Gettysburg, Pennsylvania, 22 ottobre 2016. In uno dei luoghi simbolo della storia americana, l’allora candidato alla presidenza Donald J. Trump pronunciava uno dei discorsi più importanti della propria campagna elettorale, elencando in 28 punti incredibilmente dettagliati i provvedimenti che avrebbe preso nei primi 100 giorni di governo.
Era il “contratto con l’elettore americano”, con il quale The Donald, paladino del movimento anti-establishment, si proponeva di drenare la puzzolente palude di Washington, portando i suoi schietti e pragmatici modi da businessman nella Capitale.
Quante delle promesse dell’allora candidato sono state mantenute? E fino a che punto, invece, il presidente Trump è rimasto immobilizzato nell’acquitrino tanto disprezzato dal candidato Trump?
La risposta non è semplice, e per darla bisogna non solo ripercorrere in sintesi i principali atti messi in campo dalla nuova amministrazione, ma fare anche una doverosa precisazione sul clima di odio e divisioni che continua ad avvelenare l’America, e che ha visto in Trump un formidabile catalizzatore. Insomma, ora che siamo alla vigilia dei fatidici 100 giorni, è tempo di fare un primo bilancio.
Politica interna: un “fritto misto”.
Nel trumpiano “manifesto di Gettysburg” spiccano una serie di promesse relative alla politica interna. Ed è qui che il giudizio si fa ambiguo: in questo campo il presidente è andato infatti incontro a cocenti sconfitte (prima fra tutte il fallimento della riforma sanitaria) e successi simbolici importanti (la nomina del nuovo giudice della Corte Suprema Neil Gorsuch). Non bastasse, l’approvazione di alcuni provvedimenti è passata sotto silenzio, per esempio la severa disciplina sul conflitto d’interessi dei lobbisti operanti nell’amministrazione, o la legge sulla semplificazione normativa, secondo cui prima di introdurre una nuova regolamentazione ne vanno obbligatoriamente cancellate due superflue.
Nella maggior parte dei casi, però, l’attuazione di alcune delle promesse è stata semplicemente rimandata o compiuta a metà. Gli esempi più emblematici del primo caso sono: la grande riforma infrastrutturale, su cui ancora l’amministrazione non ha fornito dettagli; la riforma fiscale, il cui annuncio ha fatto volare Wall Street ma la cui approvazione al Congresso, secondo alcuni, potrebbe rivelarsi più difficile del previsto; l’imposizione di un termine massimo di mandato per i parlamentari; e infine la costruzione del famoso muro (nell’ambito di una nuova legge sull’immigrazione illegale) rimandata anche quella.
Last but not least, tra i flop di The Donald c’è stata l’attuazione del cosiddetto “travel ban”, che pur in linea con le promesse elettorali, è stata bloccata per presunta incostituzionalità.
Nel complesso si tratta di un “mixed bag”, come dicono gli americani. E proprio sui più spinosi temi di politica interna Trump deve essersi accorto che avere a che fare con il Congresso e indirizzarlo verso i propri propositi non è semplice come concludere un affare immobiliare. In futuro, gli amici repubblicani potrebbero riservargli altri fastidiosi sgambetti.
Una nuova politica commerciale.
È qui che il presidente ha aderito maggiormente alle aspettative, improntando l’azione governativa sul commercio internazionale a principi opposti rispetto a quelli della precedente amministrazione (a quanto sembra fino a ora). La cancellazione del TPP, l’annuncio di rinegoziare il NAFTA e l’indagine sui deficit commerciali più significativi ordinata il 31 marzo (in teoria allo scopo di approntare contro-misure favorevoli all’industria nazionale) sono gli esempi eloquenti di un cambiamento di rotta.
In questo ambito c’è stato solo uno dei punti programmatici fortemente disatteso: l’atteggiamento nei confronti della Cina, dovuto alla sempre più pressante minaccia nordcoreana.
Politica estera: America First?
Da “manipolatrice di moneta” e nemico numero 1 a livello economico, di fronte alle intemperanze di Kim Jong-un la Cina si è trasformata in alleato indispensabile dell’amministrazione Trump e l’unico paese davvero in grado di riportate alla ragione Pyongyang. Sulla politica estera il nuovo inquilino della Casa Bianca ha dovuto modificare in corsa i propositi isolazionisti, dimostrandosi un seguace del motto reaganiano “peace through strength” (ottenere la pace attraverso l’ostentazione della forza). L’epoca del “leading from behind” (guidare da dietro) sembra essere terminata.
Con il bombardamento alla base siriana, in particolare, Trump è riuscito a raggiungere abilmente tre scopi: riaffermare la tradizionale vicinanza degli USA agli alleati dell’area (Turchia e Arabia Saudita in primis) di fronte alla sempre più invasiva presenza iraniana; accreditarsi in patria come Commander in Chief; alleggerire infine la pressione del cosiddetto “russiagate” sul fronte interno, dimostrando di non essere in alcun modo subordinato a Mosca. Non male per uno privo di esperienza politica.
USA sempre più divisi.
Ma che ne pensa l’America dell’operato di Trump in questi primi 100 giorni? Basta viaggiare da un punto all’altro del paese per avere risposte diametralmente opposte. Nelle grandi città costiere l’atteggiamento prevalente è la condanna totale e senza appello di tutti gli atti del presidente, ancora considerato come “illegittimo” , “incapace”, “potenzialmente dannoso per le sorti della democrazia” e quindi da eliminare in ogni modo, lecito o no.
Nell’America rurale, nella ex Rust Belt e nei paesi dell’interno, invece, il supporto nei confronti dell’inquilino della Casa Bianca rimane sostanzialmente immutato, e anche i più repentini cambiamenti di rotta, come nel caso della politica estera, o le contraddizioni più evidenti del governo, come l’atteggiamento fin troppo amichevole nei confronti di Wall Street e dell’establishment finanziario, vengono ignorate nel nome della “fedeltà al capo”.
Al di la delle tifoserie, però, in altri contesti gli elettori trumpiani non molto convinti sono disposti a concedere ancora del tempo al presidente. E sarà proprio il giudizio più equilibrato e disincantato di questi ultimi a decidere in futuro il destino della presidenza.