Domenica 23 aprile, la Francia va al primo turno delle elezioni per la successione al socialista François Hollande. Il paese, sotto choc per l’ennesimo attentato islamista al centro di Parigi, indicherà i due candidati che il 7 maggio si contenderanno l’Eliseo.
La campagna elettorale è stata del tutto anomala, tanto da portare all’acme la sfiducia nel sistema politico nazionale (il sussiegoso Le Monde ha aperto un dibattito sulla fine della 5^ Repubblica) e far dire a diversi commentatori che si tratta di elezioni che esprimono la follia di un sistema politico giunto al capolinea.
E’ il consueto modo francese di esagerare ed estremizzare. In realtà la Francia sta esprimendo ciò che da tempo circola in Europa: la crisi sistemica di un modello di democrazia che non riesce a fornire ai cittadini elettori le risposte che attendono. E’ toccato ieri al sistema politico spagnolo sentirsi fare le stesse accuse, e toccherà domani a quello italiano quando, presumibilmente la prossima primavera, andrà alle urne.
E’ sbagliato il bersaglio delle critiche: sono soprattutto i politici che interpretano le istituzioni e i dirigenti che esercitano funzioni pubbliche, non le istituzioni, a portare le responsabilità della situazione. E a loro volta politici e management pubblico non fanno altro che rappresentare la qualità (scarsina) dei tempi e le qualità (scarsine) degli elettori.
La campagna francese, su questo ha detto cose interessanti, anche perché nuove, rispetto alle competizioni presidenziali del passato.
Tanto per cominciare, il presidente uscente non si ripresenta, evidentemente consapevole di aver male esercitato il proprio mandato. In campagna elettorale piccolo occupante dell’Eliseo non è stato nemmeno oggetto di critiche, ma semplicemente ignorato, un trattamento che ricorda quello riservato da Churchill all’avversario laburista dal quale era stato battuto alle elezioni: “Un taxi è arrivato vuoto a Downing Street e ne è sceso Attlee”.
Gli undici candidati, certamente la quadriga di testa di tutti i sondaggi – Marine Le Pen, Emmanuel Macron, Jean-Luc Mélenchon, François Fillon – sono, per un verso o per l’altro, poco o nulla rappresentativi del modo tradizionale di fare politica, anche rispetto agli schieramenti politici di riferimento. E’ il caso di Le Pen, notoriamente in rotta con il lepenismo storico paterno e non in sintonia con quello che presumibilmente verrebbe dopo di lei (nipote). Lo stesso dicasi del candidato socialista Benoît Hamon, minoritario nel suo stesso partito.
I probabili competitori al secondo turno, Le Pen e Macron, appartengono ambedue a forze politiche che sinora non hanno mai occupato la poltrona presidenziale. Per la cronaca, Macron, leader di “En Marche”, avanti per Odoxa anche il giorno successivo all’attentato di Champs Elysées, figura come il probabile vincitore del secondo turno.
Nonostante si legga di coppia sicuramente vincente, considerando il fatto che negli ultimi tempi i sondaggi si sono rivelati incapaci di leggere nella mente degli elettori, va sottolineata l’incertezza della vigilia. Nel citato sondaggio Odoxa, Macron è dato al 24,5%, Le Pen al 23%, Fillon e Mélenchon si attestano al 19%. Ma su 44,8 milioni di elettori aventi diritto, si legge che le astensioni dovrebbero raggiungere il 30% e che tra i votanti più di uno su quattro non sa per chi voterà.
Contrariamente a quanto sostiene in tweet e intervista ad Associated Press il mestatore americano Donald Trump (gli americani lo interroghino su quale sarebbe l’interesse degli Stati Uniti ad avere l’Europa debole e divisa che lui sogna, e gli chiedano finalmente conto del perché continua a interferire negli affari europei per demolire quel poco di Unione che ancora sopravvive), l’attentato di Parigi ha avuto sulla candidatura Le Pen l’effetto immediato di un solo punto di crescita nei sondaggi. Al tempo stesso Macron ha perso solo 0,5%. Coerentemente con le loro posizioni, rispettivamente antieuropeiste ed europeiste, Le Pen aveva invocato chiusura delle frontiere e immediata uscita dagli accordi di Schengen, Macron l’aggiornamento di Schengen.
Le istituzioni UE sono finite, cosa della quale avrebbero fatto volentieri a meno, nel tritacarne della campagna elettorale. In ballo è il rapporto tra Francia e istituzioni che, paradosso, della storia, sono state fatte soprattutto dalla Francia (anche più che dalla Germania, vista quale storia ha avuto la Germania nel dopoguerra sino agli anni novanta dello scorso secolo). Sparare sull’ambulanza è sport gradito ad ogni politico (alias demagogo) che si rispetti. Sparare sull’ambulanza UE è ancora più facile, visto che non ha un proprio sistema di difesa. Ma prendersela con l’accordo di Schengen o con Bruxelles quando a compiere attentati sono cittadini del paese che li soffre e che circolano a piede libero per responsabilità di polizia e/o magistratura nazionali (ogni riferimento all’ultimo attentato di Parigi è volutamente casuale), significa ingannare la gente. E ancora: non esiste regola UE che non sia stata approvata dagli stati membri: allora?
L’Europa contemporanea, è stato detto, si compone di due categorie di paesi: quelli che sono piccoli e lo sanno, quelli che sono piccoli e fanno finta di non saperlo. I primi provano a costruire istituzioni comuni su base di regionalismo cooperativo, gli altri nuotano contro persi dentro miti nazionalistici o peggio.
Fuor di metafora: di piccoli paesi europei, l’islam guerriero ha già fatto boccone in altre epoche della storia. L’islam militante e insieme idiota che abbiamo di fronte, uccide nelle città europee avendo come obiettivo finale la distruzione della nostra democrazia (di questo si tratta: distruggere l’UE significa consentire a politici e burocrazie nazionaliste di tornare al passato). Può essere battuto solo da una polizia federata che faccia collaborare i diversi sistemi statali, da sistemi di giustizia federati che la smettano di farsi del male a vicenda e che rendano le leggi omogenee, da sistemi carcerari nazionali che cooperino, da intelligence che si passino le informazioni invece di nascondersele vicendevolmente, da un sistema Schengen che va rivisto alla luce delle attuali necessità di sicurezza, da politiche di immigrazione e accoglienza comuni.
Al ballottaggio del 7 maggio, si legge in giro, potrebbe vincere Marine Le Pen, spinta da tre fattori: la collera (contro scandali, ruberie, incompetenze della politica), la paura (di immigrati, arabi, terrorismo islamico), nostalgia (di valori come patria e famiglia, e il tempo che fu).
Se accadesse, la Francia per la terza volta avrebbe impedito all’integrazione europea di spiccare il volo, come previsto dalla recente Dichiarazione di Roma.
Lo fece la prima volta il 30 agosto 1954, bocciando la Comunità Europea di Difesa, con voto del suo Parlamento. Commentò l’americano Herald Tribune: “As expected, the coalition of extremists, including both Communists and De Gaullists, proved too strong for the moderates who formed the core of the EDC backing”. Si tenga a mente il termine “extremists” e si consideri il connubio tra nazionalisti gollisti e i comunisti filosovietici. L’estremismo eversivo europeo si dà sempre la mano quando si tratta di agitare la bandiera del nazionalismo.
Lo fece la seconda volta rigettando con referendum, il testo della Costituzione europea, il 29 maggio 2005. Il no ottenne il 55% dei voti: contro si espressero il 60% dei socialisti, le estreme destra e sinistra, molti centristi e gollisti.
Le Pen presidente porterebbe la Francia fuori dall’UE, segnando la fine del progetto di francesi emeriti come Robert Schuman, Jean Monnet, Jacques Delors, François Mitterrand. L’UE imploderebbe su se stessa.
L’ipotesi della Germania (ora impegnata a marginalizzare gli estremisti nazional-populisti di AfD) in mezzo a due stati dal nazionalismo rampante come attuale Polonia e Francia lepenista, è promessa di un incubo certo, per l’Europa e il mondo.