un episodio degno di essere classificato come un successo o come un boomerang. Credo, assai più banalmente, che consolidi la frattura tra le due metà.

Detto questo, il tycoon continuerà ad adorare Twitter e a “deliziarci” con i suoi già 15mila e più cinguettii dal giorno in cui ha giurato come presidente.

La Chiara Ferragni della politica americana».

Trump vs Journalists (Illustration by Antonella Martino)

E sul rapporto con i media. Sicuramente Trump non ha torto nel ricordare spesso quanto i cosiddetti media “main stream” (CNN, CNBC, NYT, WP… ma allora anche Fox, WSJ?) siano discreditati e abbiano perso credibilità nei confronti del grande pubblico americano. Però lo abbiamo visto veramente in difficoltà durante le conferenze stampa sulla pandemia, quando zittiva colleghi che gli facevano le domande difficili o che gli ricordavano che non rispondeva alle domande… Secondo te Trump, nel rapporto con i media, sta ancora vincendo oppure il covid-19 ha scoperto come lui sia il “commander in chief” del fake news?

«Era palesemente in difficoltà. Un uomo abituato ad affrontare e a risolvere, improvvisamente all’angolo senza saper troppo bene cosa fare. A sua difesa, si potrebbe rimarcare il concetto che nessuno al mondo abbia saputo cosa fare. Volendo invece vestire i panni della pubblica accusa, ma perché no, anche quelli del semplice buon senso nonché della buona educazione mediatico-istituzionale, ha sbagliato e basta. Ok provocare, ok scaldare la tua platea, ma a un giornalista, in conferenza stampa, non si risponde così. Si risponde, invece. Specie se di mestiere fai il presidente degli Stati Uniti d’America».

Trump and the Covid-19 pandemic in the USA in an illustration by Antonella Martino
Infine, ancora lo stesso ambasciatore Terzi, convinto forse dal tuo libro, sembra dare per super favorito Trump per le elezioni di novembre. Ma Terzi scriveva la postfazione al tuo libro prima della pandemia, dei 40 milioni di disoccupati e prima anche dei tumulti razziali. Luca, chi vincerà le elezioni di novembre?
«La famosa domanda da un milione di dollari.
A gennaio avrei risposto senza esitazioni. Oggi, invece, qualche dubbio ce l’ho.
Restano tutte le mie perplessità su un rivale come Joe Biden, oggettivamente impalpabile come testimoniato dalla necessità vitale di schierare Obama in prima fila e praticamente al suo posto, ma sono convinto che la partita si giocherà sull’economia.
È notizia di una manciata di ore fa il rimbalzo a sorpresa di ben due milioni e mezzo di posti di lavoro aggiunti nel solo mese di maggio.
Se la tendenza nei mesi a venire si confermerà quella di una vera e propria resurrezione dei numeri, Trump si farà altri quattro anni alla Casa Bianca.
Se viceversa gli Stati Uniti arriveranno alla notte del 3 novembre con le ossa ancora rotte, il popolo, anche il “suo” stesso popolo, lo giudicherà colpevole per essere stato incapace di gestire le grandi crisi di un anno oggettivamente nefasto.
E per Trump sarà la fine».
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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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