In questi giorni frenetici, con un programma del Festival di Cannes al solito ricco e abbondante al punto da creare irrisolvibili sovrapposizioni, sono passati dal festival francese tre dei film più attesi del concorso principale. Li abbiamo visti per voi, in attesa di capire con più chiarezza chi siano i favoriti per aggiudicarsi la Palma d’oro.
“Once Upon a Time in… Hollywood” di Quentin Tarantino
“Once Upon a Time in… Hollywood” è stato indubbiamente l’evento del festival di Cannes: prima con l’arrivo del cast, poi il red carpet con i fan in delirio, le ore di coda alle proiezioni stampa, la psicosi collettiva del “non si riuscirà a entrare”. Dopo il film sono arrivate le parole, con toni decisamente contrastanti: delusione o capolavoro, opera autoreferenziale avvitata su se stessa o sentito omaggio al cinema. Per trovare un film di Tarantino così spiazzante e divisivo bisogna tornare indietro al 1997, a “Jackie Brown”, che appena uscito disorientò parecchio chi si attendeva un’opera esplosiva nel solco di “Pulp Fiction”. Come Jackie Brown, “Once upon a Time in… Hollywood” è un film con un passo consapevolmente lento, dal ritmo particolarmente libero ma con ancora meno “trama” del suo predecessore. A monte, però, va chiarito un equivoco: il brand “Quentin Tarantino” ha ancora cuciti addosso una serie di stereotipi un po’ fuorvianti, anche fra i suoi moltissimi e agguerriti fan, che vedono nel regista un narratore ghignante, un autore irriverente e postmoderno, il genio ipercitazionista con un immaginario che si articola solo in termini di “cinema puro”. In realtà Tarantino, a partire quantomeno da “Bastardi senza gloria”, è però ben altra cosa, un artista maturo, molto libero sul piano formale e narrativo e molto più attento e consapevole su quello teorico di quanto si voglia credere. In questo senso, “Once upon a Time in… Hollywood” è perfettamente coerente con questa “età adulta” del suo cinema e con tale lente andrebbe osservato, senza scambiarlo per un puro divertissment, venato di malinconia e nostalgia.
Il film è compresso in soli tre giorni, 8 e 9 Febbraio 1969 e poi si salta all’8 agosto dello stesso anno e segue principalmente tre personaggi lungo situazioni tra loro decisamente slegate, spesso dilatate apparentemente oltremisura. Il primo antieroe è Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), attore di film di genere (soprattutto western) e serie tv, al crepuscolo della sua carriera e dell’autostima e prossimo all’alcolismo, al quale il suo manager Marvin Schwarz (Al Pacino) propone, prima del ritiro, di girare un ultimo tv movie intitolato “Lancer” e poi qualche spaghetti western in Italia. C’è poi Cliff Booth (Brad Pitt), suo unico amico, sua controfigura e anche suo assistente, autista e tuttofare, uomo duro e imperturbabile che (forse) cela un terribile segreto nel suo passato, vive in una roulotte con il suo cane e che ogni tanto si trova a consolare Rick quando questo scoppia a piangere pensando alla sua carriera. Accanto alla villa di Rick, sulla famigerata Cielo Drive, abita il terzo personaggio centrale del film, che è, a differenza dei primi due, un personaggio realmente esistito: Sharon Tate (splendida Margot Robbie), che si è da poco trasferita lì con il regista più cool della New Hollywood, Roman Polanski.
Due personaggi finzionali e uno realmente esistito, quindi, a conferma di come – nel Tarantino post 2008 – ciò che sta al centro della poetica e attorno al quale ruota tutto il resto è la dissoluzione di qualsiasi distinzione tra reale e immaginario cinematografico (e anche televisivo, in questo caso), due polarità che si fondono fino a diventare indistinguibili e a rendere indecifrabile la loro relazione di causa-effetto. Tarantino, insomma, non perde occasione per ribadire che siamo parte di una società in cui non è più individuabile il confine tra la verità e la finzione che sopra vi si è depositata e che anzi, a volte è addirittura il racconto – per lui soprattutto cinematografico – che ha il potere di trasformare e generare il reale e non viceversa. È così e basta. Nel cinema di Tarantino questo elemento è ribadito senza appenderci un giudizio, positivo o negativo che sia. Tuttalpiù, come nel finale di Bastardi senza gloria, il cinema, rimettendo in scena “un’altra Storia”, ha una funzione ucronica.
In “Once Upon a Time in… Hollywood” inoltre, a fare da collante tra questi personaggi e le differenti situazioni raccontate è proprio il luogo in cui questa inversione tra reale e immaginario diventa tangibile, la città di Los Angeles, una metropoli che esiste proprio perché in qualche modo viene ricreata continuamente dal cinema e che Tarantino, infatti, ricostruisce – al cinema – in modo perfetto in tutta la sua “popness”, tra colori accesi e feticci vintage, così da restituircene il “sapore”. Un sapore, come detto, agrodolce, perché il film coglie in maniera efficace anche il senso di trasformazione che porta con sé un anno chiave nella storia degli USA e anche del cinema americano come il 1969, in cui tutto sta cambiando e per sempre, in cui gli schermi televisivi – grandi assenti, fino a oggi, nella filmografia del regista – compaiono praticamente ovunque, in cui per le strade non ci sono più solo divi o gangster in completo nero ma anche hippie scalzi e in cui la New Hollywood dei Polanski sta emergendo per trasformare lo show business.
Nelle prime due ore del film respiriamo quest’aria, ci godiamo Los Angeles in questo momento storico fondamentale, siamo rapiti e incantati, eppure, a pensarci bene, non succede granché: Rick si sforza di girare una sequenza come cattivo nella serie West, avendo però bevuto troppi cocktail la sera prima; Cliff prende in braccio una seducente autostoppista adolescente (Margaret Qualley), per ritrovarsi nella comune di Charles Manson, un tempo set in cui lui e Rick avevano girato alcuni film; mentre Sharon, in una delle scene più belle del film, entra in un cinema che sta programmando il suo ultimo lavoro – “The Wrecking Crew”, con Dean Martin – e lo guarda.
Oltre a ciò, ci sono divertenti episodi con Steve McQueen (Damian Lewis) e Bruce Lee (Mike Moh) e una breve e casta festa alla Playboy Mansion. Nient’altro, per oltre due ore, eppure tutto tiene. Oltre alla scioltezza con cui vengono intrecciati i due piani e alla solita grande capacità di affabulare, il regista americano cementa la tensione con un meccanismo molto semplice: nel momento in cui è dato che uno dei personaggi è Sharon Tate, che sappiamo essere stata assassinata proprio nel 1969 e proprio dagli accoliti di Charles Manson, e nel momento in cui lo stesso Manson compare per una trentina di secondi nelle prime battute del film, si innesca un meccanismo che fa leva sulla nostra consapevolezza che, in un modo o nell’altro, Tarantino finirà per affrontare quell’orribile tragedia. Come la affronti, in questo finale di cui non si può parlare ma che tutti, a quanto pare, hanno capito, è da scoprire.
Diciamo solo che è un finale forse un tantino sopra le righe, che chiude però perfettamente il cerchio di un film complesso, importante e che varrà la pena rivedere e studiare a lungo.
“Matthias et Maxime” di Xavier Dolan
Quando si parla di Xavier Dolan, si fa fatica a tenere presente che in fin dei conti, anche se già all’ottavo film e con all’attivo partecipazioni e premi nei maggiori festival internazionali, si tratta di un regista di soli trent’anni. Un enfant prodige che ora sembra alle prese con il difficile compito di liberarsi di questa etichetta e di far entrare la sua carriera nella fase successiva. Questo nuovo Matthias et Maxime è, purtroppo, “solo” un buon film, che però, paradossalmente, riporta indietro di diversi anni il suo cinema, rimandando ancora l’auspicato passaggio alla maturità. L’impressione è che, dopo il fiasco inaspettato di “La mia vita” con John F. Donovan, il film americano di Dolan ancora non distribuito in buona parte del mondo, il regista québécois si sia rifugiato nel porto sicuro di ciò che è per lui già largamente consolidato. Torna quindi a esplorare il mondo dei suburbi di Montreal e torna a recitare, nei panni di Maxime, giovane in procinto di partire per l’Australia dalla famiglia piuttosto problematica e per questo motivo, sin da piccolo, praticamente adottato dalla famiglia di Matthias, suo coetaneo e fraterno amico. Un bacio che i due, alla soglia dei trent’anni, si danno nella una scena di un cortometraggio di un’amica cambia però qualcosa nel loro rapporto, insinuando, a pochi giorni dalla separazione, il dubbio che il sentimento che li lega sia qualcosa in più da una semplice amicizia.
Il film è solido e scorrevole nella rappresentazione dei dilemmi e degli interrogativi dei due protagonisti, ma segue in modo davvero troppo puntuale uno schema stilistico ed emotivo già noto ai fan del regista, sia sul piano visivo sia su quello “sonoro” (la musica pop sfrontatamente a sfidare il kitsch), e il deja vu che aleggia rende l’opera un po’ “sgonfia”. A questo si aggiunge il fatto che i personaggi di contorno, che pure hanno volti e storie interessanti, vengono talvolta risolti in tempi e modi superficiali o comunque già visti.
L’impressione è quella di un film interlocutorio, firmato da un regista che, proprio come i personaggi di cui racconta, arrivato ai trenta, deve decidere chi essere davvero e ha preferito rimandare questa scelta.
“Parasite” di Bong Joon-ho
In uno squallido appartamento seminterrato vive la famiglia Ki-taek, padre, madre e due figli. Mentre i due ragazzi vanno alla ricerca di una connessione wi-fi gratuita, inerpicandosi sui loro sudici mobili, la madre piega centinaia di scatole da pizza ammucchiate, il cui assemblaggio è l’unica fonte di reddito della famiglia. Inizia così “Parasite”, con un tono da commedia che ci introduce un nucleo familiare fottuto da un sistema che non ha alcuna pietà per coloro che si trovano ai gradini più bassi della scala sociale e che sono ridotti a “parassiti” che vivono in una scatola di cemento senza uscita, cercando di nutrirsi degli scarti dei “piani alti”. Il nuovo bellissimo (e arrabbiato) film del coreano Bong Joon-ho si mette in moto quando un amico del giovane Ki-jung si trasferisce negli Stati Uniti e gli chiede di sostituirlo come insegnante privato di inglese della figlia adolescente di un facoltoso uomo d’affari. Dopo aver falsificato i documenti che provano il suo curriculum di studi, il ragazzo si trova catapultato a casa dei Park, una spaziosa villa in granito da qualche parte sulle colline sopra la città. La famiglia ricca vive sopra le colline, insomma, e l’altra ben al di sotto di una zona di piena: se il precedente “Snowpiercer” (2013) rappresentava una gerarchia socioeconomica traumaticamente “sbalzata di lato”, “Parasite” impila nuovamente le classi in un mondo che va dalle fogne al cielo. Progressivamente, però, tutti e quattro i Ki-taek si staccano da quelle fogne, fingendosi ciò che non sono: al “finto” insegnante di inglese si aggiungono la sorella, che impersona un’insegnate di arte per il figlio minore dei Park, il padre, che si finge autista esperto, e infine la madre, come governante: una famiglia si sarà completamente agganciata a un’altra. Il problema è che chi viene dalle fogne se ne porta addosso l’odore e quello è impossibile da eliminare. Anche in questo caso, non sveliamo di più, se non che quella che era partita come una commedia diventa un moral-family-drama grottesco, sulfureo e tremendamente efficace.
Chi conosce il cinema di Bong sa che spesso i suoi film, in una sorta di struttura circolare, finiscono ripristinando lo status quo iniziale con un “buco” traumatico nel mezzo (e il riferimento è soprattutto a Song Kang-ho e al figlio adottivo sul ghiaccio in “The Host”). Anche in questo caso, “Parasite” il film più macabro fino ad oggi del regista coreano, chiude con un guizzo che sembra chiudere le porte a qualunque sogno di coesistenza, a qualunque forma di concordia ordinum, e sembra dirci che quanto più i suoi personaggi si avvicinano a fare di quel sogno ecumenico una realtà, tanto più devastante è il momento in cui si schiantano su se stessi.