Alighiero Boetti, nato a Torino nel 1940, ha esplorato innumerevoli linguaggi in un percorso artistico multiforme, rivelandosi creatore originalissimo. Nel Salone d’Onore, nella Sala bianca e nel porticato borrominiano di Palazzo Carpegna a Roma è esposto fino al 15 febbraio un nucleo selezionato di opere intorno ai temi, propri dell’artista, del doppio e della proliferazione dall’uno al molteplice.
Si è scelto di indagare, in un percorso inusuale, l’aspetto rigoroso, immaginifico, soprattutto concettuale del suo lavoro. La monumentale Opera postale in mostra è una summa di momenti specifici della ricerca compiuta negli anni da Boetti: le permutazioni e i lavori postali; le griglie da uno a cento e viceversa; le sagome degli oggetti; i disegni tratti dalle Polaroid e dalle copertine delle riviste; i graffiti primitivi delle caverne; i fogli pieghettati e quelli Extra-strong; il motivo iconografico della linea e quello del cerchio aperto di derivazione orientale; i timbri e i sigilli; le scritture tracciate con la mano sinistra e la pittura “soffiata.”

L’opera di Alighiero, scrive il curatore, nonché Presidente dell’Accademia di San Luca Marco Tirelli, si faceva nel tempo e nel suo attraversare il mondo e dagli scarti che questo fatto produceva; i lavori postali sono emblematici in tal senso. Di dimensioni colossali, realizzata nel 1992-93, un anno prima della morte, con la collaborazione delle Poste francesi, de Le Magasin-Centre National d’Art Contemporain di Grenoble e del Musée de la Poste, la composizione si articola in 11 serie, ognuna delle quali formata da due elementi: le buste e i disegni, 506 buste affrancate e timbrate e 506 disegni a tecnica mista. Attraverso il lavoro postale era l’opera che si faceva nel suo viaggiare, il viaggio entrava nel farsi di un’opera d’arte in maniera involontaria, indipendente. Egli portò alle estreme conseguenze questa idea radicalizzandola, spedendo per il mondo lettere a indirizzi esistenti, ma il cui destinatario non viveva lì o non esisteva. Le lettere tornavano indietro dopo settimane, mesi, anni e Boetti le archiviava con metodo riorganizzandole in archivi visuali che registrano i movimenti planetari di questi oggetti erranti, in equilibrio precario tra intenzione e non senso.
Si definiva “insicuro noncurante” perché era dall’ingovernabilità dei processi che metteva in moto che l’opera d’arte si faceva, in uno scarto tra senso e non senso, tra ordine e disordine. Varcando la soglia del porticato borrominiano si viene accolti dal bronzo Autoritratto, realizzato nel 1993, opera che esemplifica il processo di trasmutazione della materia in spirito, pensiero, immaginazione, in cui il corpo poroso dell’artista viene “attraversato” dal mondo, per essere restituito come energia e forza creatrice e motrice.
Nella Sala bianca ci si imbatte nei famosi Gemelli, del 1968, fotomontaggio fotografico in cui egli si prende per mano, accompagnandosi in una passeggiata, rivelatore di quanto lui non si percepisse come un’unità, Alighiero e Boetti è esplicativo in tal senso. A seguire Storia naturale della moltiplicazione, 1974-1975, un grande polittico formato da 11 carte quadrettate, in cui l’uno è uno sciame; l’installazione Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 risale al 1992, in essa l’artista si autorappresenta insieme a una farfalla cavolaia, alludendo all’io che supera il limite corporeo.

La metafora dello specchiarsi a occhi chiusi è rintracciabile nello Specchio cieco del 1975 e allude al terzo occhio, al viaggio interiore, ai mondi fluidi che portiamo dentro di noi. Il corpo è una barriera fisica, ma l’esperienza del mondo ci attraversa e riesce da noi come se fossimo trasparenti, in un flusso che si rigenera senza soluzione di continuità. La sua visione del mondo è altresì rintracciabile in Raddoppiare dimezzando, rivelatore di quanto egli nelle forme non cercasse l’azzeramento bensì l’inscindibile tensione tra l’uno il suo doppio e il suo molteplice.

Boetti non poneva alcuna enfasi al fare individuale dell’artista, piuttosto era attento al divenire dell’opera nella sua vita autonoma, nel processo di gestazione che ha inizio dopo che l’artista ha gettato il seme nell’aria, consapevole che l’opera sarà un’opera aperta. Gli elenchi, i sistemi, gli schemi, i modelli, le strutture, le gerarchie, i principi che creiamo nei nostri processi mentali, attraverso cui pensiamo di ordinare il mondo dentro e fuori di noi, costituiscono il territorio che Alighiero ha scelto di percorrere, non perché desiderasse esercitare un dominio sul mondo, ma per far sì che, partendo dalla mappatura di questi processi mentali, attivasse la forza generatrice di continui ulteriori modelli e la loro messa in scacco mediante il caso o l’imprevisto. Attraverso l’elencazione di modelli, egli voleva mostrarne la relatività, l’inadeguatezza. Boetti è uno degli artisti che hanno lasciato un’eredità più forte alle generazioni successive, era un concentrato di mondo e al mondo voleva restituire tutto.