Nel panorama politico americano la data di oggi è da segnare in rosso. I cittadini dell’Alabama sceglieranno chi andrà a rappresentarli al Senato sostituendo così Jeff Sessions, che ha lasciato vacante il seggio dopo essere stato nominato Attorney General (Ministro della Giustizia) all’interno dell’amministrazione Trump.
In altri tempi, un appuntamento del genere non avrebbe meritato nemmeno un trafiletto nei maggiori giornali internazionali. Questa volta, invece, è diverso. Le conseguenze del voto saranno infatti un test politico fondamentale che travalica i confini del profondo Sud.
I due sfidanti si chiamano Roy Moore (da parte repubblicana) e Doug Jones (democratico), ma negli ultimi tempi è stato soprattutto il primo a balzare agli onori delle cronache, per via delle numerose accuse di molestie sessuali ricevute da ben nove donne, tra cui diverse minorenni. Messo alle strette, bacchettato dai suoi stessi compagni di partito e mollato da influenti finanziatori, Moore ha sorpreso tutti decidendo di non ritirare la candidatura, alzando un polverone mediatico che dura ormai da mesi. Settant’anni, ex giudice e affiliato al partito democratico fino al 1992 (anno in cui passò armi e bagagli nelle file dei repubblicani), Moore è espressione dell’ala “populista” dei conservatori, e su molti temi, dall’immigrazione ai diritti civili, si posiziona alla destra del GOP, trovando nei cristiani evangelici lo zoccolo duro dei suoi sostenitori.
Dall’altra parte della barricata c’è invece Doug Jones, 63 anni, ex Attorney nel distretto dell’Alabama nominato durante il mandato di Bill Clinton (1997) e divenuto celebre per aver perseguito gli ultimi esponenti del Ku Kux Klan responsabili dell’attentato terroristico nella chiesa battista di Birmingham, avvenuto nel 1963. Dal punto di vista politico, Jones è quello che noi italiani chiameremmo un “centrista”, parte dello schieramento “moderato” interno al partito democratico (popolare in stati tradizionalmente conservatori come l’Alabama).
Ma chi ha più chances di prevalere tra i due? A poche ore dalla chiusura dei seggi il risultato è quantomai incerto. Stando all’ultima media fornita dal sito Realclear Politics la distanza fra Moore e Jones è di soli due punti percentuali in favore del repubblicano, ma gli ultimi dati sono troppo volatili per fornire un parametro affidabile. Di certo, in termini di investimenti, è Jones il grande vincitore: i dati forniti da Advertising Analytics ci dicono che alla fine di novembre il candidato democratico aveva speso 5,6 milioni di dollari in pubblicità contro gli 800 mila dell’avversario. In generale, sembra inoltre di poter dire che il crollo verticale dei consensi a danno di Moore non ci sia stato. Nonostante il tema delle molestie abbia dominato la scena travolgendo numerose personalità in tutti i campi, dal giornalismo alla politica, il sostegno della base nei suoi confronti pare essersi smosso poco.
In ogni caso, le conseguenze di una sconfitta repubblicana in Alabama sarebbero pesanti. Se i conservatori perdessero il seggio al Senato, la già risicata maggioranza di 52 senatori su 100 che detengono per ora si assottiglierebbe ancora di più, rendendo molto complicata l’approvazione delle future riforme annunciate dall’amministrazione Trump. Il Presidente rischierebbe nei prossimi mesi di ritrovarsi nel mezzo della palude del Congresso, come già avvenuto nel caso della riforma sanitaria, e si potrebbe trovare in serie difficoltà.
Non è tuttavia solo questione di numeri: l’Alabama è anche un’importante cartina di tornasole per verificare quali siano gli equilibri interni al GOP. Insomma, l’esito ci svelerà se è ancora viva nell’elettorato conservatore la cosiddetta corrente anti-establishment che trascinò il tycoon newyorkese alla Casa Bianca nel novembre 2016. Tale fronda, capitanata da Steve Bannon (ormai cacciato dall’amministrazione ma sempre influente), si è schierata compatta a favore di Moore, portandolo a prevalere nelle primarie del partito sul candidato “moderato” Luther Strange, appoggiato anche da Trump, che per l’occasione si era allineato con lo stato maggiore del partito.
Dopo aver puntato sul cavallo sbagliato, l’inquilino della Casa Bianca si è dunque trovato a dover appoggiare obtorto collo un candidato scomodo, ricevendo per questo aspre critiche sia da parte dell’opposizione, che gli rimprovera il sostegno a un personaggio di dubbia moralità, sia della frangia populista più estrema, che lo accusa di essersi negli ultimi tempi allineato all’odiato establishment. Tra poche ore, scopriremo dunque se il Presidente perderà la sua scommessa o se la fronda guidata da Bannon rientrerà di prepotenza al centro della scena.
Discussion about this post