Pulizia etnica. È così che giovedì scorso un funzionario ONU ha senza mezzi termini definito ciò che sta avvenendo in queste settimane in Birmania, tra l’indifferenza del mondo. A essere colpiti da un’ondata di violenze da parte delle autorità del governo birmano sono i Rohingya, etnia minoritaria di religione musulmana stanziata nello stato del Rakhine, a ovest del paese.
I membri di tale comunità, che conta poco più di un milione di persone, sono considerati dalla maggioranza buddista come migranti illegali cingalesi; una sorta di “corpo estraneo” rispetto al resto della popolazione.
Le violenze hanno registrato un preoccupante picco a partire dal 9 ottobre scorso, quando più di 250 militanti Rohingya hanno ucciso nove poliziotti birmani in una serie di raid al confine con il Bangladesh. In risposta, negli ultimi giorni le forze governative stanno conducendo delle azioni definite di “controguerriglia”, di fatto violando palesemente diritti umani con violenze indiscriminate contro la popolazione.
Secondo l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), decine di migliaia di persone hanno abbandonato le loro case e i residenti, compresi i membri della minoranza Rohingya e altre comunità musulmane, sono soggette a torture, stupri, violenze sessuali, esecuzioni sommarie, unite alla distruzione di moschee e abitazioni.
Stando alle parole deI relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Birmania Yanghee Lee, il governo birmano ha ammesso addirittura di utilizzare elicotteri da combattimento a sostegno delle truppe di terra.
L’OHCHR ha aggiunto che i programmi umanitari fino a ora forniti sono stati sospesi:”Facciamo appello alla calma e chiediamo l’accesso umanitario per valutare e soddisfare le esigenze di decine di migliaia di persone che sono state sfollate dalle loro case durante le operazioni di sicurezza in corso. Crediamo che la popolazione abbia urgente bisogno di cibo, riparo e cure mediche “, ha detto il portavoce dell’UNHCR.
Un appello è anche diretto al governo del Bangladesh, affinché lo stato mantenga aperta la propria frontiera con la Birmania permettendo il passaggio in sicurezza dei profughi. Nel frattempo, le Nazioni Unite hanno chiesto al governo birmano di affrontare al più presto il deterioramento dei diritti umani nel nord del Rakhine, dopo che le recenti visite da parte di funzionari ONU non hanno prodotto risultati soddisfacenti.
Non si tratta però di una novità assoluta nella storia. Per decenni, infatti, a tale comunità sono stati negati alcuni fondamentali diritti, tra cui in molti casi persino la cittadinanza birmana.
Nonostante la recente transizione democratica del paese e la vittoria elettorale del 2015 da parte della Lega Nazionale per la Democrazia (il partito del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi), la condizione della minoranza musulmana è rimasta invariata.
Oggi San Suu Kyi è consigliere di stato, ministro degli esteri, e internazionalmente considerata come la leader della Birmania, ma il controllo degli apparati di sicurezza rimane di fatto nelle mani delle forze armate, le quali hanno mantenuto grande autonomia nel paese.
In questo momento, mettersi contro un apparato così potente potrebbe compromettere la stabilità del giovane e debole governo democratico. È per questo che la leader birmana è in questo momento sotto pressione, e secondo alcuni sta assumendo un atteggiamento volutamente ambiguo sulla questione.
“Il consigliere di stato Aung San Suu Kyi ha recentemente dichiarato che il governo sta affrontando la situazione applicando lo stato di diritto. Ma non sono al corrente di nessuno sforzo da parte del governo di indagare sulle accuse di aver violato diritti umani” ha detto Yanghee Lee, aggiungendo come sia cruciale indagare al più presto in modo imparziale e trasparente sugli abusi e le violenze.
“Le forze di sicurezza [birmane ndr] non possono avere carta bianca […] è necessario al più presto porre fine a tale situazione”, ha detto Lee.
Sperando che nel frattempo per i Rohingya non sia troppo tardi.