
Il leggendario giornalista televisivo Walter Cronkite, noto al pubblico come “lo zio Walter,” è stato considerato per anni, e forse anche decadi, l’uomo più fidato nel campo dell’informazione. Ha fatto delle sue dirette televisive il fiore all’occhiello della sua carriera su eventi storici come la crisi dei missili cubani, l’assassinio di Kennedy, la guerra nel Vietnam, l’atterraggio dell’Apollo 16 sulla luna e lo scandalo Watergate. “Walter Cronkite ha rappresentato tutto quello che il pubblico avrebbe voluto trovare in un giornalista. Era giusto ed equilibrato nei suoi resoconti giornalistici. Era scrupoloso e preparato, non aveva peli sulla lingua quando si trattava di fare domande scomode a politici e governanti; non aveva importanza che fossero democratici, repubblicani, liberali o conservatori”. All’epoca, insomma, era diventato la figura predominante dell’informazione televisiva e il senso di fiducia che Cronkite emanava era così forte che si rifletteva anche sul personaggio che intervistava, tanto che, secondo un cronista: “mentire a Walter Cronkite durante un’intervista avrebbe ridotto al minimo la possibilità di riapparire in TV su CBS”.
Ma i tempi sono cambiati e gli “adulti” di una volta sono oggi impantanati in un adolescenza perpetua. I sintomi di questa adolescenza perpetua si vedono dappertutto, genitori e figli si vestono allo stesso modo: top cortissimi, infradito e cappellino da baseball. Adulti tra i 18 e i 49 anni guardano ancora i cartoni animati invece del notiziario, e l’età media dei giocatori nel mondo dei videogiochi si aggira intorno alla trentina. Mamma, papà e prole poi ascoltano la stessa musica. Ma ancora più scioccante di queste manifestazioni fisiche è la scomparsa dei valori associati da sempre e per antonomasia all’età matura di un individuo, il senso di responsabilità, la visione più matura delle cose e l’autonomia dell’intelletto.
All’epoca di Cronkite la veridicità dei fatti riportati veniva controllata con cura e diligenza e sicuramente prima che la notizia venisse divulgata in televisione o prima che un giornalista ne scrivesse un articolo. Purtroppo, la realtà oggi è che viviamo in un mondo diverso e la moda delle “notizie alternative” nell’era della “post-verità” si è ormai insediata nelle nostre coscienze. L’idea che ci possa essere un’unica verità è un concetto che sfugge al nostro modo di pensare in quest’era di relativismo post-moderno. Ѐ stato calcolato che Donald Trump, presidente di una nazione potente, dica una media di più di otto bugie al giorno, una somma che già supera 5,000 fino a ottobre, 2018. Certo, Trump non è l’unico politico a dire bugie, ma sicuramente colpisce la sfacciataggine e la flagrante mancanza di rispetto con cui lo faccia e, nonostante sia messo davanti all’evidenza di video che testimoniano le sue affermazioni contraddittorie, insiste sulle sue spudorate bugie. Quando si viene bombardati dall’eclatante mancanza di rispetto per la verità è facile capire il cinismo con cui l’opinione pubblica accolga le notizie che vengono riportate.
E allora una domanda nasce spontanea: il giornalismo può essere oggettivo, imparziale, giusto e ponderato? Come può esserlo se l’utente filtra le notizie attraverso gli elementi della propria coscienza? Una stessa notizia non viene interpretata alla stessa maniera da due individui diversi e anche i fatti di cronaca più “inconfutabili” vengono messi in discussione e al vaglio dell’interpretazione. Ma pur tenendo presente la quasi impossibilità di raggiungere l’obiettività, tutto ciò non ci deve far astenere dal fare di tutto per ottenerla. Altrimenti rischiamo di lanciarci a briglia sciolta verso un’interpretazione soggettiva a cui ciascuno di noi si appella per quel diritto ostinato di filtrare le informazioni attraverso l’emozione e il sentimento che una notizia ci suscita, a scapito dello sforzo intellettuale che invece dovrebbe prevalere per trasmettere informazioni accurate, logiche e di buon senso. Ormai è uno spettacolo giornaliero quello di vedere in televisione gli esperti che si gridano l’uno sull’altro e che lanciano attacchi personali (ad hominem) invece di portare avanti i dibattiti in un modo civile, intelligente e informativo.
Al momento Sean Hannity è il più spudorato sostenitore di Trump del gruppo di presentatori di Foxnews.com, però è anche un carissimo amico e vecchio socio d’affari di Donald Trump. Solo per questi legami passati e presenti Hannity dovrebbe essere impedito dal riportare notizie sulla politica di Trump, eppure l’opinione politica di Hannity è la forza motrice che spinge i fanatici del presidente americano a sostenerlo, i quali sembrano ignorare completamente i dati statistici che contrastano con quanto affermano Hannity e Trump nelle loro dichiarazioni pubbliche.

Ci si chiede frequentemente se Hannity e quelli come lui siano dei veri “giornalisti”. Fox News è il canale più di parte di tutti, ma non è l’unico, se lo fosse lo potremmo semplicemente ignorare. Il canale Fox News ha Hannity, Ingraham, Levin e Doocy, mentre sul CNN troviamo Don Lemon e Erin Burnett e sul MSNBC Rachel Maddows. Tutti ugualmente supponenti e di parte. Hannity dal canto suo, e da buon opportunista, ha detto nell’agosto del 2016 ad un critico, di “non essere un giornalista ma un semplice presentatore di programmi televisivi” per poi smentirsi in un articolo successivo uscito sul New York Times a novembre dove invece dichiara di essere infatti un giornalista. Non solo “Hannity incoraggia l’idea che lui sia una delle poche persone a fare del vero giornalismo” ma è stato anche definito “un grande giornalista” dall’ex sceriffo “arci-trumpista” dell’Arizona Joe Arpaio.
Allora dov’è il limite tra giornalismo televisivo e i programmi di talk show? Lo spettatore riesce a distinguere l’uno dall’altro? E se la televisione è senza dubbio il metodo di informazione più diffuso tra la maggior parte degli utenti e viene ingolfata da tutti questi “Talk Show”, dove si possono ascoltare notizie oggettive di cronaca giornaliera senza essere stonati dal martellamento continuo dell’opinione e del punto di vista personale del conduttore? Ѐ un problema ormai molto diffuso e quel che è peggio è che oggi anche lo spettatore viene invitato d’offrire la propria opinione via Twitter. Forse è solo una questione di stile, ma molto più probabilmente è sintomatico della visione del mondo che prevale oggi. Ai tempi di Cronkite c’era una grande differenza tra il fatto di presentare una notizia, che questo avvenisse alla televisione o nella stampa, e di commentarne il significato. Il post-modernismo ha frantumato i cosiddetti “grandi concetti” e i valori del passato. Oggi le varie piattaforme mediatiche a disposizione da cui attingiamo le nostre informazioni, e lo stesso concetto di verità, risultano tanto frammentati e dispersi quanto la nostra nazione. E se il consumatore, quell’adolescente perpetuo di cui si parlava, si rifiuta d’assumere le sue responsabilità per scovare la verità, allora non ha il diritto di lamentarsi che i media lo ingannano.
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