In questi giorni di tumulto sociale negli Stati Uniti sento la necessità di condividere la mia esperienza, nella speranza che aiuti i miei amici italiani a capire meglio ciò che sta accadendo, o perlomeno mi auguro porti una prospettiva diversa a qualcosa di abbastanza sconosciuto in Italia. Per motivi storici in Italia non abbiamo mai avuto l’occasione di poter sviluppare una coscienza matura sulle lotte razziali come negli Stati Uniti. Non intendo in alcun modo usare la mia voce per sostituire o interpretare quella del movimento Black Lives Matter, ma spero che possa aprire uno scorcio ad una comprensione più profonda ad un problema sensibile come le vite dei neri negli Stati Uniti, ed altrove. Penso sia una conversazione difficile, ma necessaria.
Nel mio percorso accademico e professionale ho avuto il privilegio di studiare negli Stati Uniti per ben due volte: da adolescente nel Missouri, in un’area suburbana vicino Saint Louis (O’Fallon), tramite un programma di scambio annuale di Intercultura e dieci anni più tardi a Washington DC, per studiare relazioni internazionali ed economia.
Quando nell’estate del 2014 tornai negli Stati Uniti per iniziare i miei studi a Washington, il dibattito sul razzismo istituzionale nel paese si era riacceso in seguito all’uccisione di Micheal Brown da parte della polizia a Ferguson (Missouri), a pochi passi da dove avevo studiato da adolescente. Ne seguirono delle violente proteste in strada per chiedere giustizia sul caso Brown, ma anche avanzando richieste di giustizia sociale più ampiamente parlando. Seguii l’evoluzione delle proteste tramite la mia cerchia di amici del liceo americano su Facebook. Nonostante a 16 anni quella scuola americana mi era sembrata così diversa e multiculturale, guardando in retrospettiva anche lì abitavo in una provincia prevalentemente bianca. Alcuni ex-compagni di quel liceo nel frattempo erano diventati poliziotti, ed erano impegnati su Ferguson durante le proteste, quindi ero particolarmente esposta ai post dei bianchi, per la maggior parte repubblicani, che condannavano le proteste e le violenze e che supportavano la narrativa per cui Brown era un criminale ed un po’ se li era andati a cercare quei dodici colpi di pistola.
Qualche mese più tardi, nell’aprile del 2015, a pochi passi da Washington, a Baltimora, l’uccisione di Freddie Gray accese la miccia per un’altra serie di proteste violente nell’area. Ne seguirono anche delle proteste a Washington, in cui marciarono alcuni miei amici neri con cui studiavo. In particolare, in questa occasione, gli stessi amici iniziarono a diventare molto vocali su Facebook, in supporto delle proteste. Un giorno in particolare una di loro citò Malcom X, di cui sapevo soltanto grazie al corso di “storia americana” studiata al liceo in Missouri dieci anni prima. Ricordavo vagamente che Malcom X era stata la faccia “più violenta” e controversa del movimento dei diritti civili ai tempi di Martin Luther King. Non capivo. Non capivo perché gente colta, istruita nelle migliori università degli Stati Uniti, gente impegnata nei diritti umani, potesse non solo condonare la violenza delle proteste, ma avesse sentito la necessità di esprimere tanta rabbia.

Sono cresciuta credendo fermamente che le battaglie in una democrazia si debbano combattere con gli strumenti democratici, con la politica, con i dibattiti, con le elezioni, con i voti, con le leggi – e rimango di quell’idea. In ogni caso, sentii la necessità di un confronto, per capire. Sono amici che stimo incredibilmente e se avevano sentito questo bisogno, ero sicura che le loro parole e la loro rabbia potessero essere solo ben motivate. Timidamente, bussai alla porta di una di loro ed azzardai chiedere come mai questo supporto? Lei mi rispose con la pazienza di chi vuole essere capito e con la sofferenza di chi ha lottato in silenzio per tutta una vita ed è stanco di lottare, di spiegarsi, di raccontarsi. Lo si vedeva dallo sguardo basso e dalla postura chiusa (decisamente non un suo atteggiamento usuale), e si sentiva dalla voce che cercava un appiglio per rimanere ferma. Fece un sospiro profondo, ed espirò: “I’m tired. We have done this for years, and yet we are still here demanding the same things” [Sono stanca. L’abbiamo fatto per anni, e ciononostante siamo sempre qua a chiedere le stesse cose]. Proseguì a raccontarmi le sue esperienze e dei suoi cari con il razzismo negli Stati Uniti, il suo paese. Per la prima volta ho sentito la narrativa della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti dal lato degli oppressi. Mi travolse come un fiume in piena e mi aprì ad una nuova narrativa, oltre ad un profondo senso di disagio per non essermi informata prima di formarmi una mia opinione.
Il punto fondamentale era questo: nessuno vuole ricorrere alla violenza per affermare i propri diritti. Nessuno dovrebbe dover ricorrere alla violenza affinché la propria umanità venga riconosciuta. Ma quando nel corso della propria vita, ogni altro mezzo possibile è stato esplorato, pazientemente e con costanza, se l’unico modo per fare sentire il proprio grido è quello di protestare con forza, che forza sia. Non si vuole condonare la violenza gratuita, ma lì dove la violenza di un sistema è esercitata quotidianamente su un target specifico della popolazione, la violenza sembra l’unico mezzo lasciato a disposizione degli oppressi stessi. Già nel 1967 (53 anni fa) Martin Luther King, nel ribadire il suo impegno alla lotta non violenta, non fallì di notare:
“A riot is the language of the unheard. And what is it America has failed to hear? It has failed to hear that the plight of the negro poor has worsened over the last few years. It has failed to hear that the promises of freedom and justice have not been met. And it has failed to hear that large segments of white society are more concerned about tranquility and the status quo than about justice equality and humanity.”
[una rivolta è il linguaggio degli inascoltati. Cos’è che l’America non ha ascoltato? Non ha ascoltato le sofferenze dei neri più poveri, la cui situazione è peggiorata negli ultimi anni. Non ha ascoltato che le promesse di libertà e giustizia non sono state mantenute. E non ha saputo ascoltare che una larga parte dei bianchi tiene più alla tranquillità e allo status quo che alla giustizia, all’uguaglianza, all’umanità.]
Concentrare la conversazione sulla violenza delle proteste, o peggio, etichettare le violenze come atti puramente criminali, opportunistici, senza significato, significa fallire in partenza nel capire ciò che sta accadendo e silenziare chi sta chiedendo di essere ascoltato. Significa non poter discutere con onestà intellettuale delle radici profonde che hanno portato a questa esasperazione. Ed in ultima istanza, significa non rompere mai il ciclo di violenza, se prima non ci si preoccupa di affrontare la violenza sistemica a cui si sta rispondendo con la violenza di strada.

Negli anni, anche grazie all’azione coordinata del movimento “Black lives matter” si sono susseguiti molte campagne di sensibilizzazione e ci sono stati vari episodi di protesta pacifica, in particolare nel mondo dello sport e dello spettacolo. Nel 2014, Kobe Bryant indossò una maglietta con su scritto “I can’t breathe” [non posso respirare] in protesta per la morte di Eric Garner per mano di un altro ufficiale di polizia. Nell’agosto del 2016, alcuni atleti americani iniziarono a protestare contro la brutalità della polizia ed il razzismo inginocchiandosi su una gamba durante l’inno nazionale americano. Emblematico il caso di Colin Kaepernick, quarterback della squadra di football dei San Francisco 49ers, che prima di una partita amichevole in preparazione al campionato, rimase seduto durante l’inno nazionale americano, in forma di protesta. Furono accusati da parte dell’opinione pubblica di anti-patriottismo, di mancare di rispetto alla bandiera americana e che questi atti di protesta fossero fuori luogo. Il presidente americano Donald Trump affermò che i proprietari della NFL dovrebbero “licenziare” i giocatori che protestano contro l’inno nazionale. Nel 2016, il cast di “Hamilton”, un musical di successo di Broadway sui ribelli coloniali che modellano il futuro di un nuovo paese, a fine spettacolo lanciò pubblicamente un appello al vice-presidente americano Mike Pence che era tra gli spettatori quella sera:
“We, sir — we — are the diverse America who are alarmed and anxious that your new administration will not protect us, our planet, our children, our parents, or defend us and uphold our inalienable rights. We truly hope that this show has inspired you to uphold our American values and to work on behalf of all of us.”
[Noi, signore – noi – siamo la diversa America che è allarmata e ansiosa che la vostra nuova amministrazione non proteggerà noi, il nostro pianeta, i nostri figli, i nostri genitori, né ci difenderà e difenderà i nostri diritti inalienabili. Speriamo davvero che questo spettacolo l’abbia ispirato a sostenere i nostri valori americani e a lavorare per conto di tutti noi”]. Anche in questa occasione il presidente Trump e parte dell’opinione pubblica ritennero questo intervento fuori luogo.
Le proteste di questi giorni non sono scaturite semplicemente dall’ennesima, ingiustificata morte di un cittadino americano, George Floyd – e sono per la straordinaria maggior parte proteste pacifiche. Sono il risultato di anni di oppressione. Il video che mostra il poliziotto brutalmente inginocchiato sul collo del signor Floyd, mentre lo soffoca, è stata l’ennesima goccia che ha fatto nuovamente traboccare un vaso stracolmo. Il video ha provocato giustamente l’indignazione di chi finora aveva avuto il privilegio di non vedere queste ingiustizie prima. C’è stata una mobilità superiore rispetto al passato, frutto anche del costante lavoro delle organizzazioni e dei movimenti per la giustizia sociale, oltre che all’utilizzo abile dei social media. Ma ha anche provocato la rabbia di chi, da anni, da generazioni, chiede parità di trattamento. Ha provocato la rabbia di chi continua ad essere trattato con condiscendenza quando fa appello di solidarietà: non sembra esserci mai un luogo opportuno, o una modalità corretta affinché le loro istanze possano essere presentate, ascoltate e affrontate. Solo tanta condiscendenza da chi segue da una posizione di forza. Questa volta il loro grido d’aiuto sembra trovare eco anche fuori dagli Stati Uniti, ma rischia di essere male interpretato, nel migliore dei casi, o strumentalizzato al peggio.

In Italia, dove non abbiamo mai fatto i conti con il nostro passato coloniale e dove per molto tempo abbiamo avuto una popolazione relativamente omogenea, solo negli ultimi anni abbiamo iniziato a toccare con mano una multiculturalità e diversità più visibile e che può essere lontanamente paragonabile alle diversità che impernia la società americana. Le proteste di questi giorni possono diventare innanzitutto un momento importante per informarci, leggere ed ascoltare altre storie che deviino dalla narrativa dominante degli Stati Uniti bianchi.
Voglio concludere lasciando quattro lezioni che ho imparato, mio malgrado, sul modo in cui si può essere alleati del movimento dei neri americani:
1. Informarsi e studiare. Non è compito di ogni persona di colore istruirti sulla loro condizione. Capisco che possa sembrare una contraddizione, ma nell’era digitale, le risorse per informarsi non mancano, molto del materiale è in inglese: troverai Ted Talks, documentari su Netflix e tanto altro ancora. Sii curioso e nel farlo sii pronto a sentirti a disagio con te stesso/a nel realizzare anche i vantaggi di cui hai potuto godere in virtù del semplice fatto di far parte della comunità dominante per pura fortuna, grazie al colore della tua pelle. È importante informarsi e capire il nostro ruolo prima di provare ad intavolare qualsiasi discussione che possa essere in alcun modo producente. Come la mia amica di Washington, molti afroamericani sono stanchi di lottare, di spiegarsi, di raccontarsi. Alcuni, saranno disposti ad affrontare la conversazione, alcuni lo faranno con meno pazienza di altri. Ma alcuni, sono esausti dal parlare a nome di una generazione, e dal portare un fardello che nessuno di loro aveva mai chiesto di avere. Sono esausti dal dover spiegare in continuazione le loro storie personali, dei genitori, dei nonni, etc. Sono anche esausti dal dover ripetere a memoria i dati statistici per cui gli afroamericani sono il gruppo più vulnerabile alle ingiustizie del sistema giudiziario americano. Ed in generale non spetta a loro in prima istanza dover compensare per un sistema educativo che fallisce di includere la loro storia nella narrativa principale.
2. Ascoltare la voce degli inascoltati, ovvero il concetto del “whitesplaining”: accade quando una persona bianca dice a una persona nera come rispondere o visualizzare un argomento, di solito quando si parla di relazioni razziali o disuguaglianze. Le persone nere sono in grado di formulare le loro esigenze e le loro aspirazioni consapevolmente ed in base alle loro esperienze. Valide tanto quanto le tue. Non sei tu il protagonista di questa lotta. Sei un alleato. Se sei bianco, in un paese predominantemente bianco, la tua voce è stata non solo sempre ascoltata, ma è stata la voce narrante principale della storia della tua comunità. Dai spazio ad altre voci.
3. Diventa una cassa di risonanza, non un interprete. Se non sei nero, non è compito tuo reinterpretare l’esperienza di chi lo è. Non è compito tuo, parlare nel loro nome. Il rischio di parlare da una posizione di privilegio è quello di “appropriarti” della loro storia, della loro narrativa. Il rischio è che, nonostante le migliori delle intenzioni, risulti nel togliere loro voce, ancora una volta. La tua storia è già quella predominante. Usa le tue piattaforme per far da eco alle loro istanze e per dare loro spazio per un confronto tra le loro esperienze e per poter maturare le loro richieste e le loro strategie. Lascia che siano loro a dirti come puoi aiutare la loro causa.
4. È offensivo dire che “tutti gli uomini sono creati uguali” o “all lives matter” quando si discute di ingiustizia sistemica basata sulla discriminazione del colore della pelle. Non importa quanto ben intenzionato, quando qualcuno (spesso bianco) afferma di “non vedere il colore”, si sta ricorrendo ad una retorica “daltonica” che è dannosa per le comunità nere per almeno tre motivi: (1 ) Negano la propria “bianchezza” (whiteness) e tutti i privilegi sociali e il potere che ne traggono; (2) negano la “oscurità” di altre persone”, o “asiaticità” e tutta la discriminazione sociale che spesso ne deriva; e, soprattutto, (3) stanno costruendo il razzismo come individuale e intenzionale, piuttosto che istituzionale.
Il razzismo negli Stati Uniti è strutturale, è storico ed è duraturo. La risposta non potrà essere individuale, ma forzatamente comunitaria e strutturale. Le modalità delle proteste dipenderanno dai loro oppressori e dalla loro capacità di saperli ascoltare.