
Luca Marfé, giornalista napoletano classe 1980, ha vissuto diversi anni prima in Sud America e poi negli Stati Uniti, dove è arrivato nel 2015, in tempo per la campagna presidenziale del 2016. Scrivendo per il quotidiano della sua città Il Mattino e per l’edizione italiana del magazine Vanity Fair, Marfé comprese prima di altri colleghi che Trump avrebbe vinto contro Hillary Clinton. Come? Girando per cittadine sperdute di quegli Stati dell’Unione lontani dai riflettori di New York, Los Angeles o Chicago. Poi ha continuato a viaggiare, anche in compagnia della firma di punta di Repubblica Federico Rampini (che ha scritto la prefazione al suo libro) per continuare a scovare e tenere il polso di quegli americani che col loro voto avevano spalancato le porte della Casa Bianca a Donald Trump.
Forte di questa esperienza, alla vigilia della elezione del 2020, Marfé ha scritto Yes, We Trump! Chi riuscirà a fermarlo?, (Paesi Edizioni, 2020) un libro che cerca non solo di spiegare ancora come Trump sia riuscito a conquistare l’America, ma soprattutto perché, secondo Marfé, continuerà a rimanere l’inquilino della Casa Bianca ancora per quattro anni, nonostante l’impeachment e tutto quello che i democratici si sarebbero “inventati” per fermare il tycoon.
Ma sarà ancora possibile una conferma di Donald Trump nonostante la pandemia di Covid-19 che ha provocato negli Stati Uniti più di 100 mila morti sconquassando l’economia? Nonostante le proteste e le violenze, scaturite dal movimento anti razzista in tutti gli USA scatenato dalla morte di George Floyd?
Ecco la nostra lunga intervista, in cui nelle domande citiamo interi passaggi del saggio di Marfé per seguire meglio il filo logico del libro che, lo diciamo subito per chiarezza, invece noi speriamo questa volta sia smentito da quegli stessi americani che comunque il giornalista “Made in Naples” dimostra di aver conosciuto bene.




Nel tuo saggio, Trump attrae il voto di “un’America per l’appunto maschilista, in parte vecchia, nell’interezza di una sua abbondante metà conservatrice”. E che è la democrazia baby, se la gente vuole “un presidente lontano dall’essere illuminato, impeccabile, sofisticato, perfetto e saggio. E però vicino, anzi vicinissimo, all’americano medio che per riconoscerlo come leader non ha bisogno di muovere alcuno sforzo. Trump è l’espressione naturale di quegli Stati Uniti che conosciamo poco. E che poco o nulla hanno a che vedere con le grandi città come New York o Los Angeles, con il mondialismo sfrenato di chi vorrebbe mescolare tutto e tutti, e con il riformismo irrefrenabile di chi punta ad annientare cultura, radici e tradizioni fino all’iconoclastia del buttare giù i monumenti…”. Ma secondo te, Trump recita nell’essere “espressione naturale” degli USA che non conosciamo? Oppure è proprio come loro, anche se lui è di New York?
«Caratterialmente, assomiglia molto al suo elettore tipo. È come fosse esasperato per sua natura, esausto di certe maniere accomodate e accomodanti, ma terribilmente vuote, praticamente finte. Un uomo di polso, abituato a fare, anche a strafare come del resto è evidente in tanti dei suoi scivoloni. Ma pragmatico come l’americano che nell’immaginario collettivo si tira su le maniche e si mette al lavoro.


«Confesso il mio amore, oramai dichiarato pubblicamente.


Dopo aver parlato degli incontri di Trump con il dittatore della Corea del Nord, scrivi: “Il tycoon veste così i panni di un uomo saggio e ragionevole, le cui aspirazioni Nobel, a fronte di ciò che mai era accaduto negli ultimi settant’anni iniziano francamente a essere più che fondate, persino legittime”. Luca, ripeto la domanda: Trump si merita il Nobel per la pace?
«Oggi non ve ne sarebbe alcuna ragione. “Ieri”, per l’apertura storica e addirittura clamorosa sul fronte Pyongyang, lo avrebbe meritato di certo più rispetto a quello poggiato sul nulla e letteralmente regalato sulla fiducia a un certo Barack Obama. Un Obama rivelatosi, nel tempo e nel concreto, molto più guerrafondaio di Trump».




“«Adesso sono cazzi vostri!», l’incipit di questo libro, torna così quale sintesi perfetta del principio e dell’epilogo di uno scontro. Quello tra repubblicani e democratici, quello tra politica e giustizia, quello tra quattro anni di promesse mantenute e quattro di accuse infondate. Quello tra due Americhe che si disconoscono a vicenda e che, invece di parlarsi, si allontanano, costruendo e demolendo un Paese a fasi alterne. È lo scontro tra il metalmeccanico del Michigan e il miliardario di New York, tra il minatore dell’Ohio e il genio della Silicon Valley, tra lo sceriffo del Texas e l’immigrato messicano, tra il commerciante di Phoenix e il visionario dell’Oregon, tra l’operaio dell’Iowa e il divo di Hollywood. Ed è uno scontro tra passato e futuro, là dove «passato» non significa necessariamente «sbagliato» o «peggiore» e «futuro» non significa necessariamente «giusto» o «migliore». Quello cioè tra tradizione e rivoluzione, tra conservatorismo e riformismo. Tra chi vuole rimanere fieramente americano e chi vuole assomigliare un po’ di più all’Europa e al resto del mondo. Tra chi segue in maniera quasi ottusa i dettami del proprio partito e chi ragiona talmente su tutto da mettere in discussione persino se stesso. Quello tra chi tiene dieci fucili mitragliatori in casa e chi riempie le piazze per una fratellanza più o meno chimera. Quello tra un muro e nessun confine, tra filo spinato e carovane, tra rimpatri e accoglienza. Quello tra gli ordini esecutivi firmati di fretta e l’impeachment finito in soffitta. Tra la rabbia e la calma, tra l’iniziativa feroce e la diplomazia calcolata, tra i pugni sbattuti sul tavolo e i discorsi di anche troppe parole. Quello tra repubblicani e democratici sempre più distanti”.

Insomma il popolo contro le élite. Benissimo. Ma questo popolo, non riesce mai a vedere che Trump non solo appartiene, ma alla fine fa anche gli interessi di certe élite? (Ad esempio all’industria petrolifera e in genere l’industria che vuole inquinare fregandosene delle conseguenze sull’ambiente…).
Trump, che ha finora dominato i social, soprattutto Twitter, adesso gli ha dichiarato guerra. Secondo te ha fatto bene o sarà un boomerang? Insomma perché l’ha fatto se proprio con i social detta ogni giorno a tutti i media del mondo l’agenda su cui dibattere?

«La partita dei social è delicatissima, giocata sulla soglia della censura. È vero che al momento dell’iscrizione si accetta un regolamento, è vero pure che la piattaforma è privata, ma è altrettanto vero che non sia troppo bene chiaro chi possa e soprattutto chi debba erigersi a detentore della verità assoluta o peggio ancora a censore, appunto, della “contro verità” altrui.
L’unica cosa chiarissima è che Trump non fa nulla per abbassare i toni.
Nulla di nuovo sotto il sole d’America: una metà inorridisce, un’altra metà lo adora per il guanto di sfida gettato a viso aperto.
Non credo sia un episodio degno di essere classificato come un successo o come un boomerang. Credo, assai più banalmente, che consolidi la frattura tra le due metà.
Detto questo, il tycoon continuerà ad adorare Twitter e a “deliziarci” con i suoi già 15mila e più cinguettii dal giorno in cui ha giurato come presidente.
La Chiara Ferragni della politica americana».

E sul rapporto con i media. Sicuramente Trump non ha torto nel ricordare spesso quanto i cosiddetti media “main stream” (CNN, CNBC, NYT, WP… ma allora anche Fox, WSJ?) siano discreditati e abbiano perso credibilità nei confronti del grande pubblico americano. Però lo abbiamo visto veramente in difficoltà durante le conferenze stampa sulla pandemia, quando zittiva colleghi che gli facevano le domande difficili o che gli ricordavano che non rispondeva alle domande… Secondo te Trump, nel rapporto con i media, sta ancora vincendo oppure il covid-19 ha scoperto come lui sia il “commander in chief” del fake news?
«Era palesemente in difficoltà. Un uomo abituato ad affrontare e a risolvere, improvvisamente all’angolo senza saper troppo bene cosa fare. A sua difesa, si potrebbe rimarcare il concetto che nessuno al mondo abbia saputo cosa fare. Volendo invece vestire i panni della pubblica accusa, ma perché no, anche quelli del semplice buon senso nonché della buona educazione mediatico-istituzionale, ha sbagliato e basta. Ok provocare, ok scaldare la tua platea, ma a un giornalista, in conferenza stampa, non si risponde così. Si risponde, invece. Specie se di mestiere fai il presidente degli Stati Uniti d’America».
