Nella portineria di un bel palazzo nell’Upper West Side, accanto a Central Park, giovedì sera ci deve essere stato un via vai di personaggi molto famosi. Infatti era il compleanno di Antonio Monda, lo scrittore-giornalista-professore e, da due anni, anche Direttore della Festa del Cinema di Roma, che, come ha rivelato in un articolo di non tanto tempo fa il New York Times, attira nel suo salotto di casa la New York che conta nel mondo della cultura e dello spettacolo. Noi ci entriamo il giorno dopo, venerdì, quando Monda è in partenza per Roma. Ci ha concesso infatti un’intervista alla vigilia dell’inizio della rassegna cinematografica. E mentre ci accoglie nel suo salotto, lui accenna alla bella festa della sera prima ma rimanendo molto discreto: “No Stefano, i nomi di chi c’era non si dicono, ci siamo divertiti molto e ho fatto tardi. Per questo mi trovi un po’ stanco”. Vediamo dei regali ancora adagiati sulla sua scrivania e nello stile della stanza, affatto lussuoso, ma molto caloroso e circondato da bei libri, appese alle pareti stampe d’epoca, una del Regno delle due Sicilie (Monda è nato e cresciuto a Cosenza). Tante foto di famiglia e un bel ritratto della moglie Jacqueline, partner fondamentale nella riuscita delle ormai famose serate conviviali. Cerchiamo di immaginare a un angolo Martin Scorsese, mentre magari chiacchiera con Leonardo Di Caprio in attesa che spunti Bob De Niro…
Monda, oltre a insegnare film studies alla New York University e organizzare festival di cinema e anche letteratura e scrivere romanzi di successo tutti ambientati a New York, è anche un giornalista. Conosce bene il mestiere e comprende bene le necessità. Quindi l’intervista concessa per parlarci della Festa del Cinema di Roma, ovviamente non può non iniziare senza affrontare subito il “grande elefante” ancora nella stanza, che sicuramente è stato anche oggetto di discussione la sera prima tra i vip invitati al suo compleanno.
Caso Weinstein: ti aspettavi uno scandalo di questa portata?
“È uno scandalo di cui tutti sapevano tutto. Non è un caso che Tarantino racconti: ‘Io sapevo e ho fatto meno di quello che avrei potuto’. Tarantino esiste grazie a Weinstein, è una creatura di Weinstein, fa molta impressione. Non dico che lo scarichi, ma che dica una cosa così forte, così pesante. Tutti a Hollywood sapevano, forse non sapevano l’entità, sia numerica, sia la gravità delle molestie. Perché non si tratta di ‘leggere avances’, si tratta di qualcosa di peggio e di molto grave. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole: Hollywood è sempre stata così, qui c’è solo un passo in avanti, c’è un abuso sgradevolissimo, pessimo e indifendibile. Anche se io non credo molto alla narrativa per cui tutti con ingenuità sono andati a trovare Weinstein. Ecco, questa mi sembra forse un’esagerazione. Detto questo, rimane gravissimo quello che è successo, il suo atteggiamento mi sembra veramente indifendibile. La novità vera non è tanto che a Hollywood succeda una cosa del genere o che un uomo potente nel mondo dello spettacolo abusi, approfitti. La novità vera è la dimensione politica della vicenda, perché Harvey Weinstein è un pilastro del mondo democratico. Questa è una cosa che non è stata abbastanza raccontata perché i media ne hanno imbarazzo. È un finanziatore di Hillary Clinton, è un amico personale del Presidente Obama, la figlia faceva uno stage da lui. Questo non macchia minimamente né Hillary né Obama, che sia chiaro. Ma è parte integrante di quel mondo. Questa è la grande novità. Ed è una parte che, addirittura, si ammanta di qualcosa di profondamente ipocrita, perché lui è uno che ha finanziato, alla Rutgers Univesity, una cattedra intestata a una leader storica del femminismo, Gloria Steinem. Cioè lui da un lato era in prima fila per cause progressiste, ultra-liberal, si faceva fotografare abbracciato a icone liberal, sia politiche che del mondo intellettuale e artistico; da un altro lato faceva delle cose, non solo terribili e brutte, ma che vanno proprio in direzione opposta a quello che lui diceva ufficialmente. Questa è la vera novità”.
Ma la reazione che c’è stata da Hollywood e dal mondo del cinema, e non solo in America ma dappertutto, ti ha soddisfatto? Oppure, secondo te, si tratta di uno scandalo che si ripeterà?
“No, certo che si ripeterà. Sono fiammate: adesso per un mese ci sarà un mondo che brucerà tutto quello che si può bruciare. Così ricomincerà, purtroppo. Questa è una tragedia: non è che io esulti, non mi faccio illusioni. Fra un anno, due anni, tre anni, ci sarà un nuovo produttore che farà le stesse cose e non mi faccio assolutamente grandi illusioni. In questo siamo in un momento di furore. Senza difendere minimamente, minimamente, lo dico con chiarezza, l’operato di Weinstein, però c’è un clima da ‘Piazzale Loreto’, dove è caduto un dittatore e si prende a calci il cadavere. E questo non è bello e questo non significa difendere il dittatore caduto. C’è un clima dove si affrettano tutti, ‘Sì pure a me, che schifo!’, ‘Che vergogna!’. Lui ha fatto delle cose, anche al di là delle molestie sessuali, aveva un tale atteggiamento arrogante, sgradevole, che era sulle scatole a tutti”.
Parliamo della festa. Questo è il tuo terzo anno e hai rinnovato il contratto per altri tre anni, quindi, in tutto, farai sei anni: sei a metà, qual è il tuo obiettivo finale? Cioè, se tu potessi esprimere un desiderio, con la lampada di Aladino, quando tu finirai, cosa vorresti che accadesse a Roma?
“In parte credo che stia già accadendo: che la festa acquisti una reputazione alta, internazionale, una dignità, una rispettabilità e un prestigio che era nelle intenzioni di chi l’ha fondata. Io non c’entro nulla, perché sono arrivato dal nono anno e farò fino al quindicesimo. Il primo anno, io sono stato nominato a marzo, sono andato ad aprile a Los Angeles a farmi conoscere dai distributori e dai produttori americani e mi hanno accolto, non dico con scetticismo: ‘Sì c’è questo giovane direttore della Festa di Roma’. Adesso il secondo e questo terzo anno, ho visto uno sguardo diverso. Il fatto di aver aperto, l’anno scorso, con un film come ‘Moonlight’, che poi ha vinto l’Oscar, un film su cui non scommetteva nessuno, perché piccolo, con un tema difficile, con attori sconosciuti, perché parlava di omosessualità, di emarginazione, di ghetti, di neri, di Miami povera, e poi quello era il film dell’anno, ecco quello è stato, e non lo dico per celebrarmi, una delle cose che ha fatto capire che qui c’è qualcuno che fa cose diverse. Questa festa, che non è un festival, è una realtà importante. Ecco, io voglio che, fra quattro anni, quanto ho seminato porti i suoi frutti, perché ci vogliono almeno sei anni per fare una cosa del genere”.
Ecco, spiegaci perché una festa e non un festival?
“Io ho levato tutto quello che potevo levare di caratteristiche del festival: la competizione, la giuria, le vallette, i madrini, maschi o femmine. Tranne il premio del pubblico, che è rimasto, non c’è nulla che caratterizza un festival. Ovviamente ho perso un po’ dell’adrenalina della gara, però a vantaggio del fatto che noi non mettiamo in competizione ma celebriamo. Chi arriva alla festa sa che è già festeggiato, non entra in una gara. In più io mi sono inventato questi ‘Incontri ravvicinati’, dedicati, ovviamente, a Steven Spielberg. Sono incontri con grandi del cinema o grandi che parlano di cinema, perché è venuto pure Renzo Piano, per dirne uno, che non è di cinema ma ha parlato in maniera sublime di cinema. Questa è una caratteristica unica della festa: non credo esista nessuna manifestazione mondiale che faccia una cosa del genere. Perché qual è la grande differenza? Se tu vai a Cannes, Venezia, Berlino, per carità, importantissimi festival, tu vedi che arriva il super-divo, dico per dire Jude Law, fa la passerella, il red carpet, fa la conferenza stampa, prende gli applausi e se ne va. Da noi, Jude Law è venuto a parlare un’ora e mezza con me, in pubblico. Da noi, Wes Anderson è venuto a parlare di Vittorio De Sica. Da noi c’è Paolo Sorrentino, poi quest’anno verrà anche Nanni Moretti, ma ti potrei fare decine di esempi: si dedicano, si fanno scoprire e raccontano cosa significa il cinema per loro. Questo non esiste, questa è la festa”.
Possibile invece che voler assomigliare a un Cannes, a un Venezia o a un Berlino, la rassegna di Roma forse è più sul solco già tracciato da Tribeca Film Festival?
“Tribeca è una realtà importante, interessante. Tra l’altro io ho avuto modo di partecipare alla prima edizione come selezionatore, quindi mi è nel cuore. No è una cosa un pochino diversa. Tribeca fa degli incontri, non ogni sera come facciamo noi, ma ne fa e anche di molto belli, per esempio c’è stato uno sulla reunion del padrino, insomma ci sono delle cose meravigliose. Anche perché ci sono alle spalle Scorsese, oltre Jane Rosenthal che fa un magnifico lavoro e il direttore. Io dico sempre che non voglio fare una Venezia di Serie B ma una Roma di Serie A. Perché se mi metto a fare anche io il premio, le gare è inevitabile. Con la storia che ha Venezia, che come sai è il più antico festival del mondo, perché è precedente anche a Cannes, con la gloria di questa storia, da noi arriverebbero sempre, non dico scarti, ma film che non sono andati lì. Delle volte, quando siamo fortunati, perché non erano pronti. Noi dobbiamo fare un’altra operazione: puntare a una qualità alta, fregarcene se alcuni film non sono in prima mondiale, anche se quest’anno ne abbiamo quattordici in prima mondiale e non è poco, portare lo spettatore romano che se ne frega se un film è andato a Telluride, a vedere un gran bel film. L’altro anno, ‘Moonlight’ era andato a Telluride e non ce n’era uno, in sala, che l’avesse visto. No non direi il paragone Tribeca, per quanto ammiri e non è che ne prenda le distanze ma è un’operazione completamente diversa, perché loro comunque hanno la competizione, questa cosa degli incontri c’è ma non è così centrale”.
Roma è Roma.
“Sì. È una cosa completamente diversa. Ecco io vorrei che alla fine dei sei anni dicessero ‘Roma è una cosa importante’, è una cosa consolidata e mi sembra che già sia così”.
A Roma, almeno nella selezione di quest’anno, se non mi sbaglio, non ci sono tanti film italiani.
“Ce n’è uno solo e due in due eventi speciali”
Allora, questa scelta, che sembra molto strana per Roma, è una scelta che è capitata e può capitare?
“È voluta”.
Ci spiegheresti il perché?
“Io punto alla selezione e non l’allargamento. I film devono piacere al direttore a un comitato di selezione e devono convincerci assolutamente. Altre realtà, come il cinema di Venezia ne ha presentati 21, di cui quattro in concorso, scelta legittimissima, noi ne abbiamo visti 50 o 60 italiani, non ricordo. Ce n’era soltanto uno che piaceva assolutamente a tutti. Due ci sembravano interessanti, ma più come ‘evento speciale’ che come selezione ufficiale. Io non credo che allargando si aiuti il cinema italiano: io credo che con la severità si aiuti il cinema italiano. Questo è bello, questo ci piace, questo non ci convince, pur rispettando i tanti che ci hanno mandato”.
Quindi, il cinema italiano, adesso non si trova in una fase positiva?
“Questo non arrivo a dirlo. Tieni presenti che gli anni passati comunque non ne avevamo comunque tanti. Tre il primo anno, tre il secondo. Non è che ne avessimo otto o dieci. Quest’anno rimane tre come numero assoluto. Il cinema italiano ha degli eccellenti registi. Pensa a Paolo Sorrentino, a Matteo Garrone, a Paolo Virzì, Alice Rohwacker, insomma ce ne sono tanti. Ma, nello stesso tempo, ha un problema che si porta dietro da quando esiste, cioè un’industria che non ha la forza del talento dei registi. Cioè il talento dei registi è superiore all’impatto che può proporre un mondo industriale. Questa è la forbice. Negli anni ’60-’70 avevamo un cinema più industriale, grandi produttori, penso ai nomi storici, De Laurentiis, Ponti, Cristaldi, Mario Cecchi Gori, e magari ho dimenticato qualcuno, che dialogavano con i giganti del cinema, Fellini, Rossellini, De Sica, Visconti, Pasolini”.
Invece, parliamo degli americani e dei grandi nomi che verranno. In quest’edizione c’è qualcuno che pensi possa essere una sorpresa per il pubblico?
“Non è una sorpresa in America, perché è un film uscito, ma è un film diretto da Bigelow, ‘Detroit’. Il film di Richard Linklater, ‘Last Flag Flying’ e parliamo degli americani. Poi c’è un documentario divertentissimo di un regista che si chiama Mark Tyrnauer, che si chiama ‘Scotty, la storia segreta di Hollywood’: è la storia di un gigolò, un uomo che andava con uomini e donne del mondo dello spettacolo, grandi star negli anni ’40 di Hollywood. Abbiamo cercato delle chicche: abbiamo un documentario molto bello su Steven Spielberg, abbiamo un documentario sul periodo cristiano, che noon è durato troppo, ma è molto significativo di Bob Dylan”.
C’è qualcosa, in queste tre edizioni che hai fatto, che non sei riuscito a fare e che comunque tenterai nei prossimi anni?
“Ho sempre voluto dare il premio alla carriera a Steven Spielberg, che considero un genio. L’ho incontrato e gliel’ho proposto. Ma capita sempre che girasse i film tra ottobre e novembre e lui mi ha detto: ‘Prima o poi vengo’. E spero che lo manterrà, in questi prossimi tre anni. Ci sono film che avrei molto voluto e non sono venuti: il film di Woody Allen, quest’anno, l’ho un po’ inseguito e ogni anno ce n’è almeno uno. Come ricostruzione, mi sembra che la forma stia prendendo la sua concretezza che piace”.
Sembra una domanda un po’ ripetitiva ma è per essere sicuri di aver inquadrato bene. Possiamo dire che del Festival di Cannes, Berlino e Venezia, Roma, almeno durante la tua conduzione, non invidia nulla?
“No. Nel senso che è come chiedere una mela se invidia un’arancia. Tu puoi dire a una mela scarsa di invidiare una mela buona, noi facciamo una cosa completamente diversa. Ovvio che il budget lo invidiamo. Perché Berlino ha 22 milioni e noi ne abbiamo 3.4, Cannes ne ha 21 e Venezia sopra i 10. Quello lo invidiamo seriamente. Ma noi abbiamo star come loro, qualità di film che vanno agli Oscar. Facciamo un’operazione completamente diversa”.
Adesso parliamo un po’ di te. Noi ora ci troviamo in questa tua casa, che ormai è famosa anche perché c’è stato, tempo fa, un articolo, tra l’altro molto bello, sul New York Times, che parlava di questa casa come un “salotto”. Noi, in Italia, sappiamo cos’è perché il Risorgimento nacque nei salotti.
“Salotto è un termine che io non amo. Se non fosse presuntuoso direi ‘cenacolo’ (sorride, ndr), però non lo dico perché mi arriva la pernacchia. Il salotto ha un connotato, in Italia, un po’ snob, un po’ decadente, un po’ insulare. È una casa accogliente: io sono un meridionale, come te, quindi credo di sapere che cosa significa dare il benvenuto alla gente. Se vengono personaggi anche molto famosi, è perché sanno che non hanno nulla da temere”.
Si è appena conclusa nel mondo la Settimana della lingua italiana, prmossa dalla Farnesina e tra l’altro dedicata al cinema. In questa casa, l’italiano quanto è usato?
“Guarda, se mi chiedi la percentuale degli ospiti italiani”.
O di stranieri che sanno l’italiano, anche.
“Direi circa il 30%”.
Parliamo di letteratura.
“Io sto scrivendo un libro unico, in dieci volumi. Ogni anno pubblico una parte. Il quarto volume di questa saga uscirà a maggio”.
Il titolo?
“L’indegno. È sempre su New York e quel libro lì, in particolare, negli anni ‘70”.
Parliamo di questa tua seconda passione, cioè la letteratura.
“Ma non in ordine d’importanza”
Tu hai dichiarato di essere molto organizzato e che riesci a fare tutto. Ma se dicessero, almeno in un periodo della vita, di scegliere. Tu sei autore di romanzi di successo, un professore di cinema alla prestigiosa New York University e un bravissimo organizzatore di cinema. Riusciresti a fare una classifica dei tre?
“Mi appello al quinto emendamento, non rispondo (ride, ndr). In realtà sono tre facce della stessa medaglia. Io comunico delle idee e le comunico, spero, in maniera artisticamente compiuta attraverso i libri. Le comunico organizzando un festival, dicendo questo è il film da vedere e questo è un personaggio da seguire, lo comunico insegnando a scuola, alla New York University. Ma è la stessa cosa con tre facce diverse. Non c’è una passione per una. Mi piace molto la scrittura, questo sì. Mi riconosco un talento. Io mi sveglio alle sei, perché vado a dormire molto presto: alle 6.30 sono totalmente operativo. È solo una questione di organizzazione. Ci sono, ovviamente, delle rinunce. Io non ho la televisione perché conosco gente che vede anche due ore la televisione al giorno. Io quelle due ore le dedico ad altro. Leggo pochissimo i giornali: vedo le highlights oppure i titoli, perché ho visto che ci sono cose più belle e più importanti. Certo, mi informo su quello che succedo. Rinuncio a tante altre cose per organizzarmi meglio su altro. Ora, purtroppo, vado anche meno al cinema, salvo quello che devo vedere per la festa”
La tua passione per il cinema nasce quando eri adolescente e ti lega molto a tuo padre.
“Sì perché mio padre mi portava molto al cinema. Con lui ho visto alcuni film meravigliosi. Mi ricordo dal ‘Il padrino’, o quando ero proprio bambino ‘Mary Poppins’, da ‘Fantasia’ a tanti film. Mio padre muore quando io avevo 15 anni e io, per reazione, mi chiudo in una sala cinematografica. Vedo non dico tutti i film del mondo, che ovviamente è una follia, ma vedevo due o tre film al giorno. Lì nasce questo amore, quindi nasce dal dolore, e nasce quindi anche una conoscenza e una competenza”.
Tu hai visto migliaia di film. Qual è il film che ti porteresti nell’isola deserta e che quindi potresti rivedere più volte?
“Uno solo. Il Padrino”.
L’uno o il due?
“Uno. Il due è anche un capolavoro e poi in realtà è lo stesso film. Non mi parlare del tre, che è un cugino lontano, non molto intelligente. I primi due sono due capolavori ma il primo è la base”.