E’ il momento a New York degli artisti che cercano di spiegare il mondo. La maggioranza vuole spiegarlo al prossimo. Alcuni vogliono spiegarlo solo a se stessi. A questa seconda categoria appartiene un ex-contadino veronese, ex volontario nella guerra di Spagna, di cui appare al raffinato American Folk Art Museum – accanto al famoso Lincoln Center – la prima mostra retrospettiva americana succintamente intitolata Carlo Zinelli, 1916-1974.
Pochi hanno conosciuto il pensiero di Zinelli, perchè era, da ragazzo, tendente al mutismo e da giovanotto il tipico contadino di poche parole della campagna veronese. Ma dopo il suo ritorno dal succitato conflitto civile spagnolo, a cui si veniva spediti, sotto il fascismo, in veste di ‘volontari’ senza essere stati mai interpellati, e a cui Zinelli partecipò solo perchè già arruolato nel corpo degli Alpini, non parlava più affatto o al massimo biascicava parole incomprensibili. Si fece presto a dire che era malato di schizofrenia.
Adesso che in un’America in guerra da quindici anni il numero degli ex militari afflitti da ‘disturbo da stress post-traumatico’ (PTSD) è salito all’ordine delle migliaia e non è più liquidato con disinvoltura, come si faceva un tempo in Italia, con il semplice termine ‘scemi di guerra’, la bellissima mostra che il museo newyorkchse dedica a questo totalmente indipendente pittore può dare un contributo alla ricerca non solo sulle fonti dell’estetica ma anche sulle spinte interne che l’immaginario riceve dalle esperienze più dolorose.
Non c’è dubbio che le esperienze di Zinelli nella mostruosa guerra di Spagna siano all’origine della sua arte. Dopo che Zinelli, nel 1947, si era fatto ricoverare a Verona nell’ospedale psichiatrico San Giacomo della Tomba, aveva con entusiasmo aderito a partecipare alla scuola d’arte avviata nell’ospedale dallo scultore scozzese Michael Noble. Attraverso questa aveva trovato in un torrente di disegni, pitture e sculture la possibilità di dare espressione non solo a un’innata inclinazione artistica, ma a un tormento e a fantasmi che lo piegavano ad obbedire intimazioni più forti di quelle del suo spirito cosciente. L’estetica di Zinelli, i suoi eserciti di ‘zombie’ e di uomini robot, le sue donne e uomini-groviera costellati di buchi, i rari aneliti di tranquillità tradotti in navi misteriose con equipaggi di pupazzi che salpano verso l’orizzonte sono infatti interpretabili soltanto come una continua narrativa, dove le immagini sono parole, e le parole una esigenza di spiegazione, una preghiera, una protesta. Non una Guernica; certamente no come stile; ma lo stesso tipo di narrativa, fatto da Zinelli attraverso insistenze ritmiche, irruzioni e proliferazioni di simboli incomprensibili e parole inarticolate, contrasti stridenti di colori e forme, nella più totale libertà espressiva.
Come per Basquiat, col quale condivide alcune forme di sfogo, e che ebbe per amico e patrono Andy Warhol, Zinelli è arrivato alla coscienza del pubblico attraverso un mediatore celebre. E’ Jean Dubuffet, che già da tempo, negli Anni Cinquanta, aveva cominciato a indagare le possibilità di quella che a definiva “art brut”, l’arte ‘cruda’ o ‘primordiale’ che può sgorgare inarrestabile dalle fonti più profonde e al di fuori di qualsiasi contesto accademico o proposito intellettuale. Egli incluse subito Zinelli nella sua collezione di questo tipo di opere, collezione che proprio al Folk Art Museum aveva avuto le sue prime presentazioni collettive (l’ultima l’anno scorso, quando l’esposizione incluse per la prima volta Zinelli; evocato poco dopo anche dalla Outsider Art Fair – l’arte al di fuori del razionale – tenutasi pochi mesi dopo a Manhattan).
Nel frattempo le mostre dedicate ad artisti che in uno o altro modo vogliono spiegare il mondo proliferano. Lo spazio disponibile mi costringe a citarne solo un paio. Una è quella di Adrián Villar Rojas, giovane ma già celebre regista, pittore, ‘installer’ e scultore argentino, che sul terrazzo del Metropolitan Museum of Art ha avuto il permesso di installare copie in gesso di frammenti scultorei tratti da tutti i dipartimenti del più grande museo del mondo, arrangiate una sull’altra o una dentro l’altra negli accostamenti più inaspettati. Sistemati su una serie di tavole imbandite, anch’esse riprodotte in gesso, questi grovigli formano una mostra intitolata The Theater of Disappearance, cioè “Teatro di sparizioni.”
L’artista cita Borges, Freud e Wittgenstein a illustrazione della sua arte, che spiegherebbe non tanto la sparizione, quanto le ragioni dell’universo. L’altra mostra ha per autore l’inimitabile artista anonimo inglese detto Banksy, e anche se non è a New York, ma nella striscia di Gaza, fa parlare molto di sè tra la vastissima comunità israelo-americana newyorchese. Si tratta di un intero piccolo albergo carico di manichini e illustrazioni enigmatiche, eretto davanti al muro con cui Israele ha fatto della striscia palestinese un ghetto, e che si chiama il Wall-dorf Hotel, ossia ‘hotel del villaggio del muro’. Con quest’opera il misterioso writer vuole penetrare uno dei più fetidi “perchè” del nostro tempo.