La scia di sangue 1992-1994. Ventisei anni sono passati da quel 19 luglio 1992, in cui il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta persero per sempre la vita, spezzata dalla esplosione di un’autobomba in Via D’Amelio a Palermo, e venticinque dagli attentati che tra il 27 maggio e il 28 luglio del 1993 hanno provato, per l’ennesima volta, a destabilizzare lo Stato. Chiuse così “con i botti” la cosiddetta prima Repubblica, segnata da altrettanti tentativi di golpe, stragi e attentati a luoghi e persone sin dalla sua nascita. La strategia terroristico-mafiosa tutta, dell’ultima fase della prima Repubblica stessa, parte dall’omicidio del democristiano Salvo Lima il 12 marzo 1992 e si conclude con una mancata strage nel gennaio del 1994 allo stadio Olimpico di Roma, in cui i fratelli Graviano volevano uccidere un centinaio di carabinieri. Strategia che passa proprio dalle stragi di Via D’Amelio e Capaci.
Tutto ha un precedente: il 20 gennaio 1992 la Cassazione aveva confermato in via definitiva le condanne del maxiprocesso di Palermo, che nel 1987 aveva smantellato il vertice di Cosa Nostra. Totò Riina aveva deciso così di vendicarsi dei referenti politici che non erano stati in grado di evitare la maxi-sentenza e i loro effetti. Questo è quanto si può riferire sul ruolo della mano mafiosa in sé, poco si sa invece dell’altra mano che ha mosso dinamiche e fila di questa tragica scia di sangue. Piccoli scampoli, ma anche significativi, che aiutano a dare forma a quest’altro ruolo si annidano sia nella sentenza della Cassazione di Caltanissetta sulla strage di Via D’Amelio, sia nei filoni ancora aperti di indagine che riguardano questa vicenda e che sono indagati a parte, sia – ancora – nell’inchiesta apertasi di nuovo a Firenze, dopo precedenti archiviazioni, a ottobre del 2017 sui mandanti delle stragi in cui risultano indagati di nuovo Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri; sia, infine, nel processo di primo grado riguardante la trattativa stato mafia conclusosi il 20 aprile 2018 in cui mafiosi, politici e uomini delle forze armate sono stati condannati (qualcuno anche assolto) a significativi anni di carcere. Sembrano tutti (e lo sono giudiziariamente) pezzi separati di verità ma in realtà tutti loro sono collegati da un filo nero ancora da dipanare. Soprattutto ormai politicamente. La lista dei fatti che abbiamo indicata, in cui la strategia è compresa, è inoltre da sempre quella presa in esame dalla inchiesta denominata “Sistemi Criminali”, che è di fatto la base di partenza del processo trattativa, al cui nome almeno fino a questo primo grado non si può più ormai accostare l’aggettivo “presunta”. Sistemi Criminali è l’inchiesta istituita e poi archiviata nel 2001 dall’ex magistrato Antonio Ingroia e dall’attuale Procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato.
Le motivazioni di Caltanissetta. Nei giorni scorsi i giudici della Procura di Caltanissetta hanno consegnato all’opinione pubblica le motivazioni che li hanno portati a riscrivere (in parte) la storia della strage di Via D’Amelio: storia processuale conclusa lo scorso 20 aprile del 2017 e preceduta da altre tre sentenze (Borsellino I-II e III). Una monolitica scrittura di oltre 1800 pagine che spiega anche cosa ha mosso il depistaggio iniziato con l’arresto di Vincenzo Scarantino il 29 settembre del 1992 e che nel 2011 ebbe una prima conclusione con l’immediata scarcerazione di alcuni degli accusati, in vista della prima revisione del processo seguita alle prime dichiarazioni del collaboratore Gaspare Spatuzza, che ha iniziato a parlare ufficialmente solo nel 2008. La Corte d’assise di Caltanissetta ha dunque condannato all’ergastolo per la strage di via D’Amelio i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e a dieci anni per calunnia i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Attenzione però perché per arrivare a queste conclusioni, come si legge chiaramente dalle motivazioni, i giudici hanno tenuto conto della sentenza del 2006 (frutto dell’unione di due processi, uno stralcio del Borsellino III e parte del procedimento della strage di Via Capaci) e anche per quanto attiene alle dinamiche stesse della preparazione di quanto accertato precedentemente, soprattutto nel Borsellino ter. Parentesi questa che andava aperta per spiegare gangli importanti di questa storia, perché si scrive e afferma spesso che “la strage di Via D’Amelio è stata interamente riscritta” facendo di tutto e di tutti un calderone unico. Così non è.
All’interno, nelle motivazioni, si fanno largo diversi altri fatti concatenati a quello principale di strage: la ricostruzione della sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino – che ha visto un filone d’indagine aprirsi separatamente, da poco archiviato – e il ruolo dei depistatori delle indagini sulla strage, per i quali è stato riaperto un nuovo filone. A muoversi con motivazioni e dinamiche ancora irrisolte, secondo la corte, resta “l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage di via D’Amelio, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere”.
Arnaldo La Barbera, ovvero Rutilius per il Sisde. Pensando agli anni oggetto di queste storie, 1992-1994, si aprono davanti a chi scrive le prime pagine dei giornali di quei giorni. Soprattutto uno, L’Unità, che il 20 luglio 1994, dopo tutta quella sfliza di fatti di sangue che abbiamo citata sopra, compare una intervista proprio al capo dei depistatori, secondo quanto ormai è noto, proprio lui Arnaldo La Barbera che al giornalista Saverio Lodato descrive così il team Falcone-Borsellino da lui guidato:«Premesso che non ci sono supermen, possiamo dire che è gente che ha dato la sua disponibilità di fondo a un lavoro di quel tipo (trovare i killer di Via D’Amelio, ndr). Che per due anni – continua La Barbera – ha dimenticato affetti, mogli, figli e famiglie […] Questi uomini non dovevano fare altro che indagare sulle stragi». E, sottolinea il capo della Squadra mobile di Palermo catapultato allora direttamente dalla mobile di Venezia, il segreto investigativo maggiore era uno, il più grande: «niente burocrazia». Fra mancanza di burocrazia e assenza di regole non sembra essere passata però molta acqua visto quanto emerso da quest’ultimo processo, il quater.
Il groviglio fra verità e bugie. Possiamo individuare alcuni significativi passaggi che hanno segnato l'”assenza di regole” (una espressione che rappresenta ovviamente solo un eufemismo per spiegare invece l’ammasso di depistaggi operati), come a esempio la mancata relazione di chi per primo ha consegnato la borsa del magistrato a La Barbera, «uno dei primissimi poliziotti che arrivava in via D’Amelio, dopo la deflagrazione delle ore 16:58 del 19 luglio 1992» è scritto nelle motivazioni: il sovrintendente Francesco Paolo Maggi, che soltanto nel 2014, tra l’altro, rivela per scrupolo di coscienza di aver visto agenti dei servizi segreti a lui noti, e provenienti da Roma, gravitare intorno alla macchina semi carbonizzata del magistrato. Gli stessi che erano stati visti diverse volte davanti all’ufficio di La Barbera. Il sovrintendente aveva reso altre testimonianze negli anni precedenti, ma questo particolare non l’aveva mai reso noto prima. Testimonianza suffragata da altri in questo procedimento. E’ questo il perno intorno al quale i fatti che precedono la strage e che la seguono rendono difficile lo sbroglio della intera matassa e insieme ne caratterizzano la vera problematica. La sparizione dell’agenda rossa di Borsellino e l’attenzione verso la borsa che la conteneva da parte di molti funzionari di Stato, i quali presidiavano la scena di quel 19 luglio, è infatti l’ostacolo intorno al quale le motivazioni si snodano e paradossalmente la questione che più di tutte resta irrisolta. Un altro momento significativo reso noto da queste motivazioni, e inserito dai giudici come una delle “anomalie” verificatesi, è «la singolare cronologia del sopralluogo eseguito dalla Polizia Scientifica di Palermo (“su richiesta della locale Squadra Mobile”), nella carrozzeria di Giuseppe Orofino». I giudici giudicano anomale e quindi significative dell’azione depistante, messa in atto dal gruppo della mobile Falcone Borsellino guidato da La Barbera, i tempi in cui vengono svolti i «rilievi nell’officina di via Messina Marine», in quanto al momento dei rilievi «non erano stati ancora rinvenuti, in via D’Amelio, né la targa oggetto della denuncia di Orofino (la stessa, come detto, veniva ritrovata soltanto il 22 luglio 1992), né il blocco motore della Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti (rinvenuto verso le 13.00/13.30 di quel 20 luglio 1992). Inoltre, come già esposto, era soltanto nel successivo pomeriggio del 20 luglio 1992, a seguito del menzionato intervento del tecnico Fiat di Termini Imerese, che detto blocco motore veniva attribuito ad una Fiat 126. Dette circostanze non sono affatto di poco momento, ove si rifletta sulla circostanza che, invece, già nel pomeriggio del 19 luglio 1992, fonti della Polizia di Stato ipotizzavano l’utilizzo, come autobomba, proprio di una Fiat di piccole dimensioni e, in particolare, «una 600, una Panda, una 126».
Come spesso accade in questi frangenti in cui verità e verosimiglianze, messe appositamente per deragliare dalla verità essenziale dei fatti, si mescolano abilmente, un lancio dell’agenzia stampa Ansa aveva già indicato a poche ore dalla strage il fatto relativo all’esplosione della 126. Di quest’Ansa, poi sparita dagli archivi, ha sempre parlato e denunciato il difensore di Giuseppe Murata, Rosalba Di Gregorio (che ne parla anche in un libro “Dalla parte sbagliata” Castelvecchi editori 2014), ingiustamente accusato della strage come altri. Ed è parte della memoria conclusiva del Borsellino-uno depositata dall’avvocato. Ecco perché è sbagliato parlare di “totale revisione del processo”: il punto sta proprio in questi fatti apparentemente contraddittori. Depistare indagini (come hanno dimostrato anni di strategie e tensioni) consiste proprio nel mettere insieme elementi veri falsi e verosimili dai quali poi si crea un unico confuso calderone di fatti. Alcuni degli elementi riversati dallo Scarantino, infatti, sono tuttora ritenuti validi perché “imboccati” da qualcun’altro come a esempio il furto della 126 ma non solo. E sono fatti validi, quindi accaduti, proprio perché senza aderenze vere ad altrettanti fatti da accertare il depistaggio non poteva riuscire. C’è anche da sottolineare (e questo le motivazioni non lo riferiscono) che all’operazione che portò all’arresto di uno dei mafiosi indicati all’inizio da Scarantino, Lorenzo Tinnirello (giudicato tra l’altro per la strage di Capaci) partecipa il Sismi. Infine, non è vero – come ha anche indicato il magistrato Di Matteo in una sua testimonianza al processo come teste nel novembre del 2015 – che la cosca di Brancaccio guidata dai fratelli Graviano è stata volutamente tenuta fuori dalla strage: uno dei fratelli Graviano era stato indicato dallo stesso Scarantino sin dagli inizi e ritrattazioni a parte. E questo fatto, più di tutti, è indice di come sia utile la mescolanza fra verità e bugie.
1994. Chiudo le pagine di quel numero de L’Unità del 20 luglio 1994 tornando sulla “prima” in cui compare la ripresa della intervista a La Barbera «Così arrestai gli assassini di Borsellino». E’ l’anno caldo di conclusione di Tangentopoli e il tentativo di Berlusconi con il suo governo di escludere dalla misura cautelare i reati che riguardavano la criminalità organizzata, il terrorismo, l’eversione, il sequestro di persona e il traffico di stupefacenti e in cui veniva tra l’altro ampliata la possibilità del patteggiamento, attraverso il decreto Biondi (o come venne anche chiamato “decreto salvapotenti”) viene bloccato definitivamente dalla reazione forte della magistratura, dell’opinione pubblica, persino da una parte della maggioranza e dell’opposizione. Su quella pagina è evidenziato un editoriale politico di Sergio Mattarella che sintetizzava il suo pensiero così: “tutto da rifare”.
La sentenza del Borsellino Quater ha messo le basi per quel “tutto da rifare”. Certo scaricare tutti i depistaggi e le anomalie sul poliziotto e collaboratore del Sisde La Barbera, deceduto nel 2002, è deragliante in sé. Gli inquirenti i magistrati una parte di essi quanto meno dovranno pur rispondere della cieca fiducia prestata verso il pool Falcone-Borsellino così come la figlia del giudice Fiammetta e il fratello Salvatore Borsellino pur con distinzioni fra loro sulla posizione del pm Di Matteo, ripetono ormai da tempo.
Non ultima la questione dei volti ancora in scuro da individuare: i 4-5 agenti dei servizi indicati molto tempo dopo la strage come presenti sulla scena di fumo fiamme e sangue. Chi sono? E a chi rispondevano?