Ho imparato a conoscere e ad amare la letteratura italiana soprattutto grazie a quattro signori che si chiamano John, Tibor, Zygmunt e Jeffrey. Nomi poco italiani dirà qualcuno a ragione, ma quattro studiosi straordinari per erudizione, originalità e profondità del pensiero e dell’interpretazione, con cui ho avuto la fortuna di studiare nelle università americane dove ho completato il mio percorso formativo. Come sappiamo bene, l’idea di Italia fu per circa cinque secoli un’idea prettamente letteraria: non esisteva uno stato unitario, nei diversi stati e staterelli si parlavano i dialetti locali e, a volte, le lingue delle potenze europee che li controllavano e la lingua concepita e forgiata da Dante, Petrarca e Boccaccio sul modello del vernacolo fiorentino era la lingua franca solo nei testi letterari. Quando si parla di Italia e di italiani, dovremmo sempre ricordarci di questo dato fondamentale, altrimenti rischiamo di dire sciocchezze.
Chi ha la bontà di seguire questa rubrica forse ricorderà un mio precedente articolo in cui sostenevo che la letteratura italiana contemporanea è arricchita oggi da scrittrici e scrittori che non sono anagraficamente italiani, o che vivono stabilmente fuori dai confini italiani o che non hanno altro legame con l’Italia se non quello di averne adottato la lingua: Helena Janeczek, Jhumpa Lahiri, Amara Lakhous, Igiaba Scego, tanto per fare alcuni nomi. Il contributo di questi scrittori è fondamentale non solo perché riflette le molteplici sfaccettature della società italiana di oggi, ma anche perché ciascuno di questi autori porta con sé nei libri che scrive in italiano anche la sapienza, la prospettiva e l’intonazione delle lingue e delle culture da cui proviene. Senza il loro contributo la nostra lingua e la nostra letteratura oggi sarebbero più povere e più piatte.
Ma torniamo ai professori coi nomi poco italiani. Arrivato negli USA, dopo la laurea a Parma, mi ritrovai a studiare con loro e a scoprire un mondo del quale appena conoscevo l’esistenza: un mondo popolato appunto di docenti e studenti di ogni origine etnica e nazionale che, per passione, decidono di dedicare la loro vita alla nostra letteratura e alla nostra cultura. All’inizio ero stupito e incuriosito dalla loro scelta: l’italiano, dopo tutto, è una lingua parlata da poche persone tutte concentrate in una sola zona, con un passato senz’altro interessante, ma poco rilevante nello scenario geopolitico contemporaneo.
Il primo che trovai sulla mia strada si chiamava Tibor Wlassics (grazie a lui iniziò la mia avventura americana). Tibor era nato e cresciuto in Ungheria, veniva da una famiglia importante, il padre venne imprigionato subito dopo la guerra come ‘nemico del popolo’ e la madre morì poco dopo di crepacuore. Lui e il fratello poterono studiare grazie ai gesuiti che tennero nascosta la loro identità. Nel 1956, durante la rivoluzione antisovietica, riuscirono a disertare e dopo la dura repressione riuscirono ad attraversare il confine con l’Austria. Ai funzionari della Croce Rossa che chiedevano ai profughi dove volevano andare, Tibor rispose “dove c’è il mare… non l’ho mai visto” e così approdò a Genova, senza sapere una parola di italiano, e cavandosela all’inizio solo col latino che conosceva perfettamente. In solo quattro anni si laureò in letteratura italiana, perfettamente in corso e si sposò con Luciana, una ragazza che sembrava l’incarnazione moderna delle donne del Dolce Stil Novo. Grazie a una borsa di studio poté continuare i suoi studi con un dottorato alla Columbia University, con una dissertazione su Dante, ovviamente.
Tibor fondò il programma di Master alla University of Virginia, la rivista Dante Studies che diresse per anni e pubblicò studi fondamentali su Dante, Galileo e Pavese, ma era soprattutto un docente fantastico, un grande affabulatore con la sua profonda voce baritonale e il suo inconfondibile accento ungherese che lo seguiva in qualunque lingua parlasse. Ogni anno, per l’anniversario della rivoluzione del 1956 dedicava una lezione al suo ricordo personale. Concludeva sempre ricordando come il giorno dopo gli scontri più violenti, per le strade di Budapest, i corpi dei giovani uccisi dalle truppe sovietiche venivano ricoperti da badilate di calce viva per evitare infezioni ma anche come monito. “I bianchi fiori della rivoluzione” li chiamava Tibor. E in aula calava un silenzio surreale e tra quei ventenni non c’era un occhio asciutto.
Tibor, che era un fine filologo e un critico raffinatissimo capiva autori come Dante e Galileo, soprattutto grazie alla sua esperienza personale di perseguitato, esiliato, profugo, migrante. Più ci penso e più sono contento di aver studiato Dante con quel nobile signore ungherese. “Prima gli italiani” non ha senso nemmeno quando si parla di professori di letteratura italiana. Di John, Zygmunt e Jeffrey vi parlerò un’altra volta