Food writer in tempi non sospetti, giornalista giramondo con la passione per la cucina e la cultura gastronomica. Scrittrice brillante e attenta osservatrice dei fenomeni politico-sociali, Roberta Corradin, scrive per l’Espresso, il Gambero Rosso, D-La Repubblica delle donne, Il Fatto Quotidiano e oggi ha realizzato il suo sogno. Anzi due.
Vive in Sicilia, nel Ragusano, in quell’angolo meraviglioso che il mondo ha conosciuto grazie alla serie TV L’ispettore Montalbano, dove gestisce un ristorante insieme al marito.
Ha da poco pubblicato La Repubblica del maiale. Sessant’anni di storia d’Italia tra scandali e ossessioni culinarie (Chiarelettere), uno spaccato dell’Italia dalla Costituzione alla fine della Seconda Repubblica attraverso le abitudini degli italiani a tavola e i piatti che hanno rappresentato ogni decennio. Una storia che meglio di qualsiasi altra spiega, con un approccio antropologico, le manie culinarie degli italiani: dalla gelatina ai presidi Slow Food, passando per Masterchef e Eataly. Un racconto spassoso e acuto che conferma come la storia dell’Italia sia sempre stata legata al cibo. E non c’è neanche tanto bisogno di scomodare il Fuerbach di “noi siamo ciò che mangiamo”, basta ricordare il detto romanesco: “Franza o Spagna, purché se magna”.
Il tuo ultimo libro La Repubblica del maiale è una sorta di fotografia socio-culturale ma anche storica dell'Italia attraverso il cibo. Ma non eravamo la Repubblica delle banane?
Si diceva così, effettivamente. Ma nelle mie ricerche ho trovato che alcuni dei padri fondatori che hanno scritto la Costituzione della Repubblica si riunivano in un appartamento romano e si erano ribattezzati “comunità del porcellino”. Poi, quando il libro era già chiuso e in bozze, si è scoperto che il Porcellum non è solo “una porcata”, come l’ha definita il suo stesso promotore Calderoli, ma è persino anticostituzionale. Ora, siamo nati dalla Comunità del Porcellino, siamo naufragati nel Porcellum: non sono due prove storiche sufficienti a dimostrare che siamo la repubblica del maiale?
Tu sei stata una delle prime food writer prima che il food boom scoppiasse. In questo barnum di food blogger, critici enogastronomici improvvisati, foodie, gourmet e gourmand, c'è rimasto ancora qualcosa del vecchio critico enogastronomico?
“Vecchio critico” mi fa venire in mente personaggi come quello di Ratatouille o Monsieur Arthens (il critico gastronomico protagonista del romanzo Une gourmandise, in italiano il titolo è Estasi culinarie). I vecchi critici si son visti superare a destra da foodblogger e recensori vari internettiani. Quei due o tre rimasti sono un po’ come i vecchi del PD: non si sono accorti di come è cambiata la società e continuano a descriverla con canoni ormai desueti. Poi perdono voti. Idem per le guide dei ristoranti che non sanno rinnovarsi: vendono sempre di meno, ormai le salvano solo le aziende farmaceutiche che ne acquistano migliaia di copie da regalare ai venditori.
Il cibo è diventato per gli italiani un'ossessione ma anche un rifugio ideologico. Gli chef ormai sono dei guru oltre che delle icone di stile. Siamo davvero in crisi ideologica?
La sovraesposizione mediatica della cucina che viviamo oggi mi ricorda l’antica Roma del I sec d.C., quando i cuochi cominciavano a diventare celebrities e i romani impazzivano per la cucina trompe-l’oeil con finti pesci fatti di carne di selvaggina e viceversa (uno stile di cucina che è antenato remoto ma diretto della gastronomia molecolare nata per épater les bourgeois negli Annni Novanta). Nei libri di storia, il capitolo successivo alla decadenza dell’impero romano comincia con la calata dei barbari. Ho scritto La repubblica del maiale proprio per dire: “ragazzi, riflettiamo, siamo ancora in tempo”. Ma il nuovo Medioevo avanza.
Sembra che gli italiani, come tu stessa dici, preferiscano rifugiarsi in cucina piuttosto che risolvere i problemi, sbattere un uovo piuttosto che protestare. Forse è più facile parlare di cibo che di altro?
Storicamente, siamo un popolo asservito. C’è un detto romanesco, “Franza o Spagna, purché se magna”. A chi ci governa chiediamo: toglieteci tutto, ma non le brioches. I politici di oggi hanno imparato la lezione: ci lasciano le brioches e una parvenza di libertà. Dopo tre governi diversi senza andare alle urne, viene anche da chiedersi se siamo ancora una repubblica democratica. Capisci perché preferiamo parlare di cibo? Se no, ci mettiamo a piangere. La cucina è l’unica cosa buona che ci resta del nostro paese.
Massimo Bottura si è opposto a Masterchef perché piuttosto che cultura del cibo, in quel programma la cultura enogastronomica si riduce ad un tagliuzzare verdure in due minuti. Una moda tutta americana di cui forse l'Italia non avrebbe bisogno?
Non ho la TV ma quel che ho visto di Masterchef mi è sembrato demenziale, soprattutto il ritmo delle inquadrature che tende a creare suspence e drama. È la spettacolarizzazione della cucina. Se poi dei ragazzi decideranno di fare gli chef dopo che hanno visto Masterchef, si troveranno come gli albanesi che negli Anni Novanta emigravano in Italia perché vedevano alla tivù Raffaella Carrà che regalava premi milionari. Una volta entrati nel nostro paese, si sono resi amaramente conto che non era assolutamente oro quel che luccicava. Cucinare in un ristorante (e lo dico con cognizione di causa, visto che ho un ristorante) è una fatica quotidiana immane. E i riflettori sono solo per alcuni, i più bravi o i più mediatici.
Ogni decennio, come scrivi nel tuo libro, è accompagnato da una pietanza simbolo. Oggi si ritorna alla cucina della nonna, quella dei farmers market e del chilometro zero. Esigenze trend chic o crisi economica?
Beh, è come nel gioco dell’oca: a furia di trend, si fa il giro completo e si torna all’inizio. Ma qui, più che di trend, si tratta di noia. E poi certo, anche di scarsità di cash che ci riconduce a più morigerate ricette.
Una vita da nomade, la tua, tra Parigi, New York e un sogno nel cassetto: aprire un ristorante a Samoa. Poi, la vita ti ha portato in Sicilia, che per un'appassionata di cucina, è una meta obbligatoria. Come sei arrivata lì?

Roberta con il marito con cui gestisce il ristorante Consiglio di Sicilia di Donnalicata
Nel 2008 ho visto la crisi toccare gli Stati Uniti, ho pensato che l’Europa di riflesso si sarebbe inginocchiata, e che i primi lavori a scomparire sarebbero stati quelli inutili, come il mio. Ho immaginato che non avrei più potuto viaggiare come prima, e mi sono premunita in tempo scegliendomi un angolo discreto in una terra che amo, la Sicilia sudorientale, dove la qualità quotidiana della vita (che si misura in verdure, olio, pane, quello che mangi tutti i giorni) è e resta molto alta. Poi sono entrata al Consiglio di Sicilia, il ristorante di mio marito, che si trova sul mare, a Donnalucata, per recensirlo. Lui mi era antipatico ma il rapporto qualità prezzo era ottimo. Un anno dopo ci siamo sposati. Sognavo di aprire un ristorante, me lo sono ritrovata già aperto.
Volevi diventare una chef e in qualche modo il tuo sogno si è realizzato anche se preferisci lavorare in sala. Perché hai preferito la scrittura, il rapporto con i clienti in sala e non la vita da chef?
Volevo fare la cuoca. I riflettori non mi hanno mai interessata. La sala, invece, mi ha folgorata: ho cominciato per caso una sera di agosto che bisognava sostituire una persona malata, e ho avuto la conferma di quel che già sentivo da cliente: la sala è puro teatro. Capisco perché tanti attori a Hollywood fanno i camerieri: non è solo questione di mantenersi durante la gavetta, è che la sala di un ristorante è un luogo pirandelliano, il cameriere deve avere sensibilità ed essere come tu lo vuoi. Di volta in volta informato, discreto, invisibile, allegro.
Binomio insostituibile quello tra cucina e scrittura. Oggi più che mai, scrittori che diventano chef e viceversa.
Più facile la seconda. Specie se lo chef va in TV, dopo può pubblicare quasi qualunque cosa. Ti immagini una storia hard firmata da Carlo Cracco? Il tripudio della patata. Un bestseller annunciato (c’è un gioco di parole sul fatto che lo chef Carlo Cracco fa il testimonial per le patatine San Carlo n.d.a.).
Gli anni Cinquanta sono quelli dell’ossessione culinaria, quando l’Italia affamata del secondo dopoguerra diventa protagonista del boom economico, gli anni Sessanta, come scrivi nel tuo libro, sono quelli della guerra fredda e quindi dell’insalata russa, dei panini imbottiti in stile americano. Fino ad arrivare agli anni Novanta, gli anni di Tangentopoli, della torta salata e dell’aceto balsamico. Ma oggi, quale piatto rappresenta l'Italia di Renzi?
Temo che sia la ribollita. Solo che quella, più volte la fai ribollire più è buona, invece l’Italia di Renzi è sempre la stessa pappa riscaldata e comincia a sapere di stantio. Del resto anche la ribollita a furia di riscaldarla, dopo un po’ va a male. Prima o poi troveremo il frigo vuoto e saremo costretti a imparare una ricetta nuova. In cucina, come in politica.
Tu come ti definiresti. Gastrossessionata, foodie, gourmet, gourmand, gastrofighetta, hipster foodie…?
Mah, io sarei per non definirmi. Basta con le tassonomie, che tra l’altro vanno strette alla vita vera. Pensa che l’editore era preoccupatissimo che i librai mettessero La repubblica del maiale solo nei reparti di cucina, mentre è un libro che tocca attualità, società, costume, politica, cucina. Comunque, se proprio insisti, a questo punto della vita sarei una gastro-annoiata, non ne posso più delle mode gastronomiche, aridatece un buon pomodoro, dell’olio extra-vergine di tonda iblea e un pezzo di pane fatto con grano non nanizzato. Gastrofighetta però mi piacerebbe, ma non ho più l’età.
Chi è l'Italiano medio culinario che esce fuori dal tuo ritratto?
Ahimè, uno che se le beve proprio tutte, capace di mandar giù qualunque boccone amaro pur di vivere tranquillo. Siamo cresciuti a stragi di stato e nutella, dopo gli anni di piombo ci siamo crogiolati nel gusto pannoso degli anni Ottanta, abbiamo condito la disgregazione della prima repubblica con l’aceto balsamico, abbiamo osannato i presìdi Slow Food, e ora celebriamo riti gastronomici nei templi di Eataly. Ripeto: “Franza o Spagna, pur che se magna”. Sigh.
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