
L’uomo dello scandalo è un siciliano di 60 anni che a Roma e poi a Milano ha avuto un successo solido e crescente, riconosciuto dai clienti e dai critici, snobbato solo dalla Guida Michelin. L’uomo dello scandalo si chiama Filippo La Mantia. Ha forza e carattere. Da una vita si permette di dire che a lui l’aglio non piace, e quindi non lo usa. E pure la cipolla. Per un cuoco italiano è quasi come ripudiare la mamma, perché l’aglio in Italia è un valore sommo e intoccabile, osannato e adorato da sempre, non solo da chi fa cucina. È la farmacia dei contadini, come si diceva una volta. È un antinfiammatorio, antibiotico, cura l’ipertensione e l’impotenza. Chi ne fa uso è meno soggetto a infarti e tumori dello stomaco. E gli italiani ne fanno un uso massiccio: un chilo a testa ogni anno. Intero, tritato, spremuto, nei primi piatti, nei secondi di carne e pesce, nei contorni di verdure. Così, quando un cuoco famoso, ma nemmeno famosissimo, si permette di dire che dell’aglio fa volentieri a meno, scoppia un putiferio che va avanti da vent’anni.

Gianfranco Vissani, sanguigno cuoco umbro e celebre volto televisivo, prese subito il comando del partito del bulbo bianco: “L’aglio è un grande valore della cucina italiana. Certo, bisogna saperlo cucinare”. Tanti si arruolarono nella sua crociata contro l’infedele. Pochi presero le parti di La Mantia, a parte Silvio Berlusconi (e qualche giornalista-buongustaio a lui fedelissimo) che l’aglio lo ha sempre odiato, forse perché non aiuta nelle cene intime e nei dopocena con qualche bella ragazza. Dunque, pare di capire che l’aglio sia di sinistra. Da sempre Vissani è il cuoco preferito di Massimo D’Alema e di altri dirigenti del partitone comunista che mezzo secolo fa Enrico Berlinguer portò al picco dei consensi elettorali e che oggi è ridotto a un piccolo e confuso ruolo di comprimario politico. E non è nemmeno più comunista.

Naturalmente La Mantia non si è mai fatto impressionare dalle critiche e dagli attacchi. La sua vita è sempre stata intensa e complicata. Due grandi storie d’amore e altrettanti figli. Tante passioni. È uscito vincitore da prove ben più impegnative, ed è ingeneroso parlare di lui solo per la sua quasi solitaria battaglia anti aglio. La Mantia è molto altro.
Cominciò da ragazzino come fotoreporter. I suoi scatti di cronaca nera finivano sulle pagine dei giornali siciliani. L’amore per la cucina della sua adorata isola gli nacque da giovanissimo e non lo abbandonò mai, nemmeno nei momenti più duri. Ad esempio nel 1986, quando una folle storia di giustizia all’italiana lo portò per sei mesi in carcere a Palermo, all’Ucciardone. Era accusato di essere l’ultimo affittuario di un appartamento che la mafia usò come base operativa per mettere a segno delitti e attentati. Ma quell’appartamento La Mantia lo aveva lasciato otto mesi prima. Uno sconcertante errore giudiziario. Così, alla vigilia di Natale, il giudice Giovanni Falcone decise la scarcerazione del cuoco, con tante scuse, mettendo fine a un incubo lungo e assurdo. Nemmeno in carcere La Mantia smise di cucinare, per la gioia dei suoi compagni di detenzione.

La carriera di ristoratore cominciò molti anni dopo, con semplici e fantasiosi piatti mediterranei, tecniche attuali e precise, profumi intensi usati con intelligente parsimonia. Il suo primo ristorante, lo Zagara di Roma, fu aperto nel 2002. Seguirono diverse belle esperienze: un resort a Giava nel 2006, un’altra trattoria romana in zona Pantheon, la cucina del meraviglioso Pevero Golf Club a Porto Cervo in Sardegna e infine l’approdo a Milano. Dal 2015 c’è il pieno di clienti ogni giorno nel suo “Filippo La Mantia oste e cuoco”. Cuoco, non chef, tenne a precisare. “Perché sarebbe come confondere un geometra con un architetto”. Dice che lui ha ancora tanto da imparare e che i veri chef ne sanno molto di più. Eppure tanti parlano ancora di una cena di gala di qualche anno fa, in occasione di una prima dell'”Andrea Chenier” alla Scala. Era il 7 dicembre 2017. Cinquecento invitati. Alcuni di loro recitano ancora a memoria il menù firmato da La Mantia: riso con brodo di cappone, formaggio fresco, marroni tostati e foglia di pane al sapore di finocchietto. A seguire, un falso magro di gallina e la ratatouille (un suo cavallo di battaglia). Indimenticabile.

Poi però è arrivata la pandemia. Difficile continuare a pagare un affitto di 28mila euro al mese quando gli incassi si dimezzano. Così, a fine gennaio, La Mantia ha chiuso per sempre e ora sta riordinando le idee. “Per la prima volta sono un cuoco senza ristorante e sono anche un imprenditore indebitato”, ha confessato ai giornalisti. Un bravissimo collega, Giancarlo Morelli, gli ha spalancato le porte della cucina del suo ristorante, il Bulk. La Mantia prepara piatti da asporto e da delivery, mentre progetta la sua nuova vita. Ha spesso in mano un’armonica a bocca che suona da quarant’anni. Ma non sarà la musica il futuro di questo grande cuoco siciliano.