“Parla, la gente purtroppo parla
Non sa di che cazzo parla
Tu portami dove sto a galla
Che qui mi manca l’aria.”
– Måneskin, dalla canzone “Zitti e Buoni”, vincitrice all’Eurovision Song Contest
“Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo.”
– Dante Alighieri, Divina Commedia – Inferno – Canto III – vv.82-11
La scorsa settimana sono successi due avvenimenti solo apparentemente scollegati tra loro: i Måneskin hanno vinto l’Eurovision Song Contest a colpi di Rock&Roll e il presidente della Crusca, Claudio Marazzini, ha dato inizio ad una discussione sull’uso degli inglesismi nella lingua italiana sul sito stesso dell’Accademia da lui diretta.
Qual’è il collegamento? Entrambi sono significativi di come la lingua italiana andrà a porsi nel contesto internazionale e del suo rapporto con l’inglese, la lingua globale. Questa è una discussione importante. Qualche giorno fa un articolo di Severino Salvemini sul Corriere argomentava che la nostra lingua vada promossa internazionalmente anche per un motivo molto utilitaristico. La lingua italiana è ambasciatrice del Made in Italy, e promuoverla va di pari passo con il rilancio e la salute della nostra economia. L’Italia all’estero può essere venduta bene quando riesce a fare innamorare del proprio stile e della propria cultura, e la lingua di Dante, così “facile” ed orecchiabile, è una delle vie che può condurre gli stranieri ad invaghirsi del bel paese.

Se parliamo di lingua italiana, è normale chiedersi cosa abbia fatto la Crusca in questo contesto. La Settimana della Lingua ha avuto il sostegno e il coinvolgimento dell’Accademia, ma, se guardo alle iniziative dirette al grande pubblico negli ultimi mesi, gli sforzi profusi non appaiono efficaci nel raggiungere un’audience di non specialisti. Il grosso dell’impegno ha riguardato il rilancio di un autore importante, ma, diciamolo, un pò d’antan (otto secoli, minuto più minuto meno). Stiamo parlando di Dante (Alighieri), riproposto da articoli, trasmissioni e post sui social legati insieme dall’hashtag #Dantedì.
Piccolo outing: mi sono spupazzato la Divina Commedia per tre anni quando ero al liceo. Non posso dire di aver amato Dante. Ma se lo ristudiassi oggi forse la cosa cambierebbe: avrei gli strumenti per inquadrarlo come uomo del suo tempo, di vedere come nel suo lavoro trovassero sintesi non solo la lingua, ma anche la filosofia, la religione e la scienza dell’epoca. Chi andava in chiesa per sentir recitare i canti della Commedia lo faceva con lo spirito con cui l’uomo moderno va al cinema, uscendo dalla sala impressionato dagli effetti speciali. Diamogli il posto d’onore che si merita a quest’uomo. Non solo la lingua italiana, ma l’intera cultura occidentale, inclusa quella americana, passa da lui. Senza se e senza ma.
Detto questo, Dante è il passato. Fa fatica, oggi, a parlare alle persone comuni (lato positivo: meno rischi di finire nel tritacarne della cancel culture, ma non divaghiamo). Il mondo è cambiato e con esso tutti i punti di riferimenti sociali e culturali dell’homo sapiens 2021 edition, quello globalizzato e sul piede di guerra contro la cultura maschile a trazione bianca ed eterosessuale . Per dirne una, lo avevano proposto anche a John Malkovich di portare a teatro Dante, ma lui ha rinunciato: e chi lo capirebbe un testo così al giorno d’oggi? Difficile dargli torto.

Tornando alla Crusca, puntare tutto sul cavallo Dante mi sembra una scelta sbagliata. When all you have is a hammer, every problem looks like a nail. “Quando tutto ciò che si ha è un martello, ogni problema ci sembra un chiodo”, dicono gli americani. Facile immaginare che i cruscosi, avendo dedicato una vita allo studio di Dante, davanti alla domanda su come evangelizzare la lingua italiana, finiscano per rispondere con Dante. Ma non va bene. Per gli stranieri che studiano italiano il Sommo Vate deve essere un punto di arrivo per gli amanti più sfegatati. Non può essere un punto di partenza. Pochi sono gli italofoni che oggi riuscirebbero a leggere la Divina commedia senza una corposa e puntuale chiosa di ogni verso. Farlo fare ad uno straniero significa stenderlo subito, facendogli mettere una pietra sopra ad ogni velleità di confrontarsi con la nostra lingua e invaghirsi a poco a poco. Lo sventurato è pronto ad un incontro galante, e la Crusca gli propone di sposarsi e accollarsi l’intera famiglia al primo appuntamento. Non va proprio. Occorrono altre strategie.
Purtroppo, per ora di altre strategie non se ne vedono. Del museo della lingua italiana non ho notizie certe (anche se dietro le quinte qualcosa si muove). Da un pò di tempo a questa parte, la Crusca sta prendendo una piega “sovranista” (di cui avevo parlato in passato) che la presidenza Marazzini sembra voler accellerare [sì, con due elle] mettendo in piedi una specie di resistenza contro l’uso di parole e locuzioni inglesi in italiano.

Personalmente, è un approccio che non condivido. Da italofono che vive in USA ho un punto di vista privilegiato. Per me usare una lingua significa capire e farsi capire dagli altri parlanti di quella lingua. Questa è una lezione che chiunque abbia vissuto in un paese di lingua diversa dalla propria madrelingua conosce molto bene. Se non partiamo e non teniamo ben fermo questo punto di vista durante le discussioni linguistiche, si finisce molto presto per parlare del proverbiale “sesso degli angeli”, discussioni appassionate e magari erudite che finiscono per lasciare il tempo che trovano. La prima domanda da farsi è: a chi si rivolge chi usa anglismi in italiano? Facile indovinare: ci si rivolge ad un pubblico di italofoni attivi nella società. È presumibile, anzi auspicabile, che quelle persone abbiano studiato inglese a scuola e che si sentano (che siano! infatti) parte integrante di una società sovranazionale in primo luogo europea e, in secondo luogo, globale. Se quella è la comunità di riferimento, è naturale che la lingua comune sovranazionale si imponga autonomamente e che essa “invada” le lingue nazionali.
Marazzini lancia l’allarme sulla possibilità che l’inglese sia a tratti fuorviante. Con l’esempio di “country manager” avverte che alcuni italofoni potrebbero associarlo con l’espressione “musica country”. Non sono convinto: già alle scuole medie, da quarant’anni almeno, si insegna che country significa sia “campagna” che “paese/nazione”. Improbabile che siano in tanti a fare quell’associazione quando l’espressione appare in due diversi contesti oggigiorno. Dicendo “country manager”, un italiano, un francese, un tedesco e uno spagnolo si capiscono. Se ognuno usasse i variegati traducenti della propria lingua, la comprensione reciproca si farebbe più ardua e complessa nel momento in cui occorra “switchare” (convertire istantaneamente lingua e pensiero) all’inglese.
Insomma, il fenomeno linguistico è solo il riflesso di due fenomeni molto più grandi: l’Europa unita e la globalizzazione. Comunicare tra esseri umani richiede una lingua comune, quella lingua oggi è l’inglese (nella sua declinazione nord-americana, a dirla tutta) e la sua forza pressoché incontrastabile influenza le lingue nazionali. Punto.
L’altra sera all’Eurovision Song Contest i presentatori di tutti i paesi parlavano tra loro e si rivolgevano al pubblico internazionale in inglese, senza particolari problemi e in allegria. Cosa vogliamo farci? I giovani sono così. Prima imparano l’inglese e poi lo usano per parlare ai loro colleghi in giro per il mondo. Un idioma alternativo all’inglese con quelle potenzialità semplicemente non c’è. Chi non conosce l’inglese lo impari. Netflix offre film e serie TV in lingua originale con sottotitoli in inglese e in italiano (e varie altre lingue, se è per quello).

Per essere chiari, trovo rispettabili i punti di vista di chi si oppone alla globalizzazione chiedendosi se questa sia foriera di un mondo migliore (vale la pena discuterne eccome!), ma non credo che questa discussione pertenga alla Crusca in modo particolare, e non perché qualcuno glielo proibisca, ma semplicemente perché siamo in presenza di movimenti storici di portata mondiale contro cui poco o nulla si puote. The tail is wagging the dog, ironizzerebbero gli americani: il tentativo di stoppare gli inglesismi con un diktat è la coda che prova a scodinzolare il suo cane. Un’impresa in cui aveva fallito anche il Fascismo, figuriamoci se ce la farebbero i governicchi tipo quelli messi a dirigere l’Italia anarcoide negli ultimi anni.
Marazzini vuole difendere la purezza dell’italiano? Faccia pure, ma, posta in questi termini, la resistenza è futile. Che piaccia o no, gli italiani del 2021 hanno bisogno di una lingua che non coincide con quella immaginata dal presidente. Proponga pure alternative la Crusca attraverso il gruppo INCIPIT, ma quei traducenti dovranno poi volare da soli.
Che fare, allora? La cosa interessante è che l’inglese è strapieno di parole regalate dalle lingue romanze. Nei campi in cui l’Italia è leader, poi, le parole italiane impazzano anche in inglese (guardare il menù di qualsiasi ristorante americano con velleità di raffinatezza per credere). In questo senso, per promuovere l’italiano all’estero, hanno fatto di più i Måneskin con la loro musica e il loro look gender fluid di quanto abbia fatto la Crusca ultimamente.

Con la loro vittoria a Rotterdam, i quattro ragazzi romani hanno portato milioni di loro coetanei a compulsare Google per capire il senso di quel rock ribelle. E questo non lo dico io, ma lo dicono i commenti di russi, israeliani, americani e tedeschi sulle diverse piattaforme social. Certo, da un punto di vista di variazione diacronica, diafasica, diamesica, diatopica e diastratica siamo agli antipodi rispetto alla lingua proposta dai professori, ma, ad un certo punto, ‘sticazzi: l’importante è che gli stranieri all’italiano ci arrivino. Da italofoni che vogliono imparare l’inglese, quando accendiamo Netflix, Amazon Prime o Sky, mica andiamo a cercare le commedie di Shakespeare. Semmai cerchiamo Breaking Bad, The Man in the High Castle, il Trono di Spade, The Deuce, Black Mirror ed un ampio numero di serie figherrime che ci appassionano di scena in scena.
Ecco. Cominciamo a produrre serie televisive divertenti. Qualcuna c’è, ma ne servono di più (magari non in dialetto troppo stretto, altrimenti mi tocca mettere i sottotitoli in inglese anche a me). Per quanto riguarda la musica, i Måneskin sono arrivati in vetta, ma Mamhood nel 2019 e Francesco Gabbani l’anno prima hanno dimostrato che la lingua italiana ha le carte in regola per farsi amare dai giovani di ogni paese a prescindere dal genere.
Avanti così ragazzi. Non fidatevi troppo dei vecchi. Che lo spirito dei Måneskin sia con voi.
