Dal 5 novembre, è a capo della Croce Rossa mondiale. Da mesi denuncia alla comunità internazionale la totale mancanza di rispetto nei confronti dei diritti umani, in Libia così come in Yemen e in Siria. Volontario dal 1988, 52 anni, Francesco Rocca è stato eletto a maggioranza assoluta ad Antalya, in Turchia, presidente della Federazione Internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (Firc). Già presidente della Cri italiana ed ex vicepresidente del network umanitario più grande del mondo, Rocca aveva incontrato a metà agosto al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite a New York Antonio Guterres. Al Segretario Generale delle Nazioni Unite, che qualche settimana prima aveva accusato l’Italia di essere a rischio violazione del diritto internazionale per l’accordo sui migranti con la Libia, Rocca aveva chiesto di lavorare per “garantire l’accesso umanitario in Libia, un Paese che è a tutti gli effetti in guerra”.
…e a distanza di quattro mesi da quel meeting, presidente Rocca, cos’è cambiato?
“Poco, e in peggio. Parafrasando Pasolini, non c’era bisogno della CNN o delle immagini che l’altro giorno sono state messe a disposizione dall’ONG Sea-Watch per sapere che cosa accadesse in Libia. Lo si sapeva da tempo, si è solo voluto girare gli occhi dall’altra parte a lungo. Ora però mi auguro sia pronto un riscatto morale per chi ha fatto di tutto per creare queste condizioni”.

A chi si riferisce?
“A tutti gli attori internazionali che stanno seguendo il processo di cosiddetta stabilizzazione della Libia. Oggi, se lo dico, mi sembra di accodarmi a un coro di tante voci. Ma io, noi, lo ripetiamo da 3 o 4 anni almeno. Se si fosse fatta attenzione più ai diritti umani della persona, e non ai contratti e alle convenzioni sugli idrocarburi, oggi non saremmo a questo punto. Non siamo naif, sappiamo bene che ci sono interessi e che si devono tenere in considerazione anche quelli, ma Unione Europea e governo italiano devono aprire una discussione continua”.
Cosa si aspetta?
“Mi aspetto che la comunità internazionale apra un dialogo serrato con le autorità libiche sul rispetto dei diritti umani della persona e la presenza di Angelino Alfano all’ONU in occasione del Consiglio di Sicurezza di giovedì 16 novembre credo sia una buona occasione in tal senso”.

Lunedì 13 novembre è arrivato il durissimo attacco dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, il principe giordano Zeid Rad al-Hussein, che ha definito “disumana” la collaborazione sui migranti tra UE e Libia. L’Unione Europea si è limitata a ripetere, come già fece nel corso della settimana della 72esima Assemblea Generale, che i centri di detenzione vanno chiusi. Cosa si aspetta ora dall’Europa?
“Che si riscatti moralmente e che abbia un sussulto di dignità morale, perché l’Europa ha fatto di tutto per far sì che si arrivasse a questa situazione. Non c’è più da fare analisi, le facciamo da mesi. C’è bisogno di agire”.
L’Alto commissario Filippo Grandi a settembre aveva assicurato alla Voce di New York che la missione umanitaria UNHCR fosse già pronta in Libia e che a mancare fossero solo i parametri di sicurezza. Il Ministro Angelino Alfano, nella stessa settimana, aveva fatto capire che una soluzione ci sarebbe stata a stretto giro. Sono passati tre mesi, ma nulla è cambiato: di chi è la responsabilità?
“Io non metto in dubbio la buona fede e l’assoluta buona volontà sia dell’Alto commissario Grandi che del Ministro Alfano. Credo che fino a quando non ci saranno passi in avanti da parte delle autorità libiche, mai la situazione si sbloccherà. Oggi il tema è continuare e perseguire un dialogo serrato con le autorità locali. Di nuovo, non siamo naif o crediamo che basti uno schiocco di dita per far partire le missioni umanitarie. E non penso basti che sia un Rocca a dirlo in un’intervista”.

E quindi, cosa serve?
“Oggi non ci sono meccanismi sanzionatori nei confronti di chi non rispetta i diritti fondamentali umanitari delle persone, questo è il punto. Per questo serve che il tavolo con le autorità libiche sia continuo e ci sia davvero, in modo continuativo, per fare i passi in avanti che servono. Altrimenti si torna indietro”.
Un altro fronte drammatico dal punto di vista umanitario è quello dello Yemen, un Paese strangolato dalla partita a scacchi delle super-potenze Arabia Saudita, Iran e USA: da New York e Ginevra è stato richiesto dai leader delle agenzie ONU di sbloccare il blocco di porti e aeroporti imposto di recente dalla coalizione saudita. A che punto è la situazione oggi?
“Abbiamo vissuto momenti terribili negli giorni scorsi, terribili. E il blocco era qualcosa di assolutamente illegale sotto il profilo del diritto internazionale. I segnali delle ultime ore però sono più incoraggianti, perché nonostante il bombardamento dell’aeroporto di Sanaa, i voli commerciali sono ricominciati ad arrivare: non funzionano tutte le strumentazioni elettroniche, ma si può atterrare e ripartire. Mi auguro si vada verso un ritorno alla normalità, se di normalità si può parlare: la popolazione yemenita sta subendo conseguenze di conflitto terribile, con quasi 900mila casi di colera. Quando poi a tutto quello che già sappiamo si va anche ad aggiungere e ad innescare un blocco di porti e aeroporti per le operazioni umanitarie, si va verso una condanna a morte certa di centinaia di migliaia di persone”.
In un Consiglio di Sicurezza di inizio novembre, il sottosegretario Mark Lowcock ha definito quella in Yemen come “la più grave carestia che il mondo abbia mai visto per decenni, con milioni di vittime”, se non verranno riaperti i porti. Ha detto che i bambini muoiono ogni secondo e di aver visto “una bambina di 9 anni che pesava quanto una di 2”. Nonostante questo, il Consiglio di Sicurezza non ha avuto il coraggio di inserire la parola “blockade” nel documento votato all’unanimità. Com’è stato possibile?
“Come sa, Croce Rossa non entra nel merito delle decisioni politiche, ma solo delle conseguenze che queste decisioni hanno sui diritti umani delle persone. Questa cosa di evitare di chiamare ciò che succede con il loro nome è di sicuro uno dei limiti di oggi. A volte, è vero, è nell’ambito dell’esercizio della diplomazia usare tutti i margini della dialettica, ma mi domando quando questo esercizio di dialogo si dilunga troppo, se non si finisca di dimenticarsi che dietro ci sono milioni di esseri umani. Come la bambina di cui parlava Lowcock o come chi è morto per una malattia, come il colera, per la quale non si muore più in altre parti del mondo”.

Ma non ha la sensazione che l’ONU sia spesso impotente?
“Mi limito a un’opinione personale. In più occasioni il Consiglio di Sicurezza ha mostrato dei limiti nella misura in cui non ha tenuto in considerazione le conseguenze sulle vittime civili dei conflitti e delle violazioni della convenzione internazionali di cui lo stesso ONU si era fatto promotore. Invece, profili come Lowcock, cosa possono fare di più? Nulla. A lui non rimane che riportare agli organi competenti la sua esperienza”.
Il terzo fronte più delicato oggi è quello del Myanmar, dove le violenze continuano: proprio giovedì 16 novembre, Human Right Watch ha presentato il report “All my body was pain”, sulle violenze nei confronti delle donne a Burma. Quel è la situazione oggi?
“L’accesso agli aiuti umanitari è piuttosto complicato ancora oggi. Dobbiamo intervenire il prima possibile per sostenere questa enorme popolazione fuggita dal Myanmar verso il Bangladesh. È come se ci fosse una città da 600mila persone senza acqua potabile ed elettricità, con un livello di malnutrizione e una serie di difficoltà difficili da accettare. Spero che la comunità internazionale sostenga il Bangladesh da un lato e che si faciliti il dialogo per permettere a queste persone di tornare dall’altro. E di tornare ovviamente in modo assolutamente pacifico e sereno per far sì che non tornino a vivere ciò che hanno già vissuto”.

Uno dei fronti in piena emergenza è ancora una volta quello della Siria, per la quale in Consiglio di Sicurezza continua a discutere, in particolare sui meccanismi di investigazione per l’utilizzo delle armi chimiche sui civili. Quali sono le difficoltà che Croce Rossa sta affrontando in quell’area dal punto di visto umanitario e dove si deve intervenire?
“La situazione è gravissima, sì. Il Paese è frammentato e si registrano ancora numerose difficoltà di accesso umanitario, anche perché gli sfollati interni sono a milioni (tra i 9 e i 12, ndr). Abbiamo registrato un leggero miglioramento della situazione rispetto, ad esempio, all’anno scorso ma anche se il conflitto ha perso la sua acuzie, è presente in numerose aree e il rischio di distruggere, dal punto di vista umanitario, quel poco che si è costruito finora c’è”.