Il dibattito politico che quotidianamente si svolge in Italia, per i toni alti e le posizioni pregiudiziali che spesso lo caratterizzano, fanno passare forse in secondo piano, agli occhi dei più, lo sforzo di rinnovamento che le forze di maggioranza e di governo stanno cercando di compiere. Sia nelle politiche di settore, come ad esempio quelle fiscali, per il lavoro e per l’internazionalizzazione del sistema produttivo, che per l’assetto istituzionale disegnato nella seconda parte della Costituzione.
Al di là dei provvedimenti formali, c’è una riforma materiale delle politiche di governo che deriva dallo stesso modo di governare e dal ritmo delle decisioni. Su questo piano credo che nemmeno i più convinti avversari di Renzi possano contestargli, a prescindere dalle valutazioni di merito, la velocità e la determinazione delle decisioni, che hanno una puntuale ricaduta nella produttività del lavoro parlamentare, insolitamente elevata in un sistema rigido come quello italiano.
Vorrei fermarmi su questa che è stata giustamente definita la “madre di tutte le riforme”, vale a dire la modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione, che ha alcuni risvolti non secondari sulla rappresentanza degli italiani all’estero. È passata appena qualche settimana dal passaggio più delicato, vale a dire il via libera del Senato, dove i numeri, per così dire, sono contati, e tra non molto ci sarà l’approvazione della Camera, che ormai appare scontata. Dopo di che vi sarà il referendum confermativo, probabilmente ad ottobre, al cui esito lo stesso Renzi ha legato la sopravvivenza del Governo e la prosecuzione della legislatura.
Purtroppo, la tensione tra i partiti sta fortemente politicizzando il referendum, nel senso che dalle opposizioni esterne ed in alcuni casi interne alla stessa maggioranza esso è considerato come l’occasione di una resa dei conti nei confronti del Governo e della linea politica perseguita da Renzi. E questo è un vero peccato perché si rischia di mettere in second’ordine le scelte strategiche che motivano la riforma e le implicazioni che ne discendono. Il nocciolo della questione è la semplificazione del sistema istituzionale italiano, l’accelerazione delle procedure di formazione delle leggi, il ridimensionamento quantitativo del personale politico, il contenimento dei costi della politica. Naturalmente, è legittimo discutere delle modalità da seguire per raggiungere questi obiettivi, ma credo che nessuno che abbia un po’ di senso civico possa dubitare che il sistema istituzionale e amministrativo italiano è pesantemente cristallizzato e perciò lento e poco efficiente, oltre che poco sostenibile per le attuali capacità finanziarie del Paese.
Rendere l’Italia più semplice, più veloce, più sobria, più capace di competere nel confronto globale non è una scelta politica di una parte o di una maggioranza, ma una necessità generale e improrogabile. Dotarsi di strumenti più incisivi e competitivi è la prima lezione che dovremmo avere appreso dalla grave crisi di questi ultimi anni, per altro non ancora del tutto superata. Se non si vogliono lasciare per strada i buoni propositi maturati nei momenti difficili, la prima cosa da fare è superare il bicameralismo paritario che raddoppia i tempi di formazione delle leggi e di assunzione delle decisioni. Si tratta, poi, di tagliare una fetta consistente degli attuali mille parlamentari, che sono obiettivamente un fattore di ramificazione della mediazione politico-parlamentare e un aggravamento dei costi della politica, che ingrassano le fortune dei movimenti populistici. Nello stesso tempo, l’eliminazione delle Province e una maggiore sobrietà nelle prassi di spesa delle Regioni rappresentano corollari coerenti dell’impegno di semplificazione e di contenimento della spesa.
La rappresentanza parlamentare degli italiani all’estero, naturalmente, subisce una proporzionale riduzione (un terzo) rispetto al numero dei parlamentari, dal momento che scompare dal nuovo Senato delle Regioni, ma ad essa vengono riconosciute piene prerogative nella nuova Camera, che elegge il Governo e adotta le leggi fondamentali dello Stato. Questa scelta da un lato costituisce un riconoscimento importante, non scontato, per la cittadinanza degli italiani all’estero, dall’altro apre un cantiere di ulteriore riforma per le altre istanza di rappresentanza, vale a dire dei COMITES e del CGIE.
È certamente il caso di interrogarsi sul rilancio e sulle nuove funzioni che questi organismi devono avere, in coordinamento con la rappresentanza parlamentare. Questo percorso non può essere compiuto che con il metodo del coinvolgimento e del dialogo. Non credo che si possa pensare ad una riforma calata dall’alto, che comporti uno scioglimento di questi organismi, appena ricostituiti dopo una stasi di oltre dieci anni, dopo l’approvazione di una nuova legge. L’esperienza ci dice che quando si tratta di cambiare è bene non incamminarsi in strade solitarie e cercare piuttosto confronto e consenso più ampi possibile.
Sono Francesca La Marca, nata in Canada, a Toronto, da tre anni deputata della Repubblica italiana in rappresentanza degli italiani residenti in Nord e Centro America. In precedenza, docente universitaria di lingua e letteratura francese, da sempre appassionata di lingue e poesia, cultura e politica italiana. Adoro gli animali e la natura. Credo che il futuro e il benessere dell’Italia siano anche in mano agli italiani all’estero. Alla Camera dei Deputati: Gruppo PD, III Commissione (Affari esteri e comunitari), Comitato permanente sugli italiani nel mondo e la promozione del sistema paese