Pubblichiamo la prefazione di Stefano Vaccara al libro di Francesco Pira e Raimondo Moncada “Fake news. Manuale semiserio di sopravvivenza contro le bufale”, che esce oggi in Italia, edizioni Medinova
A chi interessa più oggi la verità, quella condizionata dai fatti e non dai desideri? Chi scrive crede che la verità “piena”, quella che Sciascia descrisse come “la luna nel pozzo”, sia troppo difficile da raggiungere. Eppure, anche quando non si può arrivare alla verità “assoluta”, quella che non cambia più, comunque è un dovere di chi lavora per informare provare ad avvicinarsi il più possibile ai fatti che la lambiscono. Rinunciarci significherebbe essere condannati all’inferno dell’ingiustizia, quella degli abusi che si fanno scudo della menzogna. Dopotutto le prime democrazie inventarono i giornali per questo: per evitare di far ricadere il loro esperimento negli abissi di quelle società dove i fatti esistono solo se possono essere manipolati a vantaggio del potere. Altrimenti, quei fatti non esistono più, tutto è categorizzato nella montagna di “fake news”.
Scrivo queste righe, dopo aver letto il tempestivo quanto necessario libro di Francesco Pira e Raimondo Moncada Fake news. Manuele semiserio di sopravvivenza contro le bufale. L’ho letto a New York, nel mezzo dell’epicentro della pandemia Covid-19 che sta sconvolgendo ogni certezza del mondo che pensavamo di conoscere. Ecco che la domanda sulla verità dei fatti, oggi, ci suona più impellente che mai: interessa ancora tendere alla verità? O l’accertare i fatti è ormai solo un “optional” fastidioso che rallenta, rendendo ancora più pesante da vivere questo scorrere quotidiano dell’imprevedibilità del non saper più nulla?
Da come certi governi hanno agli inizi della crisi del Coronavirus – e qualcuno purtroppo ancora continua – affrontato e informato i propri cittadini di quello che stava accadendo, ci accorgiamo che per certi leader mondiali (su tutti Donald Trump), i fatti diventano un impiccio. Non si scopre certo adesso quanto sia nell’istinto del potere temere e, quindi, nascondere la verità; nelle democrazie certi “fatti” si nascondono per legge almeno per vent’anni (il cosiddetto “classified” o anche “top secret” dei documenti). Rivelare la verità fa star male spesso chi governa, dimostrandone le incapacità e i ritardi di chi avrebbe dovuto agire meglio nel contenere la crisi del momento. Eppure, non eravamo ancora preparati a questo fatto: anche nella più formidabile democrazia del mondo, quella degli Stati Uniti, ora viene considerato “superfluo” al potere il dover rispondere alle domande dei giornalisti che lavorano per quelli che, non tanto tempo fa, venivano ancora chiamati “mezzi d’ informazione”.
Trump, ogni giorno, nel bel mezzo della pandemia, si presenta alla Casa Bianca davanti ai giornalisti con “l’opzione” di rispondere alle loro domande e ogni giorno termina allo stesso modo: puntando il dito contro qualcuno chiamato “fake news”, il presidente rifiuta di rispondere alle domande fastidiose e, dopo aver disseminato accuse di “fake fake”, ecco che va via, lasciando al suo vice Mike Pence l’incarico di far finta di rispondere.
In tempi non così lontani questo non sarebbe stato possibile. Al massimo da un “Commander in Chief” l’opinione pubblica americana avrebbe accettato un “no comment”, dato che la cosiddetta “ragion di stato” è sempre stata – nonostante recenti fenomeni come Wikileaks o Edward Snowden abbiano cercato di picconarla – parte dell’ipocrisia del sistema di potere anche in democrazia. Eppure, oggi sembra normale letteralmente ignorare le domande che non piacciono, semplicemente indicando chi le fa come esponente del mondo delle “fake news”.
Già, in un mondo dove tutto diventa fake, a che serve più la verità?
Proprio durante una pandemia che negli Stati Uniti, mentre scrivo, sta raggiungendo la cifra di centomila morti in soli tre mesi (per farsi un’idea basata su fatti: l’ 11 Settembre ne fece quasi tremila e lo shock della guerra del Vietnam, in dieci anni, 58 mila), il messaggio costante che arriva dalla Casa Bianca è “non credete a chi vi allarma”, tutto è fake news”, e informatevi solo “direttamente” dal vostro presidente Trump che su twitter vi dirà solo quello che c’è da sapere. Siamo come tornati, anzi no scusate, negli USA non c’era proprio mai stato, al leader che ha “sempre ragione!”.
Può allora il mondo cosiddetto “libero”, restar tale quando il potere si rifiuta di interloquire con i giornalisti tacciandoli ormai di essere solo seminatori di fake news? Può farlo soprattutto al tempo di una pandemia dove la mala-informazione mette a rischio la vita dei cittadini?
Il 3 maggio è stata celebrata dalle Nazioni Unite la giornata mondiale della libertà di stampa. Il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres, in un video messaggio distribuito su tutti i sociali, ha ribadito che “Nessuna democrazia può funzionare senza la libertà di stampa, che è la pietra fondante della fiducia tra le persone e le istituzioni”. Guterres partecipava anche ad un Dialogo on line organizzato dall’Unesco, il braccio culturale dell’ONU che si dovrebbe occupare di difendere la libertà di stampa nel mondo (secondo chi scrive, lo fa solo part-time e con mezzi inadeguati). Il meeting on line dell’Unesco era stato organizzato proprio sul tema della disinformazione nel contesto della pandemia di Covid-19. Oltre al virus che uccide, altrettanto pericoloso è diventato l’aumento della diffusione delle “fake news” sulla pandemia, con una rapida propagazione di teorie della cospirazione, di articoli che incitano all’odio e persino di consigli di “esperti” che risultano dannosi per la salute. L’ONU ha calcolato che oltre il 40% di queste pericolose “fake news” non viene neanche più diffuso da esseri umani, ma da bot – programmi automatici maliziosi mascherati da persone. Una “pandemia” di fake news, l’ha chiamata Guterres. Quindi, la direttrice dell’UNESCO, Audrey Azoulay, non poteva che ribadire che la “prima vittima” della pandemia globale è stata la verità.
Ora fate attenzione al cortocircuito di tutto quello che si chiama “fake news”. Questo arriva anche quando un leader di una democrazia come è ancora Trump (ma pensiamo anche a Bolsonaro in Brasile e altri…), avverte continuamente i cittadini di stare allerta non da quelle fake news spesso prodotte dai loro stessi tweet, ma dai giornalisti; per questi leader sono loro i maggiori responsabili delle menzogne che circolano ormai incontrollate in rete. Siamo all’Abc della propaganda: fare di tutta l’erba un fascio (mischiando l’ erba cattiva con la buona) per farla diventare tutta cattiva!
Cioè il potere capisce come, e qui prendo a prestito le parole scritte in un passaggio dal Prof. Pira, “la contrapposizione tra la semplicità d’uso delle tecnologie e la complessità del mondo stiano generando una società fragilizzata, individualista, poco incline al confronto ed all’interno della quale gli individui si illudono di essere connessi con il mondo, ma, in realtà, sono profondamente soli”. In questa solitudine del cittadino che legge solo le notizie che gli garbano (già il social permette di costruirsi la propria bolla), ecco che arriva il martellamento continuo dei post di Trump a loro volta rimbalzati dai sui fan – portiamo sempre lui ad esempio perché è il leader massimo tra chi ha saputo utilizzare al meglio del successo i social per l’ascesa politica -, annientando così la funzione di “filtro” (o come si diceva una volta “guardiano”) dei media, ridotti ormai a fornire notizie soltanto per gli addetti ai lavori, mentre la massa segue i suoi leader nei social che intanto accusano i media di essere solo divulgatori di “fake news”.
Non vogliamo qui certo sostenere che i media abbiano perso tra i cittadini la loro credibilità solo per colpa delle accuse di “fakeismo” dei vari Trump, Bolsonaro, Duterte, Orban, Salvini… La perdita di credibilità e autorevolezza è un lungo processo che è iniziato ben prima dell’avvento dei social media, che hanno soltanto dato la spallata finale a un complesso sistema ormai marcio del media “establishment” che, negli USA come in Europa, aveva già tradito la fiducia dei lettori. Troppo prolungate quelle fusa verso interessi che poco avevano a che fare con i doveri di “quarto potere”. Il cane da guardia, quello che qui in America si era visto in azione ai tempi dei “Pentagon Papers” o del “Watergate”, aveva smesso di azzannare da tempo. Basta pensare, ad esempio, a come l’amministrazione del Bush figlio riuscì ad arrivare all’invasione con l’Iraq senza che da parte dei media – con le dovute eccezioni – ci sia stato un serio tentativo di costruire quel muro invalicabile di fatti per disintegrare le menzogne e le manipolazioni, evitando così la guerra.
Tornando ai tentativi di ridare un ruolo credibile ai mezzi d’informazione, nell’ultima parte del recente discorso che il Segretario Generale dell’ONU ha tenuto in favore della stampa, Guterres ha affrontato alcuni aspetti dell’uso dei social media durante la pandemia. Mentre i social media hanno fornito alle persone una piattaforma unica per connettersi e per accedere a informazioni, hanno anche reso più facile diffondere informazioni sbagliate e pericolose. Guterres ha, quindi, sottolineato i passi intrapresi dalle Nazioni Unite insieme ad alcune piattaforme social: “Abbiamo lanciato la nostra iniziativa per inondare spazi digitali di fatti e analisi scientifiche, contrastando bugie e disinformazione di tutti i tipi”. Il leader dell’ONU ha anche aggiunto che tutti noi, ma in particolare i governi e le organizzazioni internazionali, abbiamo l’obbligo di promuovere fatti e approcci scientifici. Ad un certo punto, Guterres dice che i cosiddetti social, (come FB, Twitter, Instagram, etc ) non possono tuttavia sostituire il ruolo dei media indipendenti e infine esorta “governi e leader di ogni genere a fare tutto il possibile per proteggere giornalisti e operatori dei media e rafforzare la libertà di stampa, durante la pandemia di COVID-19 e oltre”. Cioè per Guterres, alla fine a poter mantenere responsabile il potere delle loro decisioni e azioni, sono i giornalisti.
Ora il libro di Pira e Moncada, che diverte anche con quelle sue ultime parti esilaranti in cui si leggono storie inventate e così incredibili ma che sappiamo diventerebbero subito “virali” su internet, nel farci “scompisciare”, alla fine ci fa riflettere sulla natura umana di cui speriamo si occupino di più anche all’ONU. Ecco, questo libretto potrebbe essere un manuale tradotto e distribuito (ma non solo nelle scuole) per immunizzarci tutti dal virus della credulità!
Nella prima parte del libro il Prof. Pira analizza il fenomeno da un punto di vista scientifico, evidenziando gli esiti delle ricerche condotte, mettendo in risalto quello che con il collega Altinier ha definito l’esagono delle fake news, ossia alcune loro caratteristiche peculiari, sottolineando come nell’era della disintermediazione questo processo stia coinvolgendo anche il giornalismo. Ormai l’intrattenimento viene confuso con l’informazione. È in voga la “barbaradursizzazione del giornalismo”, un format che si basa sull’emotainment, nell’ambito del quale questioni intime e private vengono analizzate e presentate, facendo leva sull’emotivismo del pubblico, per poi essere reinterpretate sui social network con commenti molto discutibili. Senza contare che ciascuno di noi, da semplice fruitore di notizie, ne diviene anche il creatore grazie alla rete.
Politica, medicina, cambiamenti climatici, diritti umani negati e migrazione sono i temi che attirano maggiormente attenzione e su questi temi vengono passati in rassegna alcuni casi esemplari, accaduti dal 2015 al 2019, offrendo pure alcuni consigli utili su come evitare di rimanere intrappolati nella rete e diventare autori di misinformazione.
Nella seconda parte, Raimondo Moncada ha rivisitato il fenomeno da operatore dell’informazione e da autore satirico. Moncada è diventato per diletto un “confenzionatore” di fake news, riprendendo le assurdità lette soprattutto su Facebook e su Twitter, non nascondendo di proposito la falsità dei fatti raccontati, anzi mettendo l’invenzione in bella evidenza sia nel titolo e sia nel corpo della notizia per suscitare la riflessione del lettore. Un esercizio di scrittura creativa, dunque, ma non solo, in quanto finalizzata ad innestare il dubbio o almeno far nascere la consapevolezza delle falsità che circolano in rete, camuffate da verità e rese assolute dal potere dei like, e la necessità di non incentivarle neppure con un “click” solo apparentemente innocuo.
Un libro che parla anche e soprattutto a chi finora non ha voluto ascoltare dandogli l’allarme, e per raggiungerli usa punte di sarcasmo e “inventiva” sempre bilanciata alla scrupolosa ricerca scientifica. Perché ormai, e questo è un fatto altro che fake, è proprio diventata pericolosa per la libertà di tutti questa valanga di “fake news” che ha travolto, non facendo più distinguere, l’informazione degna di tale nome. Il libro, concepito e scritto prima della pandemia, ci appare quindi come un tentativo di “vaccino” per provare a “immunizzare” il cittadino col cervello ancora non infestato, per poter ancora restare nei social senza per questo rinunciare ad una informazione credibile.
Eppure sembra una lotta “impari”, se poi pensiamo, come scrive ad un certo punto Pira, citando un dato di uno studio americano, che oggi sui social “una notizia vera impiega sei volte il tempo di una notizia falsa per raggiungere mille persone”.
Moncada, prima di farci tanto ridere con le sue storie “fake”, che sappiamo purtroppo verrebbero nei social credute da troppi, scrive: “Con le false notizie, confezionate ad arte per essere credute al volo, senza pensiero, e compulsivamente condivise e virilizzate, si prende per la pancia l’indistinta e incattivita folla aizzandola all’odio, al linciaggio, alla denigrazione, alla distruzione. I risultati per i falsisti sono remunerativi. Il guadagno arriva in pochissimo tempo. Essere falsista paga, come paga essere cattivo, mostrare i denti (…) Non si salva nessuno, neanche i santi che arrivano a perdere la loro secolare aureola per i nuovi santi decretati a colpi di follower. I danni cominciano a vedersi. Le fake news in poco tempo, come acido corrosivo, hanno attaccato la credibilità della stampa presentandosi sotto forma di informazione ufficiale verificata in tutto e per tutto secondo tutti i canoni del giornalismo. La verità, quella vera, viene così tranquillamente messa in dubbio e rifiutata. Non si crede più all’evidenza scientifica, alle terapie che salvano vite umane, ai video che mostrano dallo spazio, a cavallo di una stella cadente, una terra rotonda e non piatta…”.
Il mondo dove Trump può diventare presidente della maggiore potenza mondiale. Un mondo dove, non credendo più a nulla, si finisce nella rete dei demagoghi del “tutto è fake”, che così rafforzano le fondamenta per costruirsi (in democrazia!) un potere immune alla responsabilità.
Questo libro, pubblicato in un momento così decisivo, più che un manuale “semiserio di sopravvivenza contro le bufale”, ci appare un contributo tanto agile quanto strategico nella corsa alla ricerca della cura adatta a salvare l’informazione sana dal virus-fakenews e con lei, speriamo ancora, la democrazia.