In un momento in cui in Italia va di moda parlare di cinema di genere, parlare di chi ha creato un genere dal suo modo di fare cinema può offrire spunti interessanti. Nanni Moretti fa cinema da più di quarant’anni. Attraverso i film ha raccontato con voce inconfondibile la sua evoluzione di essere umano, di uomo, di italiano diventato adulto negli anni della politica di piazza e del terrorismo, di “splendido quarantenne” negli anni del benessere della media borghesia, di amareggiato uomo di sinistra nei primi anni di politica berlusconiana. Negli ultimi anni Moretti è passato a storie più intime, dove la dominante è il personale, più che il sociale.
Nei primi anni ’70, subito dopo il Liceo Classico, prese per la prima volta in mano la cinepresa per girare in Super 8 degli strani cortometraggi. Il suo primo lungometraggio, Io sono un autarchico, è del ’76 ed è oggi un manifesto politico-sociale transgenerazionale, così come il successivo Ecce Bombo (1978) è ormai film di formazione per gli italiani di sinistra.
Seduto su una poltrona dell’ufficio del direttore dell’Istituto italiano di Cultura, non appare poi tanto diverso da quel giovane che inseguiva il pallone ne La Messa è finita. Ho quasi paura che da un momento all’altro corra via gridando “palla!”. Invece non scappa, ma mi concede una lunga chiacchierata in cui parliamo della sua carriera, di quello che ha scelto e quello che è capitato, tra comicità, riflessione e politica. E parliamo del suo ultimo film, Mia madre, in arrivo nelle sale americane ad agosto, in cui racconta la perdita della madre, avvenuta pochi anni fa.
E a New York Nanni Moretti è arrivato per dare voce a un’altra madre: su invito del direttore dell’Istituto di Cultura, Giorgio van Straten, in occasione del centenario della nascita di Natalia Ginzburg, ha letto stralci del libro Caro Michele, in cui la scrittrice immagina una madre che scrive al giovane figlio.
Nanni Moretti legge Natalia Ginzburg. Come mai?
“È una scrittrice che ho scoperto qualche anno dopo la fine della scuola e che, non dico sia stata sottovalutata ai suoi tempi, però ha risentito di quel macigno che aveva davanti a sé, che era Elsa Morante. Forse la critica l’ha valorizzata meno di quello che poteva. Quello che mi colpisce è la sua semplicità che non è la base di partenza, ma un punto di arrivo. La semplicità non casuale, non banale della sua scrittura e l’umanità dolorosa del suo stile. Questo è un romanzo a cui sono legato in particolare, vidi anche il film fatto quarant’anni fa da Monicelli. E ora ne ho registrato un audio-libro. E così con l’Istituto avevamo pensato a questo omaggio a cento anni dalla nascita”.
Nelle lettere della madre a Michele c’è sempre questa sorta di sofferta estraneità della madre rispetto alla vita del figlio, come se ne fosse sempre esclusa. Lei nel suo ultimo film parla del rapporto con una madre, con sua madre. Crede che questa estraneità sia una condizione congenita al ruolo e alla figura di madre?
“No, penso sia specifica di quel personaggio, di quella storia, di quel libro lì. Casomai a me è capitato un po’ il contrario da figlio. Mia madre ha insegnato per tutta la vita e dopo la sua morte, attraverso i racconti dei suoi ex alunni mi sembrava di scoprire degli aspetti di mia made che io non avevo sufficientemente compreso. E questa è una sensazione molto strana da vivere: scoprire tua madre attraverso i racconti degli altri. Alle volte ci capita che siamo molto vicini a una persona e essendo molto vicini non riusciamo a cogliere la totalità di questa persona”.
Ha mai pensato che magari questa cosa possa essere successa anche a sua madre, vedendo e forse scoprendo suo figlio nei suoi film?
“Mah, no, non penso.. oddio, non lo so.. Ecco io ero troppo discreto, senz’altro, con i miei genitori non ero uno che raccontava. Quindi se ci penso ora, forse.. può darsi, perché io di me nella vita privata raccontavo molto poco. Quindi sì, può darsi che in quella autobiografia che sono stati i miei film io abbia rivelato qualcosa di me di cui di solito non parlavo”.
Le sembra che il rapporto madre-figlio e madre-figlia che è al centro del suo film possa avere degli aspetti tipicamente italiani o quello che racconta è universale?
“Noi come spettatori italiani abbiamo visto qualsiasi film americano che non era universale però poi lo è diventato perché l’immaginario americano è un po’ l’immaginario di tutti gli spettatori del mondo. Quindi, anche se da una parte abbiamo visto film molto newyorchesi o molto locali, ci siamo costretti a vederli come film universali. Il mio film non penso abbia delle caratteristiche prettamente o solamente italiane. A me interessava raccontare una storia di tre donne. Tre generazioni. Non solo Margherita, interpretata in modo straordinario da Margherita Buy, ma anche sua madre e sua figlia. Volevo che ci fosse un po’ un passaggio di testimone tra generazioni diverse. Mi interessava anche questo rapporto molto diretto, senza filtri, tra nonna e nipote. Tra madre e figlia i rapporti sono sempre più complicati: il rapporto tra nonna e nipote è più limpido, meno opaco, arriva subito. Mi piaceva anche questo passaggio di testimone tra la nonna e la nipote, per esempio attraverso lo studio del latino. La nonna sa che questa bimba è stata innamorata qualche mese prima, cosa di cui non si è accorta invece Margherita. Il rapporto diretto nonna-nipote scavalca il personaggio di Margherita che di alcune cose non si rende conto: Margherita è molto coinvolta nel suo lavoro che vive in maniera totalizzante. Forse le ho attribuito dei comportamenti che di solito sono dei personaggi maschili. Il rapporto totalizzante col lavoro, il modo in cui liquida il suo temporaneo fidanzato e l’impaccio con cui si prende cura della madre. Il personaggio femminile di solito è molto accudente, molto accogliente. Margherita si sente, ed è, inadeguata nel rapporto con sua madre. Io come persona sono molto di più dentro il personaggio di Margherita che non dentro il personaggio che io interpreto: le ho affidato molte cose mie”.
Ovviamente è stato detto che Margherita è un suo alter ego femminile..
“Sì, assolutamente sì. Infatti quando provavamo le scene in cui lei si arrabbia sul set, Margherita Buy usava un tono che mi suonava familiare, la sua incazzatura mi risultava familiare. E poi mi sono accorto che c’era in effetti un tono a cui lei si rifaceva… era il tono che io ogni tanto usavo sul set e che Margherita, fatto meglio, riproduceva nel suo personaggio”.
Il personaggio interpretato invece da John Turturro, questo esuberante e un po’ lunatico attore americano, che senso ha nell’economia della storia?
“Volevo che Margherita, che si sente a disagio e addolorata per la malattia della madre e che ha un problema spesso di incomprensione, avesse anche un problema nel suo lavoro. E poi se invece penso un po’ al tono del film è un po’ una cosa che mi capita spesso, raccontare una storia alternando momenti di commedia a momenti di dramma. Non che mi metto lì col bilancino e calcolo settanta per cento di dramma e trenta per cento di commedia: è il modo in cui io da sempre immagino le storie che voglio raccontare. Storie in cui ci sia il dolore ma magari questo dolore, questo disagio siano raccontati a volte anche in maniera ironica. È il mio modo di raccontare le storie da quarant’anni a questa parte”.
La battuta di John Turturro che a un certo punto durante le riprese del film esplode in un “Voglio ritornare alla realtà” è speculare all’esperienza di dolore che sta vivendo Margherita?
“Se devo essere sincero quella fu una scenata un po’ esagerata che, durante una nottata di riprese, fece un molto stanco Michel Piccoli durante le riprese di Habemus Papam: alcune delle frasi le ho prese da quel suo sfogo contro tutto e contro tutti. Mi capita di avere dei dialoghi quando ancora la sceneggiatura non è completata, ma so già che ci sono dei personaggi o dei dialoghi o delle scene che io voglio nel mio prossimo film. Non è molto professionale: è un modo di lavorare un po’ selvaggio e anche faticoso. A volte mi vengono in mente dei pezzi di sceneggiatura ancora prima del soggetto. Alle volte hanno una loro coerenza altre non c’entrano niente e li escludo dal film. Quella era una scena che mi ero appuntato e che poi ho deciso di attribuire a quel personaggio lì. Però poi appunto succede che scene che sono nel film, tra virgolette, per caso, poi all’interno di quel film assumono una loro coerenza, sono congrue con il resto del film. E vedo per esempio che quella battuta di Turturro ha molto colpito”.
Lei ha già parlato di perdita ne La stanza del figlio…
“Sono perdite molto diverse. Le ho raccontate anche in maniera diversa. La perdita di un figlio è il fatto più innaturale che ci sia e la racconto come fatto improvviso e assolutamente ingiusto. Mentre invece Margherita e Giovanni, in Mia madre, sanno che quella è una fine a cui loro, e anche gli spettatori del mio film, cominciano ad abituarsi, è una cosa con cui iniziano a familiarizzare, poi uno pensa sempre di essere pronto e non lo è mai. Però la perdita di un genitore fa parte dell’ordine naturale delle cose. Mentre invece la morte del ragazzo ne La stanza del figlio spezza in due il film”.
Lei ha recitato sia il padre che perde il figlio che il figlio che perde la madre. Come è stato?
“C’è una cosa che non è presente nella sceneggiatura, che considero sottintesa, ed è in comune ai genitori de La stanza del figlio e ai figli di Mia madre: questi personaggi non credono nell’aldilà, non sono credenti. È un fatto che rende ancora più crude queste due storie e più dura la perdita di una persona cara. Ne La stanza del figlio mi è capitata una cosa che non mi era mai capitata nei miei film: di rimanere impregnato di quel dolore che stavo raccontando. Anni prima con Caro diario avevo raccontato di un tumore che avevo avuto ricostruendo tutta la cosa, ma non è stato psicologicamente difficile raccontarlo. Ero un regista che faceva il suo lavoro e non mi faceva nessuna impressione raccontare anni dopo la storia di una malattia anche grave. Per la prima volta ne La stanza del figlio sono rimasto impregnato. E penso che sia un po’ accaduto anche con Mia madre, anche se non me ne rendo conto fino in fondo. In mia madre io volevo che la mia recitazione e la mia regia si nascondessero al servizio della storia che volevo raccontare. Non volevo, né come attore né come regista, fare un’esibizione di muscoli, di stile, non volevo essere protagonista. Volevo invece che il mio stile fosse al servizio di quella storia, di quella umanità, di quei personaggi, personaggi che mi viene da chiamare persone”.
Le piace recitare?
“Mi piace di più quando recito solamente. Perché sono concentrato solo su quello. Trenta o quaranta anni fa consideravo naturale mettere le due cose insieme. Pensavo che i miei film avessero un senso perché io contemporaneamente ricoprivo tutti e tre questi ruoli: sceneggiatore per me, regista di me, attore nei miei film. Pensavo di non essere né uno sceneggiatore, né un attore, né un regista di mestiere, ma pensavo che coprendo contemporaneamente tutti e tre questi ruoli potevo fare un cinema personale. Ora non dico che ho cambiato idea, però sento che questo discorso può cambiare e io posso essere attore in film non miei e dirigere un film in cui non sono attore, o come sceneggiatore essere utile ad altri registi. Questa compresenza e confusione di ruoli ora forse si sta un po’ dividendo”.
I suoi film hanno raccontato un po’ tutta la sua vita. Ci vede un percorso e, se sì, è generazionale o suo, individuale?
“Ecco su questo sì, ho cambiato idea. Quando trent’anni fa mi dicevano che i miei film riuscivano a raccontare una generazione ero un po’ insofferente perché dicevo: ma come, questo è un discorso un po’ sociologico perché non si parla invece dello stile, del cinema dei miei film? Lo trovavo riduttivo. Ho cambiato idea. Se era vera quella cosa lì, che riuscivo, partendo da me, a raccontare anche gli altri, ne sono molto onorato e contento. Prima scalpitavo, ora ne sono orgoglioso. Non è stato un calcolo fatto a tavolino: è stata una fortuna avere delle antenne sensibili, più sensibili di quelle che ho ora”.
Poi alcune battute, una per tutte “Faccio cose vedo gente”, sono state profetiche e sono finite a rappresentare un’altra generazione, la mia…
“È stato naturale. Captavo battute e tendenze che automaticamente finivano in una mia sceneggiatura ma non mi rendevo conto. Lei ha citato Ecce Bombo: tutto pensavo fuorché che stessi facendo un film che dopo quarant’anni dei ragazzi che allora non erano nati avrebbero citato. Questa cosa mi ha sorpreso molto”.
A me sorprende che non ci fosse intento sociologico, perché davvero un film come Ecce Bombo sembra un trattato di sociologia…
“Ricordo una proiezione super privata, con il mio produttore e montatore. Non pensavamo che avrebbe avuto successo. Il produttore mi disse che era affezionato a quel film come a quei figli più problematici, più sfortunati. Io pensavo di aver fato un film doloroso su un mondo circoscritto. Non avevo parlato dei giovani: avevo parlato di un gruppo molto specifico, di giovani della piccola e media borghesia romana, anzi di una zona precisa di Roma, che era Roma Nord, anzi di un quartiere specifico che era Prati-Della Vittoria. E oltretutto questi giovani erano di sinistra, anzi di estrema sinistra, anzi di estrema sinistra che non erano più militanti, che avevano lasciato la politica attiva e che facevano un piccolo gruppo di autocoscienza maschile. Cosa più che rarissima, quasi inesistente, che era invece una pratica del mondo femminista. E che in realtà era una cosa che avevo fatto veramente pochi anni prima. Ed è stata l’unica volta in cui mi sono ritrovato all’avanguardia in vita mia”.
Quel gruppo era comico come nel film?
“Io lo presi molto sul serio e raccontavo i fatti miei, in maniera un po’ tonta, raccontavo cose private. Loro lo presero un po’ più per raccontare cose esteriori, il rapporto con la politica”.
Nel film era molto comico.
“Pensavo di aver fatto un film doloroso e per pochi. Mi resi conto poi di aver fatto un film comico per tutti e ci fu una rincorsa all’identificazione. C’erano dei miei amici, che avevano visto il film nei primi giorni, che erano molto stupiti: eravamo una generazione che di solito si prendeva molto sul serio e veniva raccontata dai giornali come molto dogmatica. I primi giorni mi dicevano che gli era piaciuto. Dopo un paio di settimane erano più dubbiosi. E quando chiedevo perché, mi dicevano: no, sai, perché l’hanno visto i miei genitori ed è piaciuto anche a loro e questa cosa non mi torna. Non mi aspettavo che persone lontanissime per età, ceto sociale, idee politiche si ritrovassero in questo film. Che poi è stata la mia fortuna perché poi ho avuto la possibilità di fare altri film grazie a quello. Il film precedente [Io sono un autarchico, nda] aveva avuto successo solo nel circuito dei cineclub. Però una cosa che io rivendico è che nel passaggio dai cineclub ai cinema veri, nel passaggio dal pubblico che si autodefiniva pubblico d’élite al pubblico di massa, non ho pensato di dover andare incontro a questo nuovo pubblico. Io ho continuato, se c’era un mio stile, con lo stile che avevo quando facevo film con il Super 8, con quell’ironia lì”.
C’è un po’ di comicità involontaria quindi. Lei si considera una persona divertente?
“No, assolutamente. Sono anzi una persona abbastanza triste. Però fin dall’inizio, da quando facevo i miei cortometraggi in Super 8, ho sempre esorcizzato i miei disagi, le miei nevrosi, i miei tic attraverso l’ironia. È sempre stato uno strumento di conoscenza, di racconto”.
Viene volentieri a New York, le piace?
“Ha una vitalità che l’Italia non ha, o non ha più, oppure non ha ancora. Se vengo a New York poi penso all’Italia come un corpaccione pigro, lento e troppo morbidone. Quando vengo qui sono felicemente contagiato dalla sua vitalità”.
Posti preferiti?
“Central Park, senz’altro”.
Un equivalente newyorchese della sacher ce l’ha?
“No, devo dire di no”.
[Gli consiglio la cheesecake di Veniero]
Com’è l’italia di oggi? In poche parole, come la definirebbe?
“Spero di sbagliarmi ma mi sembra un po’ affaticata e rassegnata, ma sinceramente, veramente, spero di sbagliami. Penso che non sia un caso che tutti i nostri figli stiano studiando all’estero. Non credo sia un capriccio, né un caso”.
La fase dell’impegno politico in prima persona è chiusa? Archiviata?
“Ho sempre avuto un rapporto intermittente con la politica, anche nei decenni precedenti al mio impegno con i girotondi. Ci sono stai dei momenti che mi hanno segnato, me ne vengono in mente due: la morte di Berlinguer e il periodo del sequestro Moro. Allora bisogna un po’ tornare a quegli anni [quelli dell’impegno politico in prima persona con i cosiddetti Girotondi, ovvero i primi anni 2000, nda], perché era veramente una situazione di emergenza eccezionale. Con Berlusconi a capo del Governo c’erano troppe anomalie per un paese democratico. Al tempo ricordo che venivano a intervistarmi, soprattutto i giornalisti francesi, e mi chiedevano del ruolo dell’intellettuale, ma, a parte che non penso di esser un intellettuale, sono solo un regista, far sentire la mia voce non lo consideravo un dovere di intellettuale o di regista, ma di cittadino. Ribaltando la cosa che di solito il nome di gente nota viene usato dai partiti, ho voluto usare la mia faccia e il fatto di essere un po’ conosciuto per fare un certo tipo di manifestazioni, senza slogan truculenti, ma manifestazioni allegre. Ho voluto usare me stesso per delle battaglie in cui credo. Ma quella era una situazione, appunto, eccezionale. Quelli che oggi fanno paragoni tra Berlusconi e Renzi non hanno capito quello che è stata l’avventura politica di Silvio Berlusconi per l’italia”.
Il momento attuale quindi secondo lei non richiedere quel tipo di impegno?
“Ho letto una articolo che diceva ‘Moretti e altri intellettuali tacciono imbarazzati sul Governo Renzi’… ma io taccio perché non ho niente da dire. Ho taciuto anche sul Governo Letta o sul Governo Dini o sul Governo D’Alema”.
Beh, veramente su D’Alema no. “D’Alema di’ qualcosa di sinistra” è passato alla storia.
“Su D’Alema no, vero. Ma non sono per niente imbarazzato: non ho sempre da dire la mia opinione su tutto. A volte capita che se sei una persona un po’ conosciuta, poi io mi sono impegnato in prima persona in passato, allora sembra che tu sia autorizzato o addirittura obbligato a dire la tua sempre su tutto. Ma a me non succede così”.
Le parole sono ancora importanti per Nanni Moretti?
“Senz’altro. Però.. ci sono delle parole di gergo e di moda che però sono utili e quindi io devo fare dei giri di parole per non dirle. Gambizzare, che si usava molto, mi sembrava fosse un modo per edulcorare la realtà. Abbreviare Brigate Rosse in BR rendeva familiare un fenomeno pericoloso. Oppure non usavo mai farsi una pera: termine di gergo che annientava la drammaticità del fatto. Allora come oggi, le parole sono importanti e a me tocca fare dei giri di parole”.