In tempi normali per gli Stati Uniti, l’insediamento del nuovo presidente sarebbe un’occasione per discutere di politica. Molte sarebbero le questioni da affrontare: i problemi di Joe Biden per l’attuazione del proprio programma, a fronte della maggioranza di appena un voto di cui il partito democratico gode al Senato nonostante la conquista dei due seggi della Georgia nel ballottaggio del 5 gennaio; l’influenza inconsueta di cui godrà la vicepresidente Kamala Harris, il cui voto sarà decisivo al Senato forse fino al 2023; la continuità tra la politica di Biden e quella di Obama, sia per l’intervento pesante e irrituale dell’ex presidente nelle primarie democratiche per far assegnare a Biden la candidatura alla Casa Bianca, sia per il travaso di funzionari di medio rango dall’amministrazione Obama a posizioni di rilievo nel nuovo governo; lo spazio di manovra dei progressisti in un’amministrazione che li ha esclusi dai posti in cui gli elettori liberal avrebbero voluto che fossero collocati: Elizabeth Warren al Tesoro e Bernie Sanders al Lavoro; il futuro dell’asse transatlantico, con gli europei che auspicano un ritorno alla concertazione e l’Italia che, in particolare, spera nella concessione di un ruolo maggiore nella crisi libica da parte di Washington; le molteplici facce del moderatismo del neopresidente.
Biden ha promesso di rendere obbligatorio l’uso della mascherina nel contrasto alla pandemia, ma solo negli edifici federali e nei trasporti interstatali; si è impegnato a rafforzare la riforma sanitaria di Obama, però senza estendere i benefici del Medicare a tutti gli statunitensi come, invece, era stato suggerito da Sanders, Warren e perfino Kamala Harris nel corso delle primarie; ha proposto l’innalzamento del minimo salariale a quindici dollari l’ora, ma non è disponibile ad accogliere istanze considerate di vago orientamento socialista di cui si era fatto portavoce Sanders quali il diritto al lavoro e il conseguente intervento dello Stato federale per assicurare il pieno impiego; ha nominato un inviato speciale per il cambiamento climatico nella persona di John Kerry, revocherà i permessi di trivellazione sui terreni federali e farà rientrare gli Stati Uniti negli accordi di Parigi del 2015, ma si dimostra restio ad accogliere alcuni punti qualificanti del Green New Deal quali l’introduzione della carbon tax e il blocco del fracking; si mostra più disponibile al dialogo con la Repubblica Popolare Cinese, ma negozierà probabilmente da posizioni di fermezza, a fronte del permanere del forte disavanzo commerciale statunitense con Pechino (pari a 28,3 miliardi di dollari lo scorso luglio), dell’orientamento protezionista degli Stati della rust belt che gli hanno fatto ottenere la presidenza e dell’introiezione dello slogan sovranista “Buy American” in campagna elettorale.

Tuttavia, quelli che stanno vivendo non sono tempi normali per gli Stati Uniti. Pertanto, in una Washington presidiata da un maggior numero di militari di quelli attualmente dispiegati in Afghanistan, anziché di politica, il dibattito finisce per vertere sui temi della sicurezza e dell’ordine pubblico. L’emergenza non è data dalla diffusione del coronavirus, che ha ormai causato oltre 400.000 vittime tra gli statunitensi, bensì dal dilagare dell’eversione. Dopo il tentativo di rapire la governatrice democratica del Michigan Gretchen Whitmer da parte di un gruppo paramilitare di estrema destra, i Wolverine Watchmen, e il riemergere delle intimidazioni degli elettori afro-americani a opera di milizie di suprematisti bianchi che volevano impedire ai neri di esercitare il voto nelle ultime elezioni, l’acme è stata raggiunta lo scorso 6 gennaio, quando gruppi di sostenitori di Donald Trump hanno fatto irruzione nella sede del Congresso per cercare di ostacolare la certificazione ufficiale della vittoria di Biden nelle elezioni del 3 novembre, provocando cinque morti.
Gli avvenimenti del 6 gennaio, con le loro vittime, non hanno precedenti nella storia degli Stati Uniti. Ci sono state, in passato, campagne elettorali segnate da una scia di sangue, in particolare quella del 1968 che vide l’assassinio di Robert Kennedy mentre era lanciato verso la probabile conquista della nomination democratica per la Casa Bianca. Ma la violenza non si era ancora spinta al punto da essere impiegata per provare a rovesciare il responso delle urne su incitamento del vertice delle istituzioni, il presidente Trump, con il concorso di alcuni deputati repubblicani che, come nel caso di Mo Brooks dell’Alabama, hanno sobillato gli oltranzisti con parole ancor più incendiarie del capo della Casa Bianca, oppure hanno addirittura aiutato i rivoltosi a progettare l’assalto al Campidoglio guidando i loro leader in una specie di ricognizione all’interno del Congresso nei giorni precedenti l’irruzione.

Alcuni osservatori un po’ frettolosi e superficiali hanno definito un “tentato golpe” le vicende del 6 gennaio. L’espressione non avrebbe potuto essere utilizzata più a sproposito. Il termine “golpe”, infatti, rimanda ai colpi di stato militari che hanno straziato i Paesi dell’America Latina soprattutto nella seconda metà del Novecento. Invece, malgrado la partecipazione di qualche reduce in congedo e di alcuni agente di polizia in libera uscita, le forze armate non sono state coinvolte nell’assalto a Capitol Hill. Del resto, già il 29 agosto, il generale Mark Milley, il capo di stato maggiore, aveva assicurato in forma scritta in risposta a una domanda specifica di due membri democratici dello Armed Services Committee della Camera che l’esercito statunitense è apolitico e non avrebbe obbedito a ordini illegali in caso di contestazioni sui risultati delle elezioni presidenziali, lasciando ai tribunali e al Congresso la prerogativa di risolvere eventuali dispute sull’esito del voto.
Gli anticorpi del sistema istituzionale statunitense sono stati tali da precludere a Trump la possibilità di trasformarsi in una versione americana del dittatore bielorusso Aljaksandr Lukašėnko. Però, l’epilogo inglorioso della presidenza di Trump si è configurato come il sintomo di una degenerazione della dialettica politica che ha visto la violenza passare dal piano verbale alla sfera dei comportamenti non solo individuali ma anche collettivi.
Più che essere la causa di un pervertimento del confronto politico l’emergere di Trump ne è stato l’effetto. Anziché rappresentare un’aberrazione momentanea, The Donald ha segnato il culmine di un fenomeno che è partito da lontano. Prima ancora di venire catalizzato dall’opposizione al primo presidente afro-americano, incapace di garantire un’equa ripartizione dei benefici della ripresa economica dopo la grande recessione del 2008, il malessere dei bianchi di ceto medio-basso era affiorato con il primo manifestarsi dalla deindustrializzazione nella seconda metà degli anni Sessanta, quando gli operai di ascendenza europea che avevano perduto il lavoro si aspettavano assistenza e programmi di riqualificazione professionale da parte della presidenza del democratico Lyndon B. Johnson che, invece, ai loro occhi, sembrava interessato solo all’integrazione degli afro-americani. La globalizzazione aveva continuato a colpire gli statunitensi addetti al settore primario e secondario durante l’amministrazione di Bill Clinton. Il sovranismo era comparso negli anni Novanta del Novecento con l’opposizione al North American Free Trade Agreement, da parte di Ross Perot, lo sfidante indipendente di Clinton e George H.W. Bush nel 1992, e aveva trovato il suo manifesto ideologico in A Republic, Not an Empire, un saggio pubblicato nel 1999 da Patrick Buchanan, l’ex direttore della comunicazione di Nixon che nel 1992 e nel 1996 aveva cercato di contendere la nomination repubblicana per la Casa Bianca rispettivamente a Bush Sr. e a Robert Dole.

Soprattutto le sconfitte di Buchanan dimostrarono ai perdenti della globalizzazione che il partito repubblicano era chiuso alle loro istanze e li spinsero a disertare le urne in mancanza di un candidato in cui potessero riconoscersi nelle elezioni di novembre. Nel 1964 il repubblicano Barry Goldwater aveva corso per la Casa Bianca proclamando che l’estremismo in difesa della libertà non era un vizio e che la moderazione nella ricerca della giustizia non era una virtù. Johnson lo aveva travolto con una maggioranza del 61,1%, la percentuale più alta del voto popolare raccolta da un candidato in tutto il Novecento. Dopo questa debacle i dirigenti repubblicani si convinsero che il conservatorismo radicale era controproducente alle elezioni e si affidarono a candidati moderati. Perfino George W. Bush si presentò alle elezioni presidenziali del 2000 come un “conservatore compassionevole”. Nel corso del suo primo mandato aveva esteso l’assistenza sanitaria agli ultrasessantacinquenni, attraverso un rimborso parziale delle spese sostenute per l’acquisto di farmaci dietro presentazione di ricetta medica, e aveva stanziato oltre 11 miliardi di dollari per il potenziamento delle scuole pubbliche nelle aree più disagiate del Paese.
Trump ha frantumato questa tendenza al centrismo da parte del partito repubblicano. Con le sue dichiarazioni e i suoi atteggiamenti, ha legittimato sul piano politico e portato alle urne la rabbia di una composita galassia di sovranisti, populisti, neonazisti, iper-individualisti nemici di qualsiasi regolamentazione del governo e sostenitori della presunta supremazia della “razza” bianca, tutti gruppi che l’establishment repubblicano aveva finito per ignorare per quasi mezzo secolo. Ovviamente, non tutti gli elettori repubblicani si riconoscono in posizioni estremiste. Ma la loro entità numerica non è trascurabile tra gli oltre 74 milioni di elettori che hanno votato Trump nel 2020. Non a caso, secondo un sondaggio di YouGov immediatamente successivo all’assalto a Capitol Hill, se il 42% dei repubblicani condannava le violenze di due giorni prima, il 45% condivideva le motivazioni dell’irruzione al Congresso e il 27% riteneva che i veri eversori non fossero gli assalitori ma i deputati e i senatori che hanno certificato l’elezione di Biden.

Gli esponenti del partito democratico, a partire dalla Speaker della Camera Nancy Pelosi, sembrano preoccupati soprattutto di impedire a Trump di ricandidarsi nel 2024. Di qui l’apertura di un secondo impeachment contro il presidente uscente. Tuttavia, il problema dell’eversione politica non sembra confinato a The Donald e si annida, invece, nel cuore di un partito che il presidente uscente ha cercato di forgiare a propria immagine e somiglianza in quattro anni di mandato alla Casa Bianca. Non a caso, dopo l’irruzione dei trumpiani in Campidoglio e, pertanto, con una tempistica che rasentava l’appoggio alla tentata insurrezione, 6 senatori e 121 deputati repubblicani hanno votato contro la certificazione della vittoria di Biden in Arizona e, quando si è trattato di contestare il successo del candidato democratico in Pennsylvania, i numeri sono saliti a 7 senatori e ben 138 deputati.
Nel 1919 la Camera dei Rappresentanti espulse Victor Berger, il secondo deputato della storia a essere eletto a Washington nelle liste del partito socialista, perché con la sua opposizione pacifista all’intervento degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale aveva messo in imbarazzo il suo Paese. Brooks ha fatto molto peggio che imbarazzare gli Stati Uniti. Sarebbe opportuno che la Camera rispolverasse la procedura – tuttora vigente in base all’articolo 1, comma 2, sezione 5 della Costituzione federale – che permette di espellere un proprio membro, con l’assenso dei due terzi dei suoi colleghi, e l’applicasse almeno nei confronti di Brooks, se non volesse accogliere la risoluzione della deputata democratica del Missouri Cori Bush che chiede addirittura di cacciare tutti i rappresentanti che si sono opposti alla certificazione dell’elezione di Biden. Costituirebbe un segnale molto più incisivo dell’impeachment di Trump, un personaggio destinato comunque a tornare un privato cittadino tra poche ore, perché colpirebbe un eversore dichiarato e irriducibile (Brooks ha affermato di non essere pentito del suo appello del 6 gennaio) che altrimenti, per almeno due anni, continuerebbe a esercitare le sue funzioni legislative nel cuore delle istituzioni federali che solo pochi giorni fa avrebbe voluto rovesciare.

In ogni caso, quale che sia il futuro politico di Trump, i milioni di suoi sostenitori non sono destinati a sparire facilmente di scena. Biden si è defilato sulla questione dell’impeachment, dichiarando che è materia di competenza esclusiva del Congresso. Però, oltre a come affrontare la pandemia, il principale problema politico di Biden sarà come riassorbire la preesistente frustrazione socio-economica che ha prodotto quattro anni di presidenza di Trump. Negli Stati Uniti permane una marcata sperequazione per la quale, prima ancora che il fenomeno venisse accentuato dall’impatto del coronavirus sull’economia, lo 0,5% della popolazione statunitense controllava circa il 20% della ricchezza nazionale. In questo contesto appare difficile che il moderatismo di Biden si riveli la formula vincente, sia per ridistribuire la ricchezza e disinnescare la collera che ha trovato un portavoce in Trump, sia per mantenere attiva, in vista delle elezioni di mid term del 2022 e delle presidenziali del 2024, quella straordinaria mobilitazione dei progressisti che, nelle circostanze eccezionali della pandemia, ha scongiurato la conferma di Trump alla Casa Bianca lo scorso 3 novembre.