Contro ogni aspettativa, il candidato democratico Doug Jones ha prevalso su quello repubblicano Roy Moore alle elezioni per il seggio senatoriale lasciato vacante da Jeff Sessions in Alabama, dopo la nomina di quest’ultimo alla carica di Attorney General. La candidatura di Moore si era imposta alle primarie grazie alla spinta di Steve Bannon, che aveva concepito questa mossa come prova di forza per influenzare le scelte dei candidati del “Grand Old Party” (GOP) contro le direttive del partito. Il fine dichiarato era quello di imporre politici conservatori anti-sistema come candidati repubblicani alle elezioni di medio termine del prossimo anno. Quello che avrebbe dovuto essere il grimaldello di Bannon per scardinare la presa dell’establishment del GOP sulla scelta dei candidati si è rivelato il maggiore disastro politico repubblicano degli ultimi anni. Un fiasco che ha indebolito lo stesso presidente.
‘Trump aveva infatti dato il suo sostegno al candidato repubblicano con un pieno e convinto endorsement, nonostante si trattasse di una figura discutibile e secondo molti impresentabile. Ultra-reazionario, razzista, omofobo e sessista, accusato di molestie sessuali esercitate su alcune adolescenti, tra le quali anche una quattordicenne, quando aveva trent’anni, Moore è un personaggio controverso e criticato dai suoi stessi compagni di partito. Aveva conquistato la candidatura alle primarie contro i candidati sostenuti dal partito repubblicano. Il capo della campagna di Moore, a venti minuti dai primi exit polls, quando era ancora certo di avere vinto, rivendicava con arroganza il previsto successo non come una vittoria sui democratici, ma come una lezione data dal popolo dell’Alabama all’establishment del partito repubblicano. Per questo molti repubblicani moderati esultano per la sua sconfitta. Ex-presidente della corte suprema dell’Alabama, il suo profilo è diametralmente opposto a quello del vincitore democratico.
Doug Jones, infatti, è stato il pubblico ministero del processo che portò alla condanna degli ultimi due membri della cellula del Ku Klux Klan che si macchiò della strage della Chiesa Battista della Sedicesima Strada a Birmingham avvenuta nel 1963, nella quale l’esplosione di una bomba uccise quattro bambine afro-americane dagli 11 ai 14 anni ferendone altre 22. Nel suo discorso della vittoria, Jones ha ricordato la storia delle battaglie per i diritti civili in Alabama, affermando che lo Stato “si è trovato già a un bivio in passato, ma questa volta ha scelto la strada giusta”. Moore ha rifiutato di concedere la vittoria a Jones, ma il margine tra i due supera l’1% e quindi un nuovo scrutinio dei voti non sarà automatico. C’è stata una dispersione dell’1,7% dei voti su candidati minori, sui quali si è presumibilmente orientato il voto moderato della base repubblicana dello Stato.
Era dal 1997 che l’Alabama non eleggeva un senatore democratico. Questa debacle dei repubblicani e soprattutto di Trump limerà in maniera decisiva il margine a favore del GOP al Senato. Entro poche settimane e al più tardi a gennaio Jones si insedierà al Senato, riducendo la maggioranza repubblicana a 51-49. Basterà che uno solo dei senatori repubblicani voti in disaccordo con la linea del partito per creare una situazione di stallo. L’effetto immediato sarà che le leggi in discussione verranno con tutta probabilità smussate al fine di convincere i repubblicani moderati al Senato.
Questa tendenza si può già percepire nel dibattito sulla riforma delle tasse, formulata in termini estremamente favorevoli per i super ricchi e le grandi corporations. Ciò spiega anche l’indebolimento del dollaro all’annuncio dei risultati delle elezioni in Alabama. Non è un caso che il giorno successivo alle elezioni Trump abbia fatto una conferenza stampa con i negoziatori repubblicani al Senato sul tax deal per annunciare che sarebbero molto vicini all’accordo. Sebbene Trump abbia detto che vorrebbe il voto la prossima settimana, prima di Natale, non perché il Partito Democratico ha perso un seggio ma perché la riforma fiscale è vitale per l’economia americana, in realtà egli vuole accelerare il percorso di questa legge per evitare i problemi che incontrerebbe in Senato a gennaio, dopo l’insediamento di Jones. Con le elezioni di medio termine sullo sfondo, Trump ha aggiunto che la sua azione di governo risulterebbe avvantaggiata l’anno prossimo da un Senato con più repubblicani. In effetti il voto in Alabama ha indebolito Trump al Senato nei confronti non dei democratici ma del suo stesso partito. Ora il GOP può imporre i cambiamenti che vuole alla bozza di riforma. Non è un caso che almeno due senatori repubblicani abbiano già affermato che la nuova versione del testo di riforma non avrebbe risolto i loro dubbi, anche se non hanno detto se voterebbero contro.
Il risultato dell’Alabama influenzerà le elezioni di medio termine in molti modi, galvanizzando i democratici e minando le certezze dei repubblicani, con conseguenze su molti fronti: fund raising; selezione dei candidati; temi e toni delle campagne elettorali (Jones ha parlato di questioni concrete e rilevanti per l’Alabama, Moore è costantemente andato sopra le righe); importanza del lavoro di base dei militanti; rilevanza dell’opinione femminile in politica in una società nella quale le donne reclamano potere, responsabilità e diritti.
Quali lezioni si possono trarre dal “caso Alabama”, non solo rispetto agli USA ma anche nella prospettiva delle prossime elezioni in Italia?

In primo luogo, la vittoria di Jones sottolinea l’importanza di presentare sempre buoni candidati, anche quando l’esito del confronto sembra scontato. Per i repubblicani la sconfitta di Moore dimostra che presentare candidati controversi e divisivi non paga elettoralmente. Un’opinionista repubblicana moderata, che festeggiava la sconfitta del candidato appoggiato da Trump, ha detto in una tavola rotonda post-elettorale della CNN che in condizioni normali, anche se avessero presentato alle elezioni una pianta grassa, in uno stato cone l’Alabama i repubblicani avrebbero dovuto vincere a mani basse. L’esito delle elezioni in Alabama si spiega in ragione della combinazione delle scelte sciagurate dei repubblicani e della visione strategica dei democratici. Il meccanismo delle primarie ha ribaltato le scelte dell’apparato del partito repubblicano e ha consentito a Bannon di portare alle elezioni un candidato impresentabile sulla base di un’agenda politica confusa e reazionaria. Nessuno dei leader repubblicani locali ha sostenuto Moore, ma questo non basta a spiegarne la sconfitta. Siccome la sua scelta come candidato rifletteva l’approccio vincente alle presidenziali del 2016 – alle primarie prima e alle elezioni poi – lo smacco subito da Bannon e Trump indica che l’ondata populista anti-sistema sta segnando il passo nel panorama politico americano. Questo risultato dimostra il limite del potere dei movimenti fondamentalisti cristiani di influenzare le scelte del partito repubblicano. Ora si è creato il paradosso di uno Stato, l’Alabama, con un elettorato in maggioranza pro-life rappresentato da un senatore democratico che è sì centrista, ma anche favorevole all’aborto.
Un altro aspetto significativo è la capacità di mobilitazione della propria base elettorale. La notevole mobilitazione degli elettori democratici salta agli occhi. Particolarmente decisivo è stato il contributo del voto afro-americano, pari al 29% dei votanti secondo gli exit polls. I democratici hanno vinto nel profondo sud dell’Alabama, che è il profondo sud degli Stati Uniti, in luoghi simbolici per le battaglie sui diritti civili degli anni sessanta, come Selma e Birmingham. Le donne afro-americane dell’Alabama, ad esempio, hanno votato più numerose alle elezioni per il seggio vacante del Senato che in occasione delle elezioni presidenziali vinte da Obama nel 2012, e il 98% di loro hanno appoggiato Jones. Fondamentale è stato infine il sostegno della popolazione con istruzione medio-alta delle aree urbane.
Un’altra lezione riguarda il ridimensionamento del ruolo della leadership declinata in chiave populista, ovvero come fattore trainante e mobilitante di masse di popolazione alle quali i leader si rivolgono senza mediazioni di strutture intermedie. Trump ha pubblicato un tweet nel quale afferma che ha avuto ragione nel sostenere Moore anche se questi ha perso, perché l’avrebbe fatto proprio per via della debolezza del candidato. È evidente a tutti che lo aveva invece appoggiato, non solo perché convinto della sua vittoria, ma perché auspicava che tale vittoria avrebbe aperto la strada a personaggi con un profilo alla Moore nelle imminenti elezioni di medio termine, consentendogli di “addomesticare” il Congresso e di rafforzare il legame diretto con la sua base di consenso popolare, attraverso candidati non istituzionali. Questo clamoroso errore di valutazione è in palese contraddizione con la sua storia di leader. La sua credibilità è fondata quasi esclusivamente sull’immagine di uomo vincente, come imprenditore prima, come tombeur de femmes e personaggio televisivo poi, e ora come uomo politico e statista. Per Trump non c’è peggiore insulto dell’essere definito un perdente, cioè il “loser” che oggi appare. La caduta della popolarità di Trump da quando è diventato presidente non deve essere considerata il fattore determinante a questo riguardo. La scarsa capacità di attrazione del fenomeno Trump al di là della sua persona era già nota. In margine alle elezioni presidenziali lui sostenne due candidati per le elezioni al congresso e tutti e due fallirono. Il supposto dividendo del suo appoggio alle elezioni di medio termine è ormai messo seriamente in discussione.
Un’ultima riflessione che si può fare sul “caso Alabama” riguarda il ruolo di un’informazione credibile e indipendente. Il Washington Post ha condotto l’inchiesta su Moore, incentrata sui casi di molestie, che ha messo in luce la sua inadeguatezza rispetto ai requisiti richiesti dalla carica alla quale si era candidato. L’esito delle elezioni dimostra, forse per la prima volta dalle elezioni presidenziali, che i fatti, se adeguatamente documentati, possono influenzare le scelte degli elettori. Ciò va contro il senso comune che tende ad attribuire questo potere di influenza più alle “fake news” che al giornalismo investigativo.
In conclusione, i partiti politici italiani, e soprattutto il centrosinistra, dovrebbero riflettere su quanto è accaduto in Alabama. Questo voto controverso, sorprendente e per molti aspetti eccezionale dimostra che non c’è nessuna battaglia che non valga la pena di essere combattuta e che il risultato non è mai scontato. Rimette in discussione il pensiero unico sul predominio della narrazione e dello “storytelling” rispetto al capillare lavoro politico di base. Sottolinea che le qualità essenziali della leadership sono competenza, integrità, ascolto, dialogo, compassione e visione strategica, in altre parole fattori che sono stati troppo a lungo marginalizzati alla ricerca del “quid” carismatico, dell’efficacia della comunicazione attraverso i media tradizionali (tv, radio, giornali) e della immediatezza e semplificazione del messaggio politico tramite i social media. Mette in luce che le modalità impersonali dei contatti virtuali, sebbene svolgano un ruolo imprescindibile per l’esercizio della politica nell’era della rivoluzione digitale, non possono sostituire la mobilitazione casa per casa, strada per strada, quartiere per quartiere, basata sul contatto diretto con persone, gruppi e movimenti. Rimette al centro dell’agenda politica i cittadini che danno valore ai principi della dignità, della solidarietà e della protezione e rispetto dei diritti. Ricorda che la coscienza civile scuote i corpi sociali nei sistemi democratici, dove i cittadini non sono consumatori o meri elettori, ma soggetti attivi di cambiamento che esigono di esprimere senza costrizioni le proprie scelte e di esercitare un controllo su chi li governa, nelle forme e nei modi previsti dalla costituzione.
Massimo Tommasoli, PhD, é il Permanent Observer for International IDEA presso le Nazioni Unite. Visiting Scholar alla LUISS di Roma, insegna anche al UN System Staff College di Torino e altre università italiane. I suoi ultimi libri: Nel nome dello sviluppo, Roma 2013; Politiche di cooperazione internazionale, Roma 2013; Democracy and the Pillars of UN Work, Stockholm 2014 (translated into the UN official languages). m.tommasoli@idea.int