Natalia Quintavalle è una donna destinata a rimanere nella storia degli italiani d’America. La diplomatica toscana di Pietrasanta, che termina in questi giorni il mandato di console generale a New York, la città “italiana” più importante fuori d’Italia, è stata infatti la prima donna chiamata a ricoprire questo incarico. Mai Roma aveva inviato, in oltre 150 anni di rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Italia, una donna a guidare il suo più importante Consolato generale all’estero. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Proprio alla vigilia della festa dell’ 8 marzo, al Consolato su Park Avenue c’è stato un affollato ricevimento con la partecipazione della comunità italiana di New York per salutare Quintavalle, che a sua volta ha salutato tutti coloro che sono accorsi per testimoniare l’apprezzamento per il lavoro da lei svolto.
La Voce di New York, la scorsa settimana, è andata a trovare Natalia Quintavalle nel suo ufficio irradiato di luce, quella bella sala circondata da finestre in cima alla palazzina di Park Avenue che lei ha trasformato (dai sui predecessori veniva invece “sprecata” per saletta addetta alle conferenze stampa). In questa lunga intervista, in cui si affronta di tutto e di più sul lavoro di un console a New York, comprese le faccende spinose sul ruolo e funzioni degli organismi rappresentativi degli italiani all’estero, abbiamo cercato di far parlare Quintavalle con meno diplomazia, magari per farle lasciare un messaggio utile per il lavoro del suo successore, il nuovo console generale Francesco Genuardi, atteso in aprile.
Prima donna console generale a New York: cosa ha significato per la percezione dell’Italia in questa metropoli e cosa per lei a livello personale.
“Non è stata una cosa casuale, ci tengo a dirlo. E’ stata una scelta del Ministero degli Esteri che ha deciso che fosse arrivato il momento di mandare delle donne in quelle sedi che fino ad allora erano state appannaggio degli uomini. Quindi scelta voluta anche se arrivata tardissimo. E’ difficile per me distinguere il mio contributo personale da quello professionale. Perché in un Consolato le due cose spesso si mescolano. Tra gli obiettivi che mi erano stati affidati, c’era quello di dare una visibilità all’Italia come sistema. E questo obiettivo, grazie al contributo di tutto il personale del Consolato e anche delle altre istituzioni del sistema Italia, penso che più o meno siamo riusciti a centrarlo. L’Italia quindi a New York si presenta come un sistema con gruppi di persone specializzate in diversi settori ma che comunque lavorano insieme. Questo è stato forse più semplice farlo per me, che rappresentavo una novità, in quanto prima donna a New York. Ce ne sono altri di obiettivi, come il rapporto con la collettività italiana e italoamericana, che credo sia stato facilitato dal fatto di essere una donna, costituivo un motivo di curiosità e interesse, ho percepito un’attenzione che forse in passato non era stata riservata ai miei colleghi”.
La comunità istituzionale di New York si è forse accorta che, anche in Italia, le donne comincino a contare?

“Le istituzioni di New York hanno dato meno segni di sorpresa, qui sono abituati alle istituzioni di altri paesi dove le donne abbondano. La collettività italoamericana si è stupita di più e in senso positivo spero. Per mesi e mesi sono stata presentata come la prima donna console generale d’Italia a New York. Il che la dice lunga sul fatto che non sia una cosa ovvia e scontata”.
Il fatto che nello staff del suo Consolato, tra i vice consoli ci siano state sempre due donne su tre diplomatici, è solo un caso?
“Quando sono arrivata erano già qui due vice consoli donne, le mie colleghe Laura Aghilarre e Lucia Pasqualini. Sulle due vice consoli che sono arrivate dopo, Isabella Periotto e Chiara Saulle, ho ovviamente espresso un parere fortemente positivo per averle. Questo diciamo la dice un po’ lunga su come il lavoro consolare è percepito da parte del ministero degli esteri e della carriera diplomatica…”
Ancora c’è gente che fa confusione tra il lavoro di un Consolato e quello di una ambasciata…
“E’ giusto chiarire. L’ambasciata ha la funzione di rappresentare il paese a livello politico, economico anche, nei confronti del governo USA in questo caso. Quindi dialoga a Washington con la Casa Bianca e il Congresso e con tutte le strutture federali svolge un lavoro essenzialmente politico. I consolati invece prima di tutto fanno un lavoro di assistenza alla collettività. Poi sono anche proiezione dell’immagine dell’Italia. Noi nei confronti dei connazionali svolgiamo tutte le attività amministrative necessarie, siamo il sindaco, il notaio, siamo l’ufficiale di stato civile. E poi forniamo assistenza. Assistenza ai connazionali residenti, che significa che come primo interlocutore questi hanno gli americani. Infatti il grosso del nostro lavoro di assistenza è a favore di tutti quegli italiani di passaggio da New York, che hanno bisogno delle cose più varie. Dall’assistenza quando hanno incidenti…”
Quando si cacciano nei guai…
“Certo, anche quando si mettono nei guai con la giustizia. Che accade anche per ‘crimini’ minori però succede e con una certa frequenza. Quindi c’è tutto questo altro mondo dell’assistenza che vien fatto dai consolati e con particolare dedizione, con poche persone. Il Consolato ha uno staff che si occupa di tutto. Poi c’è ovviamente la parte di servizi che noi siamo tenuti a fare nei confronti degli stranieri che si recano in Italia, per i visti”.
E le risorse? Bastano al Consolato italiano più importante nel mondo? Sono adeguate o devono essere aggiornate?
“Noi siamo sempre bisognosi di avere più risorse. Questo perché i bisogni della collettività residente e non, e i bisogni di rappresentanza dell’Italia all’estero sono crescenti. Non voglio entrare nella polemica più risorse ai consolati in America, o in Australia o chissà dove piuttosto che in Europa. Si va verso una situazione, sempre che l’Europa mantenga il suo cammino di integrazione, in cui effettivamente nei paesi europei diminuisce o perlomeno cambia il ruolo dei consolati. Certo che a New York io avrei voluto avere più risorse umane, ma anche più risorse finanziarie per fare alcune cose che non ho potuto fare o non ho potuto fare bene con le risorse esistenti. E’ vero, siamo sempre in fase di spending review e quindi… Ma c’è un altro problema secondo me che dovrebbe essere risolto e su cui bisognerà che il ministero degli Esteri investa. Ed è l’informatizzazione, in particolare la digitalizzazione degli archivi. Noi abbiamo una grossissima difficoltà per continuare a servire una collettività cresciuta di numero ma soprattutto mobile, che va e viene, con i mezzi ancora del fascicolo conservato in un archivio che resta in condizioni veramente difficili da gestire. Quindi quando dico che vorrei più risorse non lo dico perché vorrei più persone, ma vorrei avere degli strumenti per poter migliorare e anche rendere sufficienti le persone che ci sono e che adesso lavorano tantissimo e lavorano molto di più di quanto sarebbe richiesto se ci fossero invece mezzi informatici adeguati”.
In cima alla lista del rapporto che farà alla Farnesina prima della sua partenza, cosa metterà come consiglio utile per il prossimo console generale?
“Il rapporto non l’ho ancora scritto ma posso confermare che scriverò proprio quello che ho appena detto. Il problema principale è la informatizzazione degli archivi del Consolato”.
Magari anche per servire meglio il voto all’estero…
“Questo è il punto. Come sapete, ce ne sarà uno molto presto. Per evitare che ci siano di nuovo dei numeri ridicoli, è assolutamente indispensabile che tutto questo passi per un sistema informativo e informatizzato integrato”.
Lei durante il suo mandato ha dovuto fare anche le veci del direttore dell’Istituto di Cultura. Su questo giornale abbiamo scritto che era scandaloso che perdessero tutto questo tempo per decidersi sulla scelta del nuovo direttore…

“Indubbiamente bisogna stare attenti ed evitare che un settore importante, come la cultura, sia lasciato, diciamo così, ecco lasciato al caso, o alla presenza di una persona invece di un’altra. Bisogna veramente lavorare molto sul tipo di organizzazione e sulla presenza culturale all’estero. Io credo che, malgrado tutto, l’Italia abbia e conservi il ruolo, come dite voi di VNY, di “rappresentante della bellezza”. Indubbiamente è un ruolo difficile da scalfire in profondità, questa idea della cultura italiana che si ha, soprattutto negli Stati Uniti, e qui a New York si ha tanta cultura italiana. Bisogna proprio mettersi di impegno prima di poter far male alla cultura italiana. Detto questo si può e si deve fare molto meglio. C’è anche un discorso complicato, ma molto interessante, da fare sugli istituti di cultura, perché qualcuno ne mette in dubbio perfino l’idea che debbano esistere, che siano delle duplicazioni di altre strutture. Io credo invece che abbiano un ruolo, fondamentale, quello di presidiare la cultura italiana in un posto cercando di valorizzare tutto quello che di italiano si fa. Naturalmente ci saranno alcuni direttori che saranno interessati più ad alcuni aspetti invece di altri per loro vocazione. Però, in generale, l’Istituto italiano di cultura non deve inventarsi chissà cosa, mega esposizioni d’arte, o concerti ecc. perché non ci sono né le risorse finanziarie né quelle umane. Però quello che può fare è partecipare e sostenere altri eventi”.
Appoggiare eventi ideati da altri?
“Quando io ero alla guida dell’istituto, e non ero sola perché l’ho fatto sempre accompagnata dal vice console Roberto Frangione, il mio numero due che mi ha dato veramente una grandissima mano, ma anche tutto il personale dell’Istituto. Lo abbiamo fatto con il Guggenheim, appoggiandoci ad alcune iniziative loro, lo abbiamo fatto con altri istituti, con il Met, e poi anche con le associazioni culturali italiane che già fanno degli eventi in via del tutto privata, però se sono delle cose belle…”
Stiamo parlando di Casa Italiana NYU, Calandra Institute della CUNY, Italian Academy Columbia University…
“Sì, e includerei anche il CIMA (Center for Italian Modern Art), iniziativa molto originale”.
E il nuovo Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Giorgio Van Straten, si sta dimostrando la persona adatta per poter seguire questa impostazione?
“Van Straten ha delle caratteristiche secondo me ideali per esser qui ora. Noi abbiamo rimesso un po’ a posto tutta la parte amministrativa e burocratica, e anche il building. Io sono veramente felicissima di aver riaperto e ricostituito la biblioteca che era andata dispersa. Van Straten arriva in una situazione decisamente migliorata e lo dico senza falsa modestia rispetto a quando l’ho presa io e ora sta lavorando in quella direzione per garantire che l’Istituto resti sano nella gestione amministrativa e burocratica. Ovviamente Van Straten sta aggiungendo tutta la sua esperienza in campo culturale”.
Lei ha detto che il console deve essere un capitano di una squadra. In questo caso la squadra che dovrebbe rappresentare a New York il sistema paese, la cultura e non solo. Ma poi succede che, per esempio, si vede chiudere la prestigiosa sede di rappresentanza dell’ENIT. Si capisce che in tempi di tagli ai costi, quell’ufficio per la promozione del turismo fosse troppo caro, ma si è avuta l’impressione di un ridimensionamento esagerato. Non solo perché adesso è dentro l’Istituto di cultura, ma perché non ha neanche più un direttore in sede. Un passaggio un po’ rude. Un detto siciliano dice: ci voli ‘u ventu in chiesa, ma no astutari li cannili! (Bene il vento in chiesa, ma non spegnere le candele…)
“Guardi, quando io sono arrivata a New York, era sul tavolo la chiusura dell’ICE“.

L’ICE?
“Si proprio la chiusura della sede dell’Istituto del commercio estero. Dovevano vendere la sede, doveva essere chiuso. Io, quando mi è stato chiesto, ho sempre detto che l’ICE ha una sua funzione. Ora, non hanno deciso ovviamente di mantenerlo perché l’ho detto io, ma a Roma hanno fatto una valutazione e alla fine non solo l’ICE non è stato chiuso ma è stato potenziato. Nel frattempo si è trasformato da istituto ad agenzia e lo stesso tipo di percorso che sta facendo l’ENIT, che è stato trasformato da istituto ad agenzia. Nel fare questa operazione sull’ICE sono state investite parecchie risorse finanziarie, mentre sull’ENIT, arrivato successivamente a questa fase, è ancora tutto in via di definizione. Non è detto che io condivida le strategia romane però sono quelle e prevedono che ci sia una ristrutturazione anche dell’ENIT e non è un caso che stia ora dentro l’Istituto di cultura. Questa è un’operazione che abbiamo fatto con l’allora direttore Eugenio Magnani perché dal ministero c’era l’indicazione chiara che l’ENIT, dove era, costava troppo. Sappiamo bene quali siano i prezzi degli affitti a Manhattan e specialmente al Rockfeller Center. Quindi all’Istituto di cultura sono stati fatti dei lavori e questo ha migliorato la situazione del’Istituto. Secondo me l’idea di avere l’ENIT dentro l’Istituto funziona. Hanno a disposizione sia la sala dell’Istituto per fare eventi che anche qui nel Consolato. Dal punto dell’immagine funziona. Il problema è che in questa fase di transizione è stato deciso di richiamare tutti i direttori dell’ENIT dalle varie sedi, e che quindi la gestione venga fatta centralizzata da Roma. Nel frattempo Eugenio Magnani è andato in pensione, la situazione adesso è quindi ancora…”
Fluida?
“Debole, diciamo almeno dal punto di vista dell’organizzazione. Io sono convinta che il trasferimento, una volta trovato il mondo di gestirlo in modo intelligente, sia positivo. Anche perché l’ENIT è stato collegato molto più al ministero della Cultura – si chiama infatti dei beni culturali e turismo – e quindi in linea col ministero di Franceschini è normale che stia dentro l’istituto di cultura. A questo vorrei aggiungere, e ci tengo a dirlo, che il personale dell’ENIT è una squadra molto in gamba, pur senza un direttore e stanno collaborando con l’Istituto e con noi in modo impeccabile. Quindi il problema non è New York. Il problema è che devono prendere delle decisioni a Roma”.
Quando lei era da poco arrivata a New York, facemmo un’intervista sull’Europa. C’era la crisi dell’euro allora… Ora si aggiunge la crisi dei migranti. Da un console generale italiano le difficoltà di credibilità dell’Europa come sono vissute? Cosa l’Europa deve fare per cambiare la narrativa che ha perso credibilità in America e nel mondo?
“Si allora c’era la crisi dell’euro e tutti mettevano in dubbio il fatto che la Grecia potesse rimanere nella Unione Europea. Altri mettevano in dubbio la capacità di Portogallo, Spagna e anche Italia di continuare a far parte del sistema e di porre problemi alla integrazione europea… Adesso abbiamo la crisi del Brexit, su cosa farà la Gran Bretagna, e parlandone con il ministro Paolo Gentiloni recentemente sembrano più i vantaggi per restare tutti in Europa, quindi abbiamo una certa fiducia. Però è vero, l’immagine che l’Europa ha negli Stati Uniti è pessima. Direi quasi inesistente, nel senso che non rientra nell’idea che sia un attore sul piano internazionale e questo vale a livello economico e anche a livello politico. Certo la consapevolezza a Washington, e qui ne potrebbe parlare l’ambasciatore, è diversa dalla consapevolezza che si ha qui a New York”.

“Già ne parlerà lui con Obama. Per quanto riguarda invece New York, è un problema. Gli americani vogliono parlare con l’Italia, la Spagna, la Francia, GB, ma non vogliono parlare con l’Unione Europea. Questo è colpa un po’ della chiusura americana di fronte all’idea che ci possa essere un’integrazione del continente europeo. E quindi della volontà di mantenere i rapporti diretti con gli stati. Ma è colpa in gran parte anche nostra, cioè della nostra incapacità di comunicare che l’Unione Europea è una realtà forte che incide su tutti i piani della nostra vita come cittadini europei. Quindi quest’idea noi non siamo stati capaci finora di comunicarla agli americani e farla entrare nella loro testa”.
Qui al Consolato italiano mettete la bandiera dell’Europa. Negli altri Consolati?
“Tutti i consolati dei paesi appartenenti all’UE devono far sventolare fuori la bandiera europea”.
Il Ministro degli Affari Esteri Gentiloni ha detto al Council on Foreign Relations che, anche se le regole dovranno essere rispettate da tutti, ci saranno più “Europe” che si muoveranno a diverse velocità. Con tutte le difficoltà dell’Europa viste sui migranti, come si fa ad essere ancora ottimisti riguardo alla possibilità di un’Europa unita? Bisogna iniziare a pensare a soluzioni diverse?
“Sono convinta che l’ideale rimanga come sottofondo di tutto il nostro processo di integrazione. Il Ministro Gentiloni ha detto secondo me una cosa molto importante: proprio perché si tratta di una realtà estremamente composita ormai, anche in termini di normativa, che esiste e incide sulla vita di tutti gli Europei, l’Unione Europea deve sapersi articolare con diversi gradi di integrazione. Ma non fatti, per il singolo stato, quello che lui contestava sul Brexit e sulla questione U.K. è proprio questo. Ci sono all’interno dei 28 una serie di stati che sono pronti (nucleo originario Italia, Francia, Germania ecc. con altri paesi, come la Spagna) ad avere diversi livelli di normativa comune, e con normativa intendo tutto, politica, difesa, economia ecc. Ci sono diverse possibilità. Gli ultimi arrivati avranno sicuramente più difficoltà, sebbene abbiano accolto tutta la normativa, e quindi tempi diversi di adattamento. È normale che ci siano vari tipi di gruppi su problemi specifici. L’importante è che ognuno poi non si negozi il suo particolare rapporto con l’Europa”.
E questa cosa gli americani la capiscono? Sanno che l’Europa una strategia ce l’ha? Ma esiste veramente una strategia condivisa per uscire dalla crisi?
“Secondo me la strategia c’è, va messa in atto sul piano pratico. La risposta alla domanda è non ancora, cioè gli americani non hanno ancora chiara questa cosa. Va detto che l’Unione Europea è una macchina complicatissima. Alle Nazioni Unite i coordinamenti comunitari che mi sono sorbita per otto anni prima a Ginevra e poi a New York, erano sempre su questa cosa. Se non ce l’abbiamo chiaro noi, è ovvio che non ce l’hanno chiaro nemmeno gli Stati Uniti”.
Tornando alla comunità italiana, al console che arriverà, nel rapporto “segreto” che scriverà per lui cosa c’è scritto nei primi due o tre punti? Dove stare attenti e come rapportarsi con la comunità? E anche se non si dovrebbe dire, le comunità italiane sono diverse, quella degli italiani arrivati più recentemente e quella degli italiani che hanno lasciato l’Italia di tanti anni fa… Ecco qualche consiglio per il nuovo console generale Francesco Genuardi?
“Allora secondo me ci sono due strade fondamentali da privilegiare su tutti gli altri percorsi: una è quella di avere uno stretto rapporto con i giovani e le associazioni di giovani italiani di New York che sono tante e che sono anche inserite in mestieri, gruppi chiave per la vita della città stessa di New York (associazioni di avvocati, gli ex alunni Bocconi, professionisti ecc). Le mie giovani colleghe Isabella Periotto e Chiara Saulle hanno creato questo programma Giovani, che effettivamente sta cercando di catturare l’interesse dei giovani per far sì che loro ci portino nuove idee perché fanno una vita che li mette in contatto anche con gli italiani arrivati qui da più tempo, così come con gli italoamericani, le generazioni arrivate molto tempo fa. Un giovane di seconda e terza generazione ha avuto a disposizione gli stessi strumenti di un italiano venuto qui recentemente (social network, lavoro online ecc). Catturare i giovani sia italiani che italoamericani è un modo per superare questa antica dicotomia tra le associazioni. L’altra cosa importante è che ci sono persone un po’ più anziane che hanno due mondi difficili da conciliare come i rappresentanti eletti dalla collettività da una parte (CGIE e COMITES) e dall’altra le associazioni, che hanno vissuto due vite separate. Ho cercato di avvicinarle il più possibile. Ci siamo riusciti? Non ancora, perché hanno avuto una formazione e una vita completamente diversa perché non c’erano gli stessi strumenti che ci sono oggi. Però vedo un avvicinarsi delle associazioni italoamericane all’Italia com’è adesso, a quell’Italia degli italiani arrivati da meno tempo”.
Magari la promozione della lingua italiana contribuisce a questo riavvicinamento come momento di unione?
“Noi abbiamo investito tantissime energie in questo progetto che sta dando i suoi frutti perché c’è un numero crescente di persone desiderose di imparare l’italiano, di andare in Italia, fare studi di italiano (anche commerciali). Ovviamente bisogna essere in grado, e qui torno alla politica culturale italiana, di rispondere a una domanda sempre crescente e questo si può fare in vari modi, investendo maggiori risorse finanziarie e personali però attraverso strumenti che già abbiamo come l’Istituto di Cultura, lo IACE guidato da Bernardo Paradiso, le varie associazioni, ma soprattutto anche nei rapporti accademici tra l’Italia e gli Stati Uniti. Le associazioni prima citate, Casa Italiana Zerilli-Marimò, il Calandra Institute e l’Italian Academy sono veicoli importanti. Al mio successore dirò di tenersi assolutamente in stretto contatto con loro”.
Ha citato CGIE e COMITES: servono ancora? Quale eliminare?
“È difficile. La distinzione non va fatta tanto tra COMITES e CGIE, quanto piuttosto tra CGIE e COMITES da una parte e parlamentari eletti all’estero dall’altra. C’era un ruolo definito per COMITES e CGIE che deve sicuramente cambiare perché così com’era stato concepito, non è adatto ai tempi attuali. C’è stato il rinnovo dei COMITES l’anno scorso, portando un rinnovamento in alcune aree, in altre un po’ meno, ma vedremo cosa riusciranno i nuovi a produrre rispetto al passato. La normativa dev’essere comunque modificata. Sui parlamentari ne abbiamo discusso anche dal punto di vista filosofico, di coloro che vivono all’estero. Io ho contatti con i tre parlamentari eletti in Nord America e con le differenze che li contraddistinguono credo che…”
Ma con la nuova riforma costituzionale del Senato, non dovrebbe sparire un rappresentante?
“Bisogna valutare come la componente estera verrà ricomposta nel modo e nelle attività del Senato. Intanto le due deputate che abbiamo (Fucsia Nissoli e Francesca La Marca, ndr) mi sembrano molto attive…”
Proprio in questi giorni stanno modificando la legge per i finanziamenti della stampa italiana all’estero. Che ne pensa? Consigli su che tipo di aiuto da Roma si dovrebbe ancora ricevere? Rispetto al passato cosa dovrebbe cambiare?
“Roma dovrebbero privilegiare un sostegno a chi usa mezzi innovativi di comunicazione. La carta stampata comunque rimane e continua ad avere un suo interesse, ma maggiori aiuti dovrebbero essere indirizzati a sostegno delle attività on line, a delle attività che hanno una fruizione più immediata, e che si rivolge anche ad un pubblico un po’ diverso, e che dovremmo considerare non solo il sostegno all’informazione in lingua italiana ma anche il sostegno in lingua inglese, laddove questo viene fatto per far conoscere e promuovere quello che si fa in Italia nei confronti…”
Fondi per pubblicazioni che non utilizzano la lingua italiana?
“Sì, pubblicazioni che magari sono italiane e anche italoamericane ma usano la lingua inglese per coloro che non parlano l’italiano. Lo devono imparare, per carità e noi insisteremo perché lo imparino, però nel frattempo se sono informati anche in inglese questo aiuta. Queste cose che noi stiamo dicendo da un po’ di tempo stanno filtrando. Però non so fino a che punto”.

Tornerà a Roma e avrà altri incarichi importanti. Ma a New York ci ha vissuto tanto tempo, non solo da console ma anche come diplomatica della missione all’ONU. Si sente forse una New Yorker?
“Il rapporto con la città rimane e io mi sento una vera New Yorker. Ne ho sperimentati diversi aspetti e mi sento completamente integrata. Spero quindi che non finisca qui il mio rapporto con New York. Poi lascio mia figlia qui e tornerò per visitarla. Non so ancora cosa farà quando finirà gli studi alla NYU, ma immagino si concentrerà su questa parte dell’oceano e quindi tornerò. Si scherza molto su i New Yorker che si sentono the best nel mondo, e tutti quelli che dicono che sia molto meglio stare a New York che a Washington. Io sono convinta di sì. Obama sarà più importante di De Blasio e Cuomo, l’ambasciatore Bisogniero era più importante di Quintavalle, e il nuovo ambasciatore Varricchio sarà più importante del nuovo console Genuardi, eppure…”
Quando il presidente Sergio Mattarella era a Washington non ha detto “I ‘m a Washingtonian” ma quando è venuto a New York, ha detto “I’m a New Yorker!’.
“Esatto! Se a New York si sentono tutti the best un motivo c’è. Questa città e incredibile, è un posto dove si possono fare delle cose meravigliose con più facilità che in tante altre parti del mondo. Quindi riconosco che fare l’ambasciatore a Washington e più importante ma fare il console generale a New York è più, come dire…”
Più cool?
“Molto più cool!“.
Come console generale ha un po’ battuto tutti i record, in quattro anni ha rappresentato quattro governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) e due presidenti (Napolitano, Mattarella). Che difficoltà si incontrano con tutti questi cambiamenti?
“E’ più difficile per chi sta a Washington. Per noi che siamo a New York, che dobbiamo assicurare certi servizi e dare continuità viene più facile”.
Il premier Matteo Renzi ha detto che per un euro speso nelle armi ci vuole un euro speso nella cultura…
“Sacrosanto!”.
Terminiamo questa lunga intervista con la visita di Mattarella: come crede che la comunità italiana di New York abbia accolto il primo presidente siciliano della Repubblica italiana? Il presidente è apparso un po’ timido, riservato… E lui, il presidente, come ha reagito a questa accoglienza?
“L’evento al Guggenheim, molto bello e molto affollato, è stato offerto dalle associazioni italoamericane. Sono state loro che hanno voluto invitare il presidente della Repubblica all’incontro con la collettività. Erano sette: la NIAF, Columbus, NOIWA, OSIA, la Italy America Chamber of Commerce, l’ASILM (i decorati dell’ordine al merito della Repubblica) e poi c’era Joe Sciame che è il presidente della Conferenza delle associazioni italoamericane. Sono quelle che avevano anche più disponibilità in termini finanziari e che hanno voluto fare questo gesto di invitare loro il presidente. Noi abbiamo aiutato ma l’evento era organizzato da loro. Questo la dice lunga sul tipo di rapporto che la comunità italoamericana si aspetta da questo presidente. Lui ha dei modo pacati, poi a tu per tu è anche una persona più vivace di quello che appare in pubblico”.
Mattarella ha incontrato a City Hall il sindaco Bill de Blasio, ha visitato Ellis Island, il museo del 9-11… Ha colto qualche emozione particolare di Mattarella nell’essere a New York da presidente, nella città “italiana” più importante all’estero?
“Sì, e per averglielo anche sentito dire. Lui ha veramente apprezzato tantissimo il fatto che fosse stato un invito della comunità il momento clou della sua presenza. E’ rimasto molto colpito dal museo 9-11, da Ellis Island, dal sindaco De Blasio che lo ha accolto in modo solenne. Anche il fatto che il governatore Andrew Cuomo abbia partecipato poi all’incontro con la comunità. Credo che non potesse andare meglio di così. Questa a New York era una tappa di un viaggio molto più complesso, in cui prima Mattarella aveva parlato con il presidente Obama e poi ha avuto una coda molto significativa, la tappa di Houston dove ha incontrato il mondo della tecnologia e i giovani italiani presente lì. La mia valutazione quindi non è solo su New York ma nella visita nel suo complesso e credo che non potesse andare meglio”.
Voleva aggiungere qualcosa a questa lunga conversazione nel salutare gli italiani di New York?
“Siamo partiti dalle donne nel Consolato, e mi piace che anche il presidente Mattarella abbia citato la questione delle donne italiane e italoamericane. Ecco io credo veramente che non sia tanto importante se ci sia un console donna a New York, ma che ci sia una collettività italiana e italoamericana composta da donne intelligenti che hanno veramente dato l’impronta dell’italianità a questa città, più di quanto abbiano fatto gli uomini secondo me”.