Non è solo un trasloco, è anche un esame di coscienza quello che è avvenuto, sta avvenendo e, a quanto pare, avverrà con l’inaugurazione del nuovo museo su Madison Avenue, all’altezza di 75th Street che aprirà al pubblico il 18 marzo. Parlo naturalmente del cosiddetto Met Breuer, l’edificio occupato per cinquantadue anni dal museo Whitney di arte americana, abbandonato dal Whitney stesso qualche mese fa e di cui si è astutamente impossessato il venerabile Metropolitan Museum of Art per istallarci le sue collezioni di arte moderna e contemporanea.
Il Whitney si è trasferito intanto in un gigantesco edificio creato da Renzo Piano nel quartiere di Chelsea dove è situata oggi la maggior parte delle gallerie d’avanguardia, ufficialmente per ragioni di spazio ma anche per ragioni commerciali concernenti discutibili rapporti con le gallerie suddette e il sempre più stratosferico valore dell’arte contemporanea.
Ho parlato di esame di coscienza: innanzitutto per quanto riguarda l’edificio di Marcel Breuer, quella specie di immensa massiccia casamatta di granito nero che occhieggia isolata e sospettosa nella parte più movimentata di Madison Avenue attraverso oculi trapezoidali simili a quelli di un bunker. Chi c’era all’apertura nel 1966 ricorderà la derisione con cui fu accolta quella costruzione dalla maggior parte dei critici americani. Adesso, quasi da una settimana all’altra, se ne parla come di uno degli edifici più “iconici” dell’architettura americana, esemplare di una nuova corrente “brutalista” servita di ispirazione per intere successive generazioni di architetti, incluso lo stesso Renzo Piano.
Ma è anche un esame di coscienza relativo a quali debbano essere i valori veramente essenziali di un museo d’arte moderna, valori che, come ha promesso il direttore del Metropolitan, lo stimatissimo Thomas P. Campbell in una conferenza stampa che ha tenuto davanti a una straripante folla di autorità, giornalisti e artisti, saranno espressi in ciò che d’ora in poi troverà luogo tra le pareti del nuovo museo. La stessa assicurazione ha dato la successiva oratrice, la chairwoman della sezione arte moderna e contemporanea Sheena Wagstaff, che ha definito “esilarante” il momento attuale nella vita del Met. I buoni propositi sono certamente ben esemplificati nelle mostre e altre attività con cui il neonato Met Breuer sta per rivelarsi al pubblico.

Su due piani dell’edificio del Met Breuer sta aprendosi una mostra intitolata Unfinished Thoughts Left Visible, ossia idee non finite ma lasciate in vista; sono in parte opere tratte dalle collezioni permanenti del Metropolitan, molte delle quali erno state raramente esposte nella sede principale della Fifth Avenue; e in parte opere date in prestito da altri musei su un piano mondiale. Il tutto per ricoprire un arco di almeno sei secoli di storia. Sono dipinti, sculture e infine pezzi di installation art che hanno come comun denominatore quello di non essere state finite, o per ragioni pratiche, o deliberatamente come gesto espressivo. Esse vanno da una incompleta ma stupenda testa di donna di Leonardo da Vinci – La Scapigliata – a innumerevoli tele incompiute di Rembrandt, Turner, Cézanne, Rodin, Picasso, Cy Twombly, fino a spettacolosi contrasti tra materiali e tra oggetti della realtà quotidiana in opere e istallazioni di Janine Antoni, Lygia Clark, Jackson Pollock, Robert Rauschenberg e innumerevoli altri, per un totale di quasi duecento opere. Tutto questo allo scopo di sollecitare risposte a questi interrogativi: quand’è che un’opera d’arte si può dire veramente “compiuta”? Che latitudine ha l’artista nel decidere dove fermarsi? In quali periodi dell’arte questo argomento è stato sollevato più deliberatamente?
Nelle intenzioni del direttore Thomas Campbell e dei suoi collaboratori, è questo il tipo di ricerca “tematica” cui si inspireranno altre future mostre nelle nuove gallerie a disposizione del museo. Ma l’innovazione stimolata dall’accresciuta disponibilità di spazio non finisce a questo punto e si rivolge ad altri artisti, in ogni parte del mondo, con una sensibilità geografica dettata anche dal momento attuale.

Così su un altro piano del museo appare in questo momento una retrospettiva dell’opera di Nasreen Mohamedi, l’artista indiana che in una esistenza breve (1937-1990) ha esplorato le possibilità espressive di una coniugazione tra gli arabeschi elaborati da una particolare tradizione etnica e le geometrie su cui si articola molta dell’arte astratta occidentale.
In un ambiente a pianterreno si terranno intanto quotidianamente, dal 18 al 30 marzo, concerti di un complesso diretto dal giovane jazzista e musicista elettronico americano Vijai Iyer dal titolo A Cosmic Rhythm with every stroke; mentre a fine mese ci sarà la prima mondiale dell’opera Klang di Karlheinz Stockhausen. In totale, un bel viaggio di iniziative e di idee da quando il Metropolitan Museum, nemmeno molti decenni fa, rimandava al mittente le opere degli artisti moderni perché in contrasto con la missione classicista proposta dai suoi fondatori.
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