Ennesima tempesta politica sulla neonata amministrazione Trump nell’ambito di quello che i media americani (con poca fantasia) hanno ribattezzato “Russiagate”. Dopo le dimissioni del consigliere alla sicurezza nazionale, Michael Flynn, questa volta i riflettori sono puntati su Jeff Sessions, accusato di aver mentito sotto giuramento durante le audizioni tenute al Senato (conclusesi con la sua conferma nel ruolo di attorney general), riguardo ai propri contatti con funzionari russi durante la campagna elettorale.
A prescindere dal russiagate, Sessions è stato già in passato una figura controversa del nuovo esecutivo. Vent’anni da senatore molto popolare in Alabama e una carriera legale alle spalle, l’attuale ministro della giustizia è stato spesso accusato di razzismo, e a detta di molti è uno dei falchi dell’amministrazione su temi come l’immigrazione e i diritti civili.
La bufera attuale, anche questa volta, è partita dalle colonne del Washington Post, che ha svelato due incontri (uno a luglio e l’altro a settembre 2016) tra Sessions, che all’epoca era un senatore membro della commissione per l’esercito, e l’ambasciatore russo Sergei Kislyak.
Le rivelazioni del giornale che fu protagonista oltre quaranta anni fa del Watergate e le dimissioni di Nixon, hanno rianimato il durissimo e mai sopito scontro politico sulla questione dei presunti e oscuri rapporti tra la nuova amministrazione e il governo russo, aggravati dal fatto di essersi verificati durante la campagna elettorale. E se da un lato l’opposizione democratica è partita all’attacco, cavalcando l’onda del Russiagate e chiedendo le dimissioni di Sessions, dall’altro il Presidente Trump ha dichiarato di sostenere il proprio ministro della giustizia, accusando i democratici di aver montato un caso inesistente e di fatto gridando al complotto.
Dal canto suo, nella prima conferenza stampa tenuta giovedì al riguardo, Sessions ha negato ogni accusa, ricusando poi se stesso nell’inchiesta dell’Fbi sul coinvolgimento di Mosca nella campagna elettorale USA. Un atto dovuto al fatto che lui stesso avrebbe normalmente un ruolo di supervisione dell’agenzia in quanto Attorney General.
Nel suo breve intervento, Sessions ha inoltre ammesso di aver incontrato l’ambasciatore russo nell’ambito delle sue normali attività istituzionali, che tra l’altro hanno incluso numerosi altri meeting con membri della diplomazia estera, giustificando il suo silenzio al Senato con motivazioni poco convincenti e ammettendo che “a posteriori, avrei dovuto ‘frenare’ e dire che mi ero incontrato un paio di volte con un funzionario russo-cioè l’ambasciatore”.
Insomma, il giallo sui rapporti tra Trump e il Cremlino si infittisce, e purtroppo è davvero difficile tirare le fila degli eventi che di recente hanno coinvolto la Casa Bianca.
I media americani mainstream hanno subito lanciato il paragone con lo scandalo Watergate, definendolo addirittura “peggiore” dell’inchiesta che portò alle dimissioni di Richard Nixon nel 1974. Le similitudini di alcuni meccanismi e del comportamento di certi personaggi, a essere onesti, ci sono.
A rilevarle sono stati persone direttamente coinvolte nel Watergate, come John Dean, ex avvocato di Nixon e artefice del cosiddetto “insabbiamento” tentato all’epoca dall’Fbi. Partendo dalla reazione con cui Trump ha liquidato lo scandalo, che Dean ha notato essere praticamente identica alle prime affermazioni di Nixon, arrivando fino all’ossessione dei due presidenti per i media, considerati come “nemici”. Esistono poi alcune similitudini relative alle fughe di notizie, che in certi ambienti, come quelli vicini alla Casa Bianca, si ripropongono con meccanismi inevitabilmente simili.
Detto ciò, però, l’enfasi del paragone non deve farci dimenticare anche delle differenze sostanziali. La prima, e più importante, è la seguente: il Washington Post attuale, così come i principali media mainstream americani, non è lo stesso di quello che a suo tempo incastrò Nixon. Negli ultimi anni, al contrario, in molte occasioni i mezzi di comunicazione di massa si sono comportati in maniera assai ambigua, spesso confondendo di proposito le acque sull’onda del sensazionalismo e manipolando l’opinione pubblica, che stando agli ultimi sondaggi non crede praticamente più alla stampa.
Tutto il contrario di ciò che dovrebbe fare il Quarto Potere. La vicenda dello scoop di Buzzfeed, ritenuto inattendibile da tutti i principali giornali ma rilanciato da CNN, ne è un esempio. Avete fatto caso che non se ne parla più?
Il risultato è che il pubblico, sempre più confuso, è praticamente diviso a metà: gli anti-trumpiani sono già convinti della colpevolezza di Trump a prescindere, trovando prove anche dove non ci sono e arrivando al paradosso di fomentare un clima da maccartismo 2.0; i trumpiani al contrario, ritengono che tutto sia montatura e “fake news”, ignorando la presenza di particolari quantomeno sospetti nella storia.
Per capire cosa stia succedendo conviene stare ai fatti, che in estrema sintesi sono questi: membri dell’amministrazione Trump, tra cui Michael Flynn e Jeff Sessions, hanno avuto evidenti contatti con funzionari russi, tra cui l’ambasciatore Sergei Kislyak. Quest’ultimo, a quanto risulta da più fonti, è un personaggio incaricato da Mosca di cercare alleati strategici in America, magari puntando coloro con probabili futuri ruoli nell’amministrazione. Non bastasse, il Cremlino ha orchestrato una fitta propaganda elettorale anti-clintoniana, temendo (a ragione) in un inasprimento delle tensioni militari con gli USA nel caso di elezione della ex segretario di stato.
È qui che sta il sottilissimo confine tra “normale” intrigo diplomatico e corruzione. Sessions e Flynn sono solo i primi, ma siamo sicuri che potrebbero spuntarne presto altri. Nel dettaglio, Flynn ha sempre coltivato una relazione privilegiata con Mosca, ma un’affermazione simile potrebbe farsi anche con riguardo al segretario di stato, Rex Tillerson, il quale, da ex presidente della compagnia petrolifera Exxon Mobile, ha intrattenuto importanti rapporti d’affari con società controllate direttamente dal Cremlino.
In breve, esiste un chiaro orientamento filo russo della nuova amministrazione. Ma da qui a considerarla come un governo “fantoccio” direttamente controllato da Mosca ce ne passa.
La domanda, banale e spontanea, è poi perché sia Sessions che Flynn abbiano nascosto tali rapporti. Non sarebbe stato più logico (soprattutto nel caso dell’Attorney General) dichiarare prima gli incontri? È proprio la loro omissione nei confronti di altri membri dell’amministrazione (nel caso di Flynn addirittura il vicepresidente) a creare un genuino sospetto sul contenuto delle conversazioni.
Un altro aspetto interessante, e poco indagato, è infine l’esistenza di una evidente lotta di potere tra pezzi consistenti dell’intelligence (definiti in gergo “deep state”) con una parte che sembra avere un’agenda “politica” avversa a quella della presidenza Trump. Conosciamo bene la pericolosità di alcuni apparati d’informazione “deviati”, dimostrata da numerosi episodi della storia americana e di cui parlò già nel 1961 il presidente Dwight Eisenhower, definendola “complesso militare industriale” . Ma di tutta questa faccenda, anch’essa pericolosa per la democrazia, guardacaso, sappiamo molto di meno, e i media non sembrano interessati a scavare più di tanto.
Eppure, saranno le evoluzioni della situazione nel “mondo sotterraneo”, probabilmente, a determinare il destino di Trump.
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