Una voce mite e universale, quella di Pierluigi Cappello, che parla in modo sommesso a chi sa ascoltarla, che obbliga ad un’attenzione partecipe anche chi vi si imbatta distrattamente e dopo qualche verso torni al rigo iniziale per riassaporarne la profondità dei suoni, divenuti parole significanti nel transito breve tra la ricezione e l’accoglienza e allora accade un prodigio assai raro, pare di entrare in un mondo che chiami la nostra presenza perché noi lì ci siamo sempre stati; è un tornare anche nell’apparente stupore di meravigliato assenso che non ci fa più andare via, la pagina restituisce la dimensione e l’odore della terra, forti e infiniti come ci appaiono nei mutamenti che possiamo chiamare “essere”, dove ha posto tanto la roccia quanto la solidità irriducibile che le è propria, tanto la luce del sole quanto la difficoltà di tracciare una via, nell’umana durata di un sogno, tra vita e pensiero. Il Friuli è lo spazio e il tempo da cui Pierluigi Cappello non può prescindere, è la sua storia, una storia che si è provato a raccontare nelle liriche numerose e asciutte che hanno nomi e versi trasparenti, leggeri come piuma, liberi come l’aria: “Gerico”; “Piove”; “Cerchio”; “Queste siepi”; “Parole Povere”; “Elementare”; “In quale bosco”; “La strada della sete” e tutte le altre che non somigliano a nessuna cosa detta eppure attraversano i territori, semplici come i confini di una montagna, la linea ondulata di una collina, quel che non è manipolabile, la verità forse.
A Gemona il poeta è nato nel ’67, ma non vi ha mai abitato, non ne ha ricordi, a Chiusaforte, Scluse in friulano, comune montano della provincia di Udine, situato nella valle del Fella, prossimo alla Slovenia, ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza.
Era bambino il sei maggio del ’76 quando la terra tremò in quella regione, così forte da non lasciare in piedi nemmeno una casa, nel disagio delle tendopoli egli visse più a lungo fuori, fra coetanei, la stagione dei bisbigli e degli scherzi, tutti in friulano, assicura. L’adolescenza gliela segnò a sedici anni un incidente in moto con un amico, egli non poté più camminare, l’amico non sopravvisse.
La sua biografia annovera pubblicazioni e premi, al ’94 risale la raccolta poetica «Nebbie», al ’98 «La misura dell’erba», del ’99 è «Amôrs», allo stesso anno risale «La Barca di Babele», collana di poesia edita a Meduno, fondata e diretta insieme ad altri poeti friulani; «Dentro Gerico», altra raccolta poetica, è del 2002, nel 2004 vince con «Dittico» il premio Montale Europa di poesia. Con «Assetto di volo», pubblicato da Crocetti nel 2006, vince i premi Pisa e Bagutta Opera Prima, mentre nel 2008 esce la raccolta di prose e interventi «Il Dio del Mare», ma è con «Mandate a dire all’Imperatore» che si aggiudica nel 2010 il premio Viareggio- Repaci. Incontriamo Pierluigi Cappello a Tricesimo, pochi chilometri da Udine, dove vive da diversi anni.
Nella foto, Pierluigi Cappelli
Come potrebbe illustrare l’esperienza di Meduno, della Barca di Babele, per chi non la conosce?
«Sono in molti a non conoscerla, è stata un’esperienza esaltante, un’avventura nelle intenzioni nostre, mia, di Amedeo Giacomini, di Ivan Crico, di Gianmario Villalta, di Ida Vallerugo e Luigi Bressan. L’intenzione era quella di fornire un censimento sulla poesia di questa porzione di territorio, di questa Regione, partendo dall’asserto che si è verificata una crisi pesante a livello critico, per cui l’accademia e di conseguenza anche la grande editoria non dava conto esattamente di quel che accadeva in poesia in Italia. Se la nostra esperienza fosse stata replicata sul piano nazionale, io credo che prima di tutto avremmo avuto un censimento attendibile di quel che accade in poesia in questo momento, in questo torno di anni e poi, in virtù di questa sospensione critica che facevamo, si sarebbe potuto avviare un dibattito sulla poesia nazionale».
La ritiene un’esperienza replicabile?
«Era un’esperienza che presupponeva una forte spinta passionale, abbiamo fatto tutti, nessuno escluso, un lavoro fondato sul volontariato perché, come prima nostra condizione, non abbiamo voluto ricorrere a fondi pubblici, viveva mo delle vendite grame di una collana di poesia in Italia, alla fine degli anni N o v a n t a , quindi senza il volontariato e la passione credo non sia replicabile. Poi c’è anche un altro aspetto, ognuno di noi, che era già una personalità poetica, letteraria molto spiccata, è stato capace di deporre la sua personale visione critica per fornire un contributo che fosse collettivo».
Che cosa accomuna i poeti friulani?
«Questo è un discorso complesso, senz’altro il fatto che si trovano tutti, volenti o nolenti, in una condizione di bilinguismo, il friulano è una lingua, poi resta da capire che cosa possa essere una lingua. Dal punto di vista filologico lo è senz’altro, dal punto di vista sociale si potrebbero aprire dei discorsi, potremmo dire che una lingua è qualcosa che ha un esercito alle sue spalle, per cui in questo caso il friulano non sarebbe una lingua. Questa condizione di bilinguismo fondamentalmente credo che accomuni, che sia territorio comune, è questa necessità continua di attività di traduzione interiore, inesausta».
Il friulano è vissuto dai poeti di questa zona come linguaggio più intimo, introspettivo, rispetto all’italiano che può essere inteso come linguaggio convenzionale?
«Non direi precisamente questo, direi che il friulano, come gran parte dei dialetti di questa penisola, che erano il vero petrolio per la letteratura di questo paese, è un idioma molto vicino ai fenomeni naturali e riesce a darne conto con maggiore precisione, con efficacia, mentre l’italiano, per la sua storia, è una lingua che io ho definito senza popolo, né nazione, una lingua disperata perché è nato dalla selezione che ne fecero prima il Petrarca e poi il Bembo, slegandolo completamente dal fango delle strade, dalla vita pulsante e confinandolo nelle biblioteche del Rinascimento, l’italiano è stato sì la lingua alta, curiale, però ha perso la presa sulle cose che accadevano. Il friulano penso che sia una parte consistente nel mondo poetico mio personale, che mi permette una pronuncia alta del mio io, là dove non arriva l’italiano utilizzo il friulano e viceversa».
Il friulano che ricorda di avere sentito parlare da bambino è quello di oggi?
«E’ in atto da tempo una progressiva erosione del numero dei vocanti in friulano, è ancora parlato in Carnia e nelle valli più conservative, però si assiste ad una progressiva italianizzazione ne, vent’anni di fascismo e di una nazionalizzazione spinta e prima ancora il risorgimento hanno imposto questa urgenza di parlare tutti l’italiano, il dialetto era sinonimo di povertà e ignoranza, ma il friulano non era soltanto la lingua delle osterie. Chi è in possesso di strumenti del genere oggi come oggi ha una coscienza estremamente sofisticata, però la gente comune non lo percepisce».
Al di là della definizione di parola dialettale o ufficiale, comunque il linguaggio in sé non ritiene che rappresenti sempre un compromesso rispetto a quella che è “l’intenzione” poetica, ciò che si avverte?
«Certo, questo perché siamo umani, se fossimo divini non ci sarebbero compromessi».
Nominare la realtà è ridurla, in qualche modo.
«Esatto, è proprio così, a questo non sfugge nessun idioma, neanche il friulano, però la poesia prova a suturare questa lacerazione tra “io” e “realtà,” avvicina questi due lembi, in perpetuo divorzio, cercando di dare con questa azione una prospettiva differente, uno sguardo diverso sulle cose».
La contemporaneità interferisce sempre con il processo creativo, in tutte le epoche?
«Sì, o in positivo o in negativo, interferisce sempre, il processo creativo la sottende, però viene trasformata, la poesia sta al centro di un asse sincronico e diacronico, sta lì in mezzo, tra queste due grandi direttrici, uno scrittore in versi deve preoccuparsi di ciò che accade e nel contempo avere uno sguardo dislocato anche tra passato e futuro».
Il dire poetico segna un’appartenenza?
«Sì, l’appartenenza alla poesia, si parte da un luogo preciso, bisogna partire da quello che si conosce, una volta se li inventavano i luoghi, pensiamo ad Orazio, ma senza un luogo è molto difficile andare da qualche parte. La poesia, però, è di tutti, io la vedo con questo spirito, con questa spinta extra territoriale, parte da una localizzazione precisa che dovrebbe diventare di tutti, per cui è possibile che un poeta cinese che parte da luoghi definiti e precisi, parli perfino a noi in Occidente e viceversa».
Non si può non chiedere ad un poeta friulano che tipo di incontro ha avuto con la parola di Pierpaolo Pasolini?
«Io di Pasolini ho utilizzato una figura, il Donzel, in Pasolini rappresentava una simbolizzazione dei ragazzi che lui vedeva fisicamente a Casarza, in me, invece, questo Donzel è diventato un simbolo letterario, una sorta di mio alter ego, oppure ancora l’unico uditore possibile per la mia pronuncia friulana, per la mia voce friulana, lo si può leggere anche così, insomma questo Donzel diventa una teatralizzazione del mio io. Non si può prescindere dal Pasolini friulano, se si vuole scrivere in friulano».
E’ un’eredità pesante?
«E’ un’eredità, poi ci si sottrae però la partenza è lì, ricordiamoci che lui e Tonino Guerra sono coloro che hanno reso possibile una nuova scrittura in dialetto, consentendo di uscire dal vernacolarismo che ha segnato gran parte della poesia dei primi del Novecento in dialetto, salvo casi luminosi come Virgilio Giotti».
Quali poeti ha amato e ama?
«Io amo la pronuncia precisa, secca di Philip Larkin, Wislawa Szymborska, Mark Strand e le poesie- racconto di Carver; tra gli italiani ricorderei Giorgio Caproni e Luciano Erba».
L’intenzione di poesia è in fondo la poesia, o è lo stile, ciò che si sceglie?
«E’ entrambe le cose, l’una non esclude l’altra».
Nella sua poesia non entra mai la dimensione del pensiero sociale, politico?
«Credo che sia impossibile scrivere direttamente poesia civile oggi perché si è immediatamente superati da un talk show o da una notizia di telegiornale o da qualsiasi altra cosa che viene proposta da internet o dalla televisione. Invece la poesia ha un valore civile in sé, in questo momento chiunque scriva poesie direttamente sui fatti politici, sociali che accadono, scrive generalmente poesie goffe e velleitarie, a mio parere, non è quella la forma per essere civili con la poesia. Nella poesia quando tu dai la possibilità di uno sguardo differente sulle cose, tu hai già fatto un gesto che è profondamente civile e anche politico. La poesia deve suscitare uno scarto, è dentro questo scarto che vive e respira il gesto civile, basta far parlare le cose, metterle in una posizione di reciproca illuminazione, io mi sforzo di trovare una trasparente ambiguità nella poesia, una chiarezza misteriosa».