I suoi libri e i suoi articoli hanno contribuito a spiegare il Belpaese a italiani e non. Lui, Alexander Stille, giornalista e autore che ha collaborato con le più influenti testate al mondo – dal “New York Times” al “New Yorker”, passando per l’italiana “La Repubblica” –, e professore alla prestigiosa Scuola di Giornalismo della Columbia University di New York, continua a essere un instancabile e acuto osservatore delle vicissitudini politiche italiane, oltre che internazionali. Lo incontro in un caffé a due passi dall’iconica statua di Thomas Jefferson che campeggia davanti alla Scuola di Giornalismo e che accoglie studenti e visitatori. Sono trascorsi pochi giorni dalla tornata italiana delle elezioni europee, che hanno visto, nel loro complesso, un’avanzata dei “sovranisti”, pur ancora lontani dalla maggioranza, e una riscossa dei verdi, tanto che qualcuno ha parlato di “effetto Greta Thunberg”. Il nostro Paese, invece, ha incoronato uno dei due partiti che compongono l’esecutivo, la Lega di Matteo Salvini, e ha segnato il tracollo dell’altro firmatario del “contratto di governo”, il Movimento Cinque Stelle. Per Stille, è questo “un matrimonio strano”, il cui esito, evidenziato da queste elezioni, era “prevedibile e ampiamente previsto”. Si tratta di “due partiti con orientamenti abbastanza diversi: uno, la Lega, con solida esperienza politica e un team già formato, e l’altro, il M5S, un movimento sociale che si inventa il partito molto rapidamente, ma senza la stessa esperienza alle spalle. Il risultato è che la Lega ha mangiato il M5S”, spiega il giornalista.
Salvini? Ciò che ha scandalizzato il resto del mondo ha aumentato la sua popolarità tra l’elettorato italiano
Un risultato annunciato da tempo, insomma, anche considerando che in questi mesi abbiamo visto Salvini “comportarsi come se fosse Primo Ministro, e non Vicepremier o ministro del Governo”. Il risultato è che “gli italiani lo hanno visto dieci volte di più del premier Conte”. A premiarlo, soprattutto, “le posizioni molto chiare e molto dure, persino aspre, sull’immigrazione”: “Ciò che ha scandalizzato il resto del mondo ha aumentato la sua popolarità tra l’elettorato italiano”. Il M5S, invece, “unisce persone che votavano la sinistra, il centro e il centrodestra: per questo, non è stato in grado di esprimere una politica così chiara”. Rispetto al suo alleato, perciò, “il M5S, è sembrato meno esperto e meno sicuro di sé”.
Un capolavoro politico, quello di Salvini, che lo ha portato in cinque anni dal 6 al 34%. “La sua più grande intuizione”, osserva Stille, “è stata quella di sfondare i limiti della Lega Nord. Bossi, a mio avviso, era un politico piuttosto miope, ossessionato dall’autonomia regionale e dal separatismo del Nord”. Salvini, invece, “ha capito che, se la Lega voleva uscire da quell’angolo di partito regionale, doveva abbracciare il nazionalismo o, come dicono loro, il sovranismo”. Così, il segretario del Carriccio “ha rimesso nell’armadio le sue felpe con scritto ‘Roma Ladrona’ e ‘Padania’, e ha cominciato a indossare quelle di Roma, della Sicilia, delle Marche, dell’Abruzzo, facendo campagna elettorale al Sud. In alcune manifestazioni, ha anche flirtato con l’estrema destra. Già l’idea, per la Lega, di fare una grande manifestazione sovranista a Roma, rispetto al passato del partito, è una novità. In più, l’ha fatto insieme a elementi dell’estrema destra, come Forza Nuova e Casapound”.
Salvini ha sfruttato due elementi: la frustrazione per una crisi economica mai superata davvero e la crisi degli sbarchi
Il “salto mortale” dal regionalismo “al nazionalismo duro e puro” ha pagato in termini elettorali. Ma è possibile ritrovare in quello che sta accadendo qualche aspetto del “berlusconismo”, di cui Stille è stato attento osservatore? Per il giornalista, “Berlusconi aveva un appeal diverso. Entrò nella scena politica riempiendo il vuoto lasciato dal Pentapartito, distrutto da Mani Pulite. Attraeva un elettorato moderato, conservatore, rimasto senza rappresentanza. Ha flirtato con elementi demagogici, con una retorica anti-migratoria, ma, tutto sommato, era più moderato rispetto a Salvini”. Quest’ultimo si inquadra in un contesto diverso, “che due elementi, secondo me, hanno contribuito a creare”. Innanzitutto, “la crisi del 2008-2009, da cui l’Italia non si è pienamente ripresa. Nei primi anni Novanta, l’Italia aveva un PIL pari a quello della Gran Bretagna; ora è più basso del 36%”. Da qui, il senso di frustrazione di molti italiani non solo per la mancata crescita, ma anche per “l’erosione del loro potere di acquisto e della qualità di vita loro e dei loro figli”. “Il fatto che l’Italia, nel biennio 2017-18, sia rimasta ancora sotto il livello pre-crisi ha creato una grande opportunità per Salvini. L’elettore medio ha rifiutato nettamente tutti i partiti che avevano governato negli ultimi anni. A questo malessere si è accompagnato, per coincidenza, un flusso migratorio molto forte, e soprattutto non regolato. Il numero di migranti sbarcati annualmente è aumentato da 40mila a 179mila nello spazio di uno o due anni. I Tg riportavano ogni giorno notizie sull’immigrazione, e questo ha creato l’impressione di una vera invasione barbarica”. E la retorica di Salvini, del tutto priva di ambiguità, ha fatto presa su un elettorato che “vedeva uscire dall’Italia i propri figli in cerca di lavoro, e arrivare figli altrui dall’Africa”.
La sinistra italiana ha perso la capacità di far sognare la gente. Il loro sogno è stato rimpiazzato da quello populista
E il centrosinistra? Quando l’allora premier Matteo Renzi, reduce dall’impressionante successo delle Europee 2014, venne a New York, Stille pubblicò sul “New Yorker” un editoriale per certi versi profetico, dal titolo “In New York, Renzi Mania or Renzi Remorse?”. In effetti, la popolarità dell’allora Primo Ministro si è sgonfiata piuttosto rapidamente, finendo per lasciare campo libero alle forze “populiste”. Dove ha sbagliato la sinistra? “In parte, il problema è che il centrosinistra italiano deriva dal vecchio Partito Comunista. Alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, la loro preoccupazione principale” era quella di accreditarsi presso il sistema economico-finanziario dominante e “far vedere che non erano contrari al capitalismo”. “Da un partito operaio che rappresentava il lavoro contro il mondo della finanza, sono finiti all’altro estremo, perdendo la rappresentanza della classe lavoratrice”. Un destino comune alla maggior parte dei partiti di centrosinistra degli anni Novanta, i cui capofila furono Tony Blair e Bill Clinton. Agli elettori, insomma, non è bastato l’impegno a smorzare soltanto gli elementi più crudeli del neocapitalismo, senza però cambiare di molto l’assetto socioeconomico generale. Un’accettazione prona del paradigma creato da Tatcher e Reagan, che ruotava attorno al mercato.
Non solo. A sinistra, prosegue Stille, “hanno perso la capacità di far sognare la gente, cosa che non è secondaria al progetto politico. Berlusconi, pur essendo un cialtrone e un bugiardo, ha fatto sognare l’Italia perché ha promesso il bengodi economico. È stata una grande menzogna, ma per qualche anno ha funzionato”.
Il merito di Sanders e Ocasio-Cortez? Aver proposto senza più imbarazzo soluzioni governative a grandi problemi economici e sociali. Ma se i democratici si spostano troppo a sinistra…
Quel sogno di sinistra è stato oggi rimpiazzato da quello populista, che promette di fare l’Italia (o l’America) di nuovo una grande nazione per i suoi cittadini. Eppure, negli Stati Uniti c’è chi, come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, sembra in grado di rivitalizzarlo. “La grande differenza tra USA e Italia è che l’economia americana è molto più forte. È più facile essere ambiziosi, quando si hanno risorse per esserlo”, sottolinea Stille. Il giornalista vede positivamente il fatto che certi politici americani “non siano più imbarazzati nel proporre soluzioni governative a grandi problemi economici e sociali. Per quasi 40 anni, gli USA hanno vissuto dentro il paradigma di Reagan, in cui era difficile proporre senza imbarazzo programmi governativi. Non ci si domandava se fosse civile o meno non avere una sanità per tutti, o perché l’istruzione universitaria non fosse economicamente accessibile”.
Ciò non significa, prosegue il giornalista, che tutti i programmi economici proposti dai candidati “siano realizzabili o auspicabili”. Eppure, è per lui positivo che oggi ci si chieda: “Troviamo sempre i soldi per praticare enormi tagli fiscali ai ceti più alti, e mi dite che non ne abbiamo per risolvere il problema del riscaldamento globale, o per garantire un salario minimo a chi lavora?”. Un’agenda sociale che è riuscita a orientare il dibattito all’interno del Partito democratico, e ormai diventata imprescindibile per i suoi membri.
Certo, il rischio è che i democratici corrano a sinistra per compiacere la base, per poi “trovarsi molto esposti nelle elezioni politiche”. In parole povere: potrebbe poi vincere Trump? “Sì, questo è il rischio. Il Partito democratico americano è molto eterogeneo, a differenza di quello repubblicano. I democratici rappresentano un’area che va dai socialisti democratici di Sanders e Ocasio-Cortez, ai moderati e agli ex-repubblicani che non amano Trump, e in qualche modo devono trovare una sintesi che funzioni. Aiuterebbe se ci fosse un candidato supercarismatico come fu Obama. Quel candidato non sembra esistere, per cui i democratici hanno qualche problemino”.
La stampa non è uno strumento di guerra contro Trump, ma deve guardare con serietà il proprio lavoro e distinguere tra menzogne e verità, disinformazione e informazione
Grande conoscitore del giornalismo e delle dinamiche della comunicazione di massa, Stille è convinto che, in tempi di populismo, l’informazione debba ispirarsi al principio enunciato di recente dal direttore del “Washington Post”, Martin Baron: “We are not at war, we are at work”, “Non siamo in guerra, siamo al lavoro”. “Questo significa non vedere la stampa come uno strumento di guerra contro Trump, ma guardare con serietà il proprio lavoro e distinguere tra menzogne e verità, tra disinformazione e informazione”. Un errore, a suo avviso, i media lo hanno commesso: “Ritengo sbagliato correre dietro a ogni provocazione di Donald Trump. Mi è ad esempio dispiaciuto che il “New York Times”, pochi giorni fa, abbia pubblicato un intero pezzo sugli insulti da lui usati contro i suoi avversari democratici“. E in un certo senso, “questo rafforza la propaganda di personaggi come Trump. La terribile verità è che, anche reagendo alle peggiori provocazioni del Presidente, si finisce per perpetuarle, in qualche modo. Questo, secondo me, è un grosso errore commesso dai media”.
Altra questione aperta parlando di giornalismo, il ruolo dei social network. Si pensi al video di Nancy Pelosi, modificato per farla apparire ubriaca o mentalmente instabile, diffuso in rete la scorsa settimana, e ritwittato dallo stesso Presidente. “Facebook ha deciso di non eliminarlo dalla sua piattaforma, e si è giustificato dicendo di aver indicato che il video è falso, ma di aver voluto lasciare agli utenti la libertà di decidere per se stessi. La cosa terribile è che, però, anche se uno sa che quel video è stato modificato, entra nella memoria e fa un certo danno”. Ecco, per Stille, la “terribile verità di una guerra impari, tra chi cerca di rispettare le regole della buona informazione, e chi invece se ne infischia, e usa i metodi più sporchi per segnare qualche punto a proprio favore”.
I social network? Un primo bilancio è nettamente negativo, hanno creato il fenomeno Trump, il fenomeno Bolsonaro, e favoriscono le espressioni più estremiste. Dovrebbero rispettare gli stessi standard degli organi di stampa
Come uscirne? “Francamente non lo so. Le grandi piattaforme di social media hanno finalmente cominciato ad accettare di avere qualche responsabilità per i contenuti che diffondono, ma sono ancora restie a riconoscersi come organi di stampa, anche se hanno captato tutto il flusso pubblicitario dei mezzi di informazione. Mi sembra che il prossimo passo sia quello di considerarli organi di stampa, e quindi tenerli agli stessi standard che noi giornalisti siamo obbligati a rispettare”.
Ma se Facebook cominciasse a esercitare un controllo sistematico sui contenuti che ospita, non rischieremmo che tale supervisione si rovesci in censura? “Quello è un rischio, ma i social network stanno iniziando a utilizzare forme di fact-checking esterno, il che mi sembra un buon passo”. D’altra parte, per Stille qualche forma di regolamentazione è ormai necessaria. “Facebook è stato fondato nel 2004, Twitter nel 2006, e un primo bilancio è, a mio avviso, nettamente negativo: i social network sono stati un disastro. I benefici sembravano più grandi all’inizio di quanto si stanno rivelando ora. Tutti hanno osannato Facebook e Twitter nel periodo della Primavera Araba, dicendo che erano lo strumento dei deboli contro i governi autoritari: poi, però sono diventati uno strumento efficace nelle mani dei governi autoritari per identificare i dissidenti. Sono un mezzo di sorveglianza che George Orwell avrebbe potuto immaginare in 1984. Hanno prodotto il fenomeno Trump, il fenomeno Bolsonaro, favoriscono le espressioni più estremiste, più spinte, più dure, a danno dei ragionamenti più moderati”. Si pensi “al ruolo di Facebook nella persecuzione dei Rohingya in Myanmar”. O ancora, si considerino le elezioni 2016, “con l’uso di bot, di account falsi, e la diffusione di fake news da parte di governi stranieri”. “Facebook, del resto, ha ormai 2,2 miliardi di utenti: non mi dite che non ha le risorse per eliminare i contenuti più deplorevoli”.
Quanto all’incriminazione di Julian Assange per la violazione dell’Espionage Act, circostanza che per molti si profila come un evidente attacco contro il Primo Emendamento della Costituzione americana, Stille spiega: “Non ho alcuna simpatia per Assange, lo trovo una figura orribile, un uomo irresponsabile, che ha abusato della sua posizione e agito anche per ragioni politiche che non hanno nulla a che fare con l’informazione. D’altro canto”, riconosce, ”quest’ultima mossa del governo di Trump, di aggravare le accuse nei suoi confronti per aver violato l’Espionage Act, arriva molto vicino alla possibilità di usare la stessa logica per punire chi pubblica documenti classificati o informazioni trapelate da whistleblowers“. Il rischio di un attacco alla libertà di informazione, insomma, esiste e preoccupa. Soprattutto, in un mondo in cui i media sono chiamati a disinnescare le facili retoriche e le sempre più diffuse fake news, che, lo abbiamo visto, possono orientare i destini delle più solide democrazie. “Non siamo in guerra, siamo al lavoro”, è vero: ma è un lavoro, sembra leggersi tra le righe di questa conversazione, quantomai necessario per la tenuta stessa della democrazia. Da salvaguardare contro ogni attacco.