“La notte della Sinistra” è un grido di dolore e di rabbia. Federico Rampini descrive così la sua ultima fatica letteraria, che molto ha a che fare con il mondo in cui viviamo, con un panorama politico di ancora difficile interpretazione, con il suo stesso passato “militante” di membro del Partito Comunista Italiano ai tempi di Berlinguer e con i suoi inizi giornalistici, nel 1977, a Città futura, settimanale della Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI). L’iconico inviato di Repubblica ricorda con orgoglio, nel Paese dove un antico viaggio di Bernie Sanders in URSS fa scandalo, di aver fatto parte di diverse delegazioni al di là della cortina di ferro in tempi in cui la sinistra, in Italia, era ancora capace di raccogliere consensi.
Bei tempi andati, sembra leggersi tra le righe della conversazione, tenutasi al Rizzoli Bookstore di Manhattan, a due passi dal caratteristico Flatiron. Una conversazione – ritmata dagli interventi di Michael Frank, scrittore americano e acuto osservatore dell’Italia, e Carlo Invernizzi, scienziato politico – venata di nostalgia, ma non di senso di resa. Perché ciò che ne emerge è, in qualche modo, una severa critica a una sinistra ancora oggi incapace di autocritica, una sinistra che ha smarrito le proprie radici, la propria identità, e che nel tempo si è trasfigurata in qualcosa di totalmente diverso. Rampini rifiuta l’attuale narrazione auto-assolutoria di quella parte politica, venata di superiorità morale, che vuole farci credere che, una mattina, l’Italia – e il mondo – si siano risvegliati “fascisti” (attributo, per l’autore, ormai usato a sproposito). Il punto, a suo avviso, è un altro: la sinistra ha perso il suo carisma, i suoi principi, la sua base, nel difendere un “globalismo” senza bussola il cui prezzo è stato pagato dalla classe medio-bassa, lavoratrice, da chi vive in periferia e non nelle “torri d’avorio”. Coloro che, per intenderci, oggi da noi votano Lega, in Francia il Front National, negli Stati Uniti Donald Trump.
Come siamo passati da Karl Marx ai “radical chic”, dai lavoratori a George Clooney e Asia Argento?, viene da chiedersi seguendo il filo del discorso. La “perdita d’aureola” della sinistra, per il giornalista, è avvenuta in tre fasi, quando, negli anni Sessanta, si è intrisa di narcisismo e moralismo; quando, negli anni Ottanta, si è votata al liberismo e all’austerità, e quando, negli anni Novanta, è divenuta la paladina del globalismo e del multiculturalismo. Rampini non fa sconti sul “tema dei temi” delle ultime campagne elettorali, quello che, di primo acchito, sembra marcare la più grande differenza tra destra e sinistra: l’immigrazione. I confini aperti, afferma, non sono “di sinistra”. Semmai, appartengono per un verso alla tradizione del cristianesimo (solidarietà con gli ultimi), e per un altro a quella del liberalismo (libertà di movimento): ma dal punto di vista economico, le ondate migratorie, con l’abbassamento dei salari e l’innalzamento dei profitti, costituiscono un autentico volano per il capitalismo.
Ieri lo diceva Marx, oggi lo fa intendere la Lega – seppur a colpi di slogan e propaganda –: e la sinistra dov’è? Non è un caso che in America, afferma Rampini, il “socialista” Bernie Sanders sull’immigrazione non sposi la filosofia dei “confini aperti” (ma, aggiungiamo noi per completezza, vuole anche immaginare un percorso per regolarizzare gli immigrati privi di documenti e intende ristrutturare completamente l’agenzia dell’ICE che si occupa della sicurezza delle frontiere, contro la cui creazione votò il senatore del Vermont). Il giornalista di Repubblica ricorda anche che, ai tempi di Roosevelt e Kennedy e della formazione del primo modello di welfare state americano – tempi in cui, per intenderci, l’aliquota contributiva marginale era al 70% (quello che oggi propone di fare la giovane “paladina” della sinistra Alexandria Ocasio-Cortez) – l’approccio sull’immigrazione era restrittivo.
Quanto all’Europa, la firma di Repubblica afferma di crederci, e fortemente, ma non in “questa” Europa: quella dell’austerity, dei vantaggi fiscali ai grandi colossi, l’Europa di Juncker che, prima di diventare presidente della Commissione Europea, fu primo ministro di un autentico paradiso fiscale nel cuore del Continente. Certo: difficile ragionare all’infuori di essa in un mondo sempre più globale. E parlando dello stesso Trump, Rampini gli riconosce di aver individuato nella “guerra commerciale” con la Cina una guerra che c’è, e va legittimamente combattuta, pur con armi diverse rispetto a quelle sfoderate dal Commander-in-Chief.
Altro luogo comune della sinistra “sfatato” nel corso del dibattito, la “politica della paura” attribuita alla destra. La questione, per Rampini, è un po’ diversa: le persone ordinarie hanno, legittimamente, delle paure, che non vanno demonizzate. E la stessa paura sarebbe, per l’autore, un sentimento “originariamente” di sinistra. Il punto – è emerso – è che mentre la destra ha fatto propri i timori della gente, del popolo, la sinistra si è fatta portavoce di quelli dell'”establishment”: come il timore dello spread o dei giudizi delle agenzie di rating sul debito nazionale.
Tra le contraddizioni più amare evidenziate dal fruttuoso dibattito resta dunque la descritta sostanziale incompatibilità tra un approccio economico redistributivo “di sinistra” e una società più aperta e multiculturale, che è un po’, secondo l’autore, l'”elefante nella stanza” che la sinistra di oggi si rifiuta di guardare. Un’impasse, quest’ultima, di difficile superamento, e che, ad avviso di chi scrive, il dibattito di mercoledì sera non è riuscito del tutto a sviscerare. Carlo Invernizzi è tornato più volte su questo punto, evidenziando la pressante necessità di trovare, cioè, un’intersezione tra i due poli, tra un’economia attenta agli ultimi e ai penultimi insieme e una società che ha bisogno degli immigrati perché invecchia e si contrae senza sosta. Perché, ha ripetuto più volte lo scienziato politico, se questa contraddizione tra redistribuzione e diversità culturale esiste davvero, allora questo è un grande problema.
Ad avviso di chi scrive, la conversazione di mercoledì ha avuto il grande merito di portare a galla contraddizioni rimaste, a sinistra, troppo a lungo innominate e irrisolte. D’altro canto, ha forse mancato di proporre soluzioni che guardino al futuro più che al passato. Perché se è vero che l’immigrazione non è “etimologicamente” di sinistra, è anche vero che la sinistra di oggi, nell’assumersi la responsabilità di tornare se stessa, deve farlo pur sempre calata in un mondo globale. Un mondo, per intenderci, in cui i movimenti di popolazione, che ci toccano (peraltro anche per nostra responsabilità storica) al momento in minima parte, hanno assunto globalmente dimensioni fino a poco tempo fa impensabili, ed è impossibile bloccarli senza un totale ripensamento delle nostre politiche nazionali e internazionali.
Un mondo in cui, oggi, la destra ha strumentalizzato il tema sfruttando sì la disattenzione e l’inadeguatezza degli avversari, ma anche riducendo tutto il dibattito pubblico e politico a un argomento che tanto facilmente arricchisce i portafogli elettorali. Ammetterlo e denunciarlo non significa negare le responsabilità di una parte politica che ha certamente smarrito il contatto con la base, né liquidare le istanze di chi si sente vittima di questa globalizzazione, o di chi subisce il degrado delle periferie. Significa, piuttosto, tenere insieme tutti gli aspetti di un problema complesso, e iniziare ad affrontare la questione delle questioni – le storture di una globalizzazione e di un capitalismo sfrenati – non guardandone solo la punta dell’iceberg, ma tenendo fissa una visione d’insieme.
Così, quando Rampini critica duramente quella che per lui rappresenta una confusione nell’approccio sull’immigrazione della sinistra – che a suo avviso oscilla tra la posizione secondo cui limitarla sarebbe moralmente inaccettabile (posizione in realtà poco popolare perlomeno tra chi fa politica), e quella per cui controllarla è impossibile –; quando contesta una sinistra che ha abdicato ai “penultimi” per votarsi agli “ultimi”, viene da chiedersi se non stia rischiando di cadere nel “tranello” della retorica della destra di oggi. Ferma restando, cioè, l’assoluta necessità che la sinistra torni nelle periferie, tra gli sconfitti del progresso, tra i lavoratori e tra chi il lavoro nemmeno ce l’ha; che rinunci alle retoriche auto-assolutorie e ai facili “scaricabarili”; che riconosca ai “populisti” l’abilità nell’aver riconosciuto disagi che lei aveva totalmente ignorato; che abbia il coraggio di mettere in discussione un sistema economico che allarga irrimediabilmente le diseguaglianze; fermo restando tutto ciò: è davvero necessario compiere una scelta di campo tra gli “uni” e “altri”? L’equità sociale ed economica è davvero perseguibile soltanto sbarrando la porta a chi è fuori? Si può ammettere una differenza tra un’utopica politica dei “confini aperti” – impopolare, peraltro, anche nel centrosinistra –, e una politica consapevole dei processi storici globali, e responsabile nel cercare risposte il più possibile inclusive, il più possibile per tutti?