Viene da Mosca e si è insediato da appena due settimane nella sede dell’Italian Trade Commission (o Istituto per il Commercio Estero, ICE) di 67th Street. In occasione delle celebrazioni per la Festa della Repubblica, il nuovo trade commissioner Maurizio Forte si è presentato ufficialmente alla comunità italiana di New York. Forte, che sostituisce Pier Paolo Celeste, in carica dall’aprile 2013, prima di Mosca aveva diretto per nove anni la sede di Shanghai.
A New York martedì mattina ha spiegato agli ospiti dell’ICE l’importanza del mercato americano per la sua agenzia e per l’Italia in genere e ha sottolineato come il crescente amore degli americani per l’Italia sia un terreno fertile su cui costruire una sempre più solida partnership economica. La VOCE di New York ha avuto occasione di parlare con Forte di strategie, continuità e delle particolarità del mercato americano. “Credo che – ci ha detto – dopo Cina e Russia, a New York troverò più somiglianza culturale e il modo di lavorare e di sentire l’Italia saranno più vicini al nostro. Mi sembra che qui il nostro paese sia molto conosciuto e che ci sia molto amore per l’italia: non dovremo spiegare cos’è l’olio d’oliva o che la pasta va cucinata al dente. Sono esempi banali, ma in alcuni paesi si deve davvero partire da zero. Invece qui credo che partiremo da una base molto solida”.
Intanto ben arrivato a New York. Con che idea arriva? Su cosa ritiene si debba puntare per promuovere l’Italia negli USA?
“Più che con quale idea arrivo io, che è importante ma non così determinante, è importante invece quale idea ha il nostro Paese. Per quanto riguarda gli USA il nostro Governo, a partire dal nostro presidente del Consiglio, il ministro dello Sviluppo economico, il viceministro dello Sviluppo economico e noi dell’ICE, che è un’agenzia tecnica, siamo convinti più che mai che gli Stati Uniti non siano soltanto un partner importante, il che sembra quasi ovvio, ma anche che siano forse il Paese con il più grosso potenziale di crescita, sia per quanto riguarda i beni strumentali ma anche e soprattuto per i beni di consumo, con agroalimentare, arredo e moda in testa. Anche grazie a una congiuntura economica positiva, al dollaro forte e al fatto che questo mercato è molto segmentato e quindi c’è spazio anche per tante piccole aziende italiane che fanno prodotti eccezionali anche se in piccola quantità, siamo convinti che ci sia molto potenziale. E lo è per primo il Governo italiano che sta investendo fondi come non mai su questo mercato”.
Venendo da due paesi con un passato comunista e arrivando in un paese che è l’emblema del liberismo, da un punto di vista strettamente economico, in che modo l’Italia si relaziona a due sistemi così diversi e come cambia il modo di lavorare per voi dell’ICE?
“Sia la Cina contemporanea che la Russia di questi anni hanno in realtà tratti molto elevati di capitalismo, di consumismo e apertura verso il mondo esterno. Shanghai e Mosca sono oggi templi del lusso. Pensare siano stati luoghi in cui ha trionfato il comunismo sembra quasi impossibile perché oggi ci si trovano il lusso più sfrenato, i più grandi brand internazionali, ristorazione e alberghi di alto livello. Entrambi i Paesi hanno quasi completamente abbandonato un approccio di tipo comunista all’economia. La Cina conserva un forte atteggiamento di pianificazione e programmazione, il che secondo me per loro è un bene perché per un paese così grande e ambizioso è importante pianificare. In Russia oggi c’è totale libertà d’impresa, non c’è più alcun tipo di retaggio comunista se non per una burocrazia un po’ invadente. In questi paesi abbiamo lavorato molto per promuovere il made in Italy come si fa nel resto mondo, cioè non dovendo superare restrizioni di tipo politico o psicologico. Anzi, in questi paesi mi hanno spesso detto: ‘Veniamo da decenni così difficili che adesso stiamo scoprendo il mondo e vogliamo tutto e vogliamo il meglio dell’italia’. Però non sempre il sistema di business era strutturato bene. Per esempio, sia in Cina che, almeno in parte, in Russia c’è una fortissima carenza del sistema distributivo del made in Italy, perché sono prodotti nuovi, non sanno ancora come distribuirli, non investono nella distribuzione, hanno paura di rimanere con scorte non vendute e questo era per noi un grandissimo problema. Per questo non siamo ancora riusciti ad avere risultati numerici adeguati alla potenza di quei paesi. Viceversa qui si capisce che siamo in un sistema altamente strutturato. Il terreno è fertilissimo, bisogna saper seminare e sapere quando seminare, poi penso che il raccolto sia quasi automatico, magari non semplice ma automatico. Questa è la grande differenza”.
Da quello che dice sembrerebbe che Russia e Cina siano mercati più importanti per i beni di lusso mentre forse gli Stati Uniti hanno più spazio per i beni italiani di largo consumo. È una valutazione che ha fatto o che potrebbe tenere in considerazione nella sua attività?
“Ancora non sono in grado di fare una valutazione su questo. Dai numeri che vedo il mercato degli USA è molto più grande. Il mercato cinese e quello russo valevano intorno ai dieci miliardi di euro di esportazioni dal nostro Paese, in entrambi i casi più della metà fatto da tecnologia. Negli Stati Uniti, se i dati vengono confermati, possiamo sperare di avvicinarci ai 40 miliardi quest’anno perché già nel primo trimestre abbiamo fatto 10 miliardi di dollari. Ora dobbiamo vedere anche come va questo dollaro, ma siamo sulla buona strada. E la meccanica, che pure è importante, pesa di meno. Negli USA c’è tanto lusso italiano (è il primo mercato per brand famosi), ma c’è tanta Italia anche per i consumatori di fascia media e si vede soprattuto nell’agroalimentare. Questo è un bene perché l’idea che il made in Italy sia solo luxury è un’idea limitativa. Noi siamo sicuramente la ciliegina sulla torta ma siamo anche la torta che è sotto. Il made in Italy affordable, il made in Italy per tutti, è una cosa veramente possibile. Non è che il vino italiano costa solo 100 dollari a bottiglia”.
Ma i consumatori americani lo sanno?
“Il sistema dei ricarichi è quello che è. Ed è vero che si trovano prodotti di fascia medio o medio-bassa che finiscono per costare abbastanza senza averne i requisiti. Però è anche vero che per il consumatore americano di fascia media si trova dell’ottimo made in Italy. Io in questi giorni sto andando parecchio in giro e, anche per esigenze personali, entro un po’ dovunque e vedo che si trova veramente di tutto. Certo, se uno va in in un liquor store, i vini più economici non sono mai italiani. Di solito sono cileni o neozelandesi. Gli italiani si collocano su una fascia più alta ma ancora affordable. Poi il messaggio che vogliamo dare è anche che dobbiamo capire che non c’è solo New York o San Francisco o le grandi città delle coste”.
Maurizio Forte durante le celebrazioni del 2 giugno, ha incontrato rappresentati della comunità italiana in occasione di un evento dedicato a business e food nella sede ICE
Da un punto di vista geografico, appunto, si è fatto un’idea di quali possano essere le aree degli Stati Uniti su cui si dovrebbe puntare di più?
“Non mi sono ancora fatto un’idea ma le posso dire che anche prima che arrivassi io erano stati lanciati dei programmi per l’agroalimentare, e in parte anche la moda, per cercare di focalizzarsi, quest’anno, su alcune aree specifiche che sono: New York e Tri-state, California, Texas e Illinois. Non è da affermare che questi siano gli unici posti dove andare, però è anche vero che in un paese così grande, dove gli investimenti promozionali sono così costosi e dove bisogna alzare anche un po’ la voce per essere ascoltati, se andiamo su tutti i 50 Stati insieme non concludiamo niente. Sono state fatte delle analisi molto precise sui consumi, i livelli d’acquisto, i prezzi medi e si è giunti alla conclusione che questi siano i primi Stati da aggredire, i primi su cui puntare. Perché poi noi dobbiamo stare attentissimi a una cosa: noi usiamo soldi pubblici e ogni euro che investiamo deve tornare alle nostre imprese. Quindi non possiamo andare a naso: dobbiamo seminare dove siamo sicuri che la pianta cresce in fretta e viene bene”.
Lei ha citato il Texas su cui il suo predecessore aveva avviato un programma per il tessile. Rispetto alla direzione precedente, i programmi avviati rimangono in essere o si cambierà direzione?
“Noi non siamo dei vice re che arrivano in un posto, si mettono la corona, e iniziano a fare azioni di distruzione di quanto era stato fatto prima. C’è un principio importantissimo scritto anche nel nostro ordinamento che è un principio di continuità della pubblica amministrazione. Significa che bisogna dare continuità al nostro lavoro. Le cose avviate devono essere portate avanti, gli impegni presi devono essere rispettati. Anche perché, ripeto, quello di cui parlo o quello di cui parlava Pier Paolo Celeste prima di me non sono invenzioni nostre, fatte una mattina dal niente: è un lavoro fatto anche in Italia e sulla base delle direttive del Ministero dello sviluppo economico. C’è una rotaia e c’è un treno: è arrivato il capotreno che ha il compito di far andare avanti il treno nel modo più ordinato e veloce possibile, nell’interesse delle nostre imprese”.
Certo con tutti i cambi di Governo che ci sono in Italia non sarà sempre semplice…
“Guardi, i cambi di Governo sicuramente, lo sappiamo, non giovano, non solo all’ICE ma al Paese: da sempre. Noi però teniamo nervi saldi e barra dritta. Abbiamo dei programmi e questo governo già da più di un anno sta facendo un certo lavoro, ci ha dato delle indicazioni molto precise e anche risorse per ottenere quello che dobbiamo fare, quindi dobbiamo solo lavorare. Nella continuità e nel rispetto di chi c’è stato prima di noi”.
Però non possono non chiederle il perché di questo cambio di dirigenza improvviso…
“Noi siamo un’organizzazione molto complicata con tantissimi uffici in giro per il mondo con tante aree geografiche. Io mi considero un public server e quindi sono in qualche modo anche un po’ un militare e quando mi dicono di fare una cosa tendo a mettermi lo zaino in spalla e a rispondere ‘obbedisco’. Questa è una decisione del nostro top management e non ho commenti da fare”.
L’ICE sta attraversando un periodo di trasformazione e a settembre ci saranno vari cambiamenti. Ce ne può parlare?
“C’è un piano di efficientamento già annunciato alla stampa e approvato e che sarà introdotto a partire da settembre con cui saranno fatti tanti miglioramenti e aggiustamenti dal punto di vista dell’ottimizzazione, della customer care, dell’organizzazione del personale e ci saranno anche avvicendamenti nelle posizioni perché un’organizzazione come la nostra è normale che abbia delle rotazioni. Io sono stato dieci anni a Shanghai e due anni a Mosca. Perché dieci anni a Shanghai e due anni a Mosca? Si può fare che uno sta sempre tre anni e tre giorni in un posto? Dovendo supportare le aziende e dovendo dare una risposta ai mercati è giusto che chi ci amministra faccia delle scelte di volta in volta dettate dalle esigenze”.
In questo progetto di riorganizzazione sono previsti anche tagli?
“Sono 15 anni che l’ICE fa spending review. Se guarda i budget che ci sono stati dati a valori costanti (al netto dell’inflazione), siamo forse al 50 per cento di quello che spendevamo 10 anni fa. E, dopo la chiusura e la riapertura, abbiamo ridotto il nostro personale del 25 per cento: eravamo 600 e siamo diventati 450. Abbiamo anche chiuso la rete di uffici in Italia e ottimizzato quella all’estero chiudendo più di 20 uffici. Con questo efficientamento dobbiamo guadagnare tutti in produttività ed efficienza”.
L’ultima domanda è più personale: ho letto che lei è entrato all’ICE giovanissimo. Mi incuriosisce il suo percorso. Come ha iniziato?
“Io sono stato uno dei più giovani dipendenti dell’ICE perché ho iniziato che avevo poco più di vent’anni. Lavoro all’ICE da 31 anni. Mi sono diplomato in agraria, poi ho saputo di questo concorso all’ICE in cui assumevano periti agrari per i controlli di qualità sui prodotti alimentari destinati all’esportazione. Prima l’ICE aveva questo incarico di controllare prodotti freschi e rilasciare certificati perché questi potessero essere esportati. Adesso è un lavoro che fanno le Regioni. Sono andato a fare il militare e, mentre facevo il militare, ho studiato per il concorso, che sono riuscito a vincere. Ma non avevo intenzione di fermarmi là, quindi ho continuato a studiare nelle scienze politiche e mi sono laureato con il massimo dei voti, poi ho fatto il concorso per dirigente e ho vinto classificandomi primo”.
Quindi la sua prima direzione qual è stata?
“La prima direzione è stata all’Ufficio prodotti agroalimentari, nella sede di Roma, nel 2000: coordinavo tutta la parte della produzione agroalimentare dell’ICE nel mondo, dal 2000 al 2004. Poi dal 2004 al 2013 ho diretto l’ufficio di Shanghai, dal 2013 al 2015 sono stato a Mosca e adesso New York che quindi è il mio quarto incarico da direttore”.