La settimana più importante della 72esima Assemblea Generale ONU (UNGA) al Palazzo di Vetro è finita. Ma il mondo, impegnato a preoccuparsi di Nord Corea, Iran, Libia e immigrazione, sembra essersi dimenticato ancora una volta della tragedia umanitaria più grave: lo Yemen. Scorrendo il calendario dei lavori della settimana tra il 18 e il 26 settembre, quella di apertura dell’UNGA, piena di iniziative, conferenze e High-Level Debate, il nome Yemen è saltato all’occhio in modo preponderante solamente in due occasioni. La prima, l’incontro con David Beasley (Executive Director del World Food Programme), che si è collegato direttamente da New York con lo Yemen (vedi video sotto). La seconda, la conferenza organizzata dall’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA). Entrambe il 22 settembre. Un’iniziativa, quest’ultima, nella quale le grandi potenze dell’ONU si sono riunite attorno a un tavolo rettangolare per ripetere, di fatto, i problemi di cui tutti sono a conoscenza, anche se quasi nessuno è ancora intervenuto per risolverli. In Yemen la situazione è drammatica, ogni giorno di più: secondo l’ultimo report di settembre del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, sono quasi 1200 i bambini uccisi, mentre sono circa 2 milioni i ragazzi colpiti da malnutrizione acuta, di cui l’80% costituito da minori. Il 55% dei fondi potenzialmente a disposizione della popolazione yemenita, oggi, non arriva a destinazione perché non è permesso l’accesso umanitario nel Paese, mentre l’epidemia di colera continua a mietere vittime.
E sì che la soluzione alla crisi umanitaria ci sarebbe già, e sarebbe alla portata di mano. A dirlo a La Voce di New York, l’ambasciatore italiano alle Nazioni Unite, Sebastiano Cardi: “La soluzione a questa crisi umanitaria è delineata nella dichiarazione presidenziale adottata dal Consiglio di Sicurezza lo scorso 15 giugno, che l’Italia ha contribuito a scrivere e che ha stabilito le linee-guida di intervento”, ha sottolineato Cardi. Linee-guida, ribadisce l’ambasciatore, “a cui tutte le parti del conflitto si devono attenere, a partire dall’obbligo di garantire un accesso sicuro, rapido e senza ostacoli agli aiuti umanitari”.

Il problema in Yemen, però, è proprio questo: il fatto che nessuna delle parti in conflitto sembri al momento intenzionata ad ascoltare il monito della comunità internazionale, divisa tra il sostegno e il riconoscimento al presidente Abd Rabbo Mansur Hadi e la condanna per i raid della coalizione saudita che lo sostengono (e di cui Stati Uniti e occidente fanno direttamente o indirettamente parte). Il nemico di Hadi, che è intervenuto all’Assemblea Generale chiedendo sostegno alla comunità internazionale – un concetto ribadito anche di recente in uno statement – è rappresentato dai ribelli houthi, un gruppo armato sciita nato nel 1992, capace di spodestare dalla capitale Sanaa dopo due anni di tensioni e manifestazioni, nel 2015, proprio Hadi e il suo governo, accusati di corruzione e infedeltà. Nel mezzo i bombardamenti dell’operazione “Decisive Storm” che nel 2015 diedero il via al conflitto armato con il coinvolgimento dell’Arabia Saudita e di un quarto incomodo, l’Iran, accusato proprio dai sauditi di sostenere i ribelli houthi. Arabia Saudita e Iran che, pur non sedendo tra i banchi del Consiglio di Sicurezza, fanno parte delle Nazioni Unite. Quelle stesse Nazioni Unite costrette a guardare con impotenza una macabra partita a scacchi, dove i giocatori sono le grandi potenze spinte da interessi incrociati, mentre la parte delle pedine viene recitata dai civili inermi, vittime di un conflitto dove a volte è persino difficile capire chi combatta contro chi.

Dal 2015, in Yemen, sono morte nel silenzio più di 13 mila persone. Milioni, invece, sono gli yemeniti che hanno perso casa. 600mila, i casi di sospetto colera registrati negli ultimi quattro mesi. Un’epidemia dalle proporzioni gigantesche, che ha già ucciso più di 2mila persone in meno di 160 giorni: una media di 15 persone al giorno. Che il Paese sia in ginocchio, è comprovato dai dati presentati ogni settimana da organizzazioni internazionali e umanitarie come Croce Rossa, presente con 400 operatori sul territorio, e Save the Children, in Yemen con dieci team di unità mobili che forniscono cure di base, a sostegno delle associazioni locali. Nelle aree più colpite dal conflitto mancano oggi fino al 90% delle risorse idriche, mentre più del 50% delle strutture sanitarie sono state rese inagibili dai bombardamenti. “Hanno bombardato, negli scorsi mesi, persino un funerale civile” racconta a La Voce di New York il presidente di Croce Rossa italiana Francesco Rocca. “Il porto di Hodeida, a ovest del Paese – prosegue Rocca – è sotto il costante mirino di attacchi aerei ed è l’unica via d’accesso, dal mare, per gli aiuti umanitari: all’ONU chiediamo si facciano le stesse pressioni a difesa dei diritti umani, come è stato fatto su altri fronti in passato, perché la situazione in Yemen è più drammatica di quella in Siria, anche se nessuno ne parla”. Le stesse preoccupazioni arrivano da Save the Children: “C’è letteralmente bisogno di tutto: di carburante per gli spostamenti dei mezzi umanitari, di forniture mediche e di accesso alle cure. C’è bisogno di cibo e di acqua, di un maggiore impegno finanziario della comunità internazionale: i dottori non vengono pagati da un anno”. A parlare è Filippo Ungaro, Communications Manager di Save the Children, l’organizzazione umanitaria che di recente, al Segretario Generale ONU Antonio Guterres, ha avanzato una richiesta chiara: inserire la coalizione saudita, responsabile dei bombardamenti su Sanaa, nella black-list OHCHR relativa alle violazioni dei diritti umani dei bambini: “Solo nel 2016 la coalizione saudita si è resa protagonista di 23 attacchi che hanno colpito i bambini, è una richiesta doverosa”.

Il report delle Nazioni Unite, contenente quella black-list, sarebbe già dovuto essere pubblicato ad agosto. Ma, non si capisce se per pressioni politiche – che Guterres ha però smentito – o se per motivi tecnici, non si ha avuto a lungo notizia del testo: “Per quanto riguarda la relazione sui bambini e il conflitto armato in corso, il documento è in fase di attuazione e dovrebbe essere condiviso con il Consiglio di Sicurezza verso la fine di settembre”, ha fatto sapere a La Voce di New York, negli scorsi giorni, il portavoce di Antonio Guterres, Farhan Aziz Haq. Il Segretario Generale ha poi chiesto ai membri che oggi siedono in Consiglio di Sicurezza “di usare la loro influenza per aiutare a risolvere la situazione”. Un’influenza che potrebbe tradursi, ipoteticamente, in una bozza di risoluzione, della quale però al momento non c’è traccia. Nessuna risposta, in questo scenario complesso, da parte dell’Arabia Saudita: raggiunta sia telefonicamente che via mail da La Voce di New York, la missione saudita all’ONU non si è espressa, nonostante durante la conferenza del 22 settembre (min 42:05 del video qui sotto) il suo rappresentante abbia difeso a spada tratta la popolazione yemenita e l’operato del suo regno. “I problemi continuano da anni, l’Arabia Saudita ha provveduto qualcosa come 8.2 billioni di dollari nella sola prima metà dell’anno, a supporto della popolazione e dei rifugiati yemeniti” ha detto Abdullah Al-Rabeeah, adviser e supervisor del King Salman Center for Relief and Humanitarian Aid dell’Arabia Saudita, evidenziando: “La situazione è grave, bisogna incrementare il coordinamento per assistere lo Yemen e la sua gente e gestire i fondi a disposizione”.
In questo contesto di perenne emergenza, dove chi bombarda sembra elargire fondi che però arrivano a destinazione solamente per metà, e chi dovrebbe garantire aiuti umanitari si vede impossibilitato a farlo per le precarie condizioni del Paese, l’Italia ha dichiarato di voler fare la sua parte: nella settimana dell’Assemblea Generale, il Ministro Angelino Alfano ha incontrato il presidente Abd Mansour Hadi. Un meeting nel quale ha colto l’occasione per ribadire il supporto “all’inviato Speciale dell’ONU Cheikh Ahmed per i negoziati di pace”, l’impegno “a promuovere il conseguimento di una soluzione duratura della crisi” e i “4 milioni di euro a favore del Comitato Internazionale della Croce Rossa, dell’Organizzazione Nazionale delle Migrazioni e del Fondo delle Nazioni Unite” nel 2017. I problemi però non mancano e per l’Italia sono anche interni (oltre che recenti): il 20 settembre 2017, infatti, la Camera dei Deputati ha respinto l’ipotesi di embargo relativo alla fornitura di bombe italiane all’Arabia Saudita, provocando le ire di Rete Disarmo (“È incredibile come la maggioranza parlamentare continui a essere sorda alla situazione dello Yemen, ignorando le nostre richieste di uno stop dell’invio di armi verso le parti del conflitto”) e Oxfam: “Fermare la fornitura di armamenti alle forze militari della coalizione guidata dall’Arabia Saudita è un dovere nazionale, è una decisione di responsabilità”.

A cambiare le carte in tavola di un conflitto sempre più polveriera, potrebbero essere a sorpresa gli Stati Uniti di Donald Trump. Che pur avendo votato quella dichiarazione presidenziale del 15 giugno, di cui Cardi ha sottolineato l’importanza, sostengono però oggi, direttamente, il presidente Hadi assieme all’Arabia Saudita, accusata di essere responsabile dei bombardamenti sui civili a Sanaa. Una posizione scomoda, per un Paese che dall’insediamento di Trump ha cambiato atteggiamento nei confronti dell’Iran, abbandonando la strategia diplomatica delle “two pillars”, parzialmente rivitalizzata dall’amministrazione Obama: “Gli Stati Uniti hanno fornito più di 467 milioni di dollari di aiuti umanitari in Yemen e insieme ai nostri partner del Consiglio di Sicurezza riteniamo che una soluzione al conflitto possa avvenire solo attraverso negoziati di pace sotto l’egida ONU e che richiederanno compromessi da ognuna delle parti” ha dichiarato a La Voce di New York la missione statunitense alle Nazioni Unite, guidata dall’ambasciatrice Nikki Haley. Non tutte queste parti, però, secondo la missione americana sono disponibili al dialogo. Ed è qui che gli Stati Uniti di Trump, che proprio in Yemen aveva indirizzato la sua prima operazione militare (fallita) sembrano strizzare l’occhio alla coalizione saudita, con cui supportano il presidente Hadi: “Gli Houthi (sostenuti dall’Iran, ndr) si sono rifiutati di appoggiare un piano ONU per consentire alle autorità neutrali di amministrare il porto di Hodeida – precisano gli USA. Questo genere di iniziativa, se esplorata, potrebbe aumentare la fiducia tra le parti e riaprire nuovi tavoli di discussione”.

Tavoli discussione che, però, al momento appaiono estremamente difficili. Con l’inviato speciale in Yemen ONU, Ismail Ould Cheikh Ahmed, sostenuto da tutti a New York ma ascoltato in realtà ancora da pochi a Sanaa. E il coordinatore umanitario OCHA Jamie McGoldrick, al quale Guterres ha espresso “massima fiducia”, che di recente ha usato una parola ben precisa per riassumere il dramma vissuto oggi dal popolo yemenita: disprezzo. Quello dimostrato “da tutte le parti coinvolte nel conflitto nei confronti dei civili”, così come nei confronti del “principio di distinzione tra civili e combattenti”. Una quotidianità che, dal 2015, assieme ai bombardamenti, alle esecuzioni di piazza e al mancato accesso agli aiuti umanitari, accompagna e mette in ginocchio lo Yemen, il Paese arabo dimenticato dal mondo.
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