Dear America, where you go? Sei nata Repubblica, fin dall’inizio, quando le tredici colonie si ribellano al re d’Inghilterra, il celebre “no taxation without representation” che tutti conosciamo, George Washington; i “Federalist Papers” di Alexander Hamilton, James Madison, John Jay; e l’incipit della Costituzione: “…Noi, Popolo degli Stati Uniti, allo Scopo di realizzare una più perfetta Unione, stabilire la Giustizia, garantire la Tranquillità interna, provvedere per la difesa comune, promuovere il Benessere generale ed assicurare le Benedizioni della Libertà a noi stessi ed alla nostra Posterità, ordiniamo e stabiliamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d’America…”. Retorica, certo; ma se retorica dev’essere, sia almeno bella, che scalda il cuore…
Non hai mai avuto, Dear America, un’aristocrazia, una “nobiltà” come invece i paesi d’Europa; e allora te la sei inventata. Un’“aristocrazia” fatta di famiglie con neppure una goccia di sangue blu, ma ricche, famose, potenti, spesso prepotenti. Attraverso loro si può cercare, forse, di comprenderti. Prendiamone alcune, di queste famiglie, di questi clan.

Si può cominciare dai Kennedy: belli, fascinosi, eleganti raffinati. Poi abbiamo scoperto che c’era un lato oscuro: il patriarca Joseph, che fa fortuna con i mafiosi; negli anni del proibizionismo contrabbanda alcol; nutre simpatie naziste. I Kennedy sono percepiti come una sorta di Camelot, il mitico regno di Artù (anche lì, a ben vedere… Ginevra, la regina, le sue tresche con Lancillotto…). Ambiscono alla Casa Bianca, i Kennedy: John ce la fa, primo presidente cattolico. Incarna il mito della nuova frontiera. Il sogno finisce a Dallas, John è ucciso in circostanze misteriose. Tenta il fratello Robert; ucciso anche lui, a Los Angeles. Il terzo fratello Ted, neppure ci prova: su di lui pesa l’oscura vicenda del Chappaquiddick, un incidente d’auto causato dalla sua negligenza, che provoca la morte della ventottenne segretaria Mary Jo Kopechne. Sugli altri Kennedy poi pesa una vera e propria maledizione sotto forma di mortali incidenti, droga, scandali di ogni tipo. Ad ogni modo, i Kennedy sono l’emblema di un’America sognante, dove tutto sembra bello, e buono, e giusto.

Antagonisti dei Kennedy, anche politicamente, in quanto inossidabili repubblicani, i Bush: da Prescott, il nonno, banchiere e senatore, al primo George Bush, petroliere e presidente dopo Reagan; poi il secondo George, alla Casa Bianca per due mandati: in carica l’anno del traumatico attacco terroristico alle Twin Towers di New York. Seguono l’intervento americano in Afghanistan, e il disastroso conflitto per rovesciare Saddam, con gli esiti che sappiamo. Jeb, il fratello minore, corre anche lui per la presidenza. Fallisce clamorosamente, travolto da Donald Trump. I Bush incarnano l’America della classe media, che chiede stabilità, patriottica, tendenzialmente isolazionista; molto dollaro, pochi ideali.

Arriviamo ai Clinton. Bill è un buon parlatore, abile, spregiudicato quanto basta. Molta della sua forza deriva dalla moglie, determinata e ambiziosa quanto lui. Sono gli interpreti di un’America smarrita, colpita dalla crisi economica, che vuole essere rassicurata, che ha nostalgia delle passate certezze ed entusiasmi. Con Bill li trova, o almeno si illude di trovarli. Gli si perdonano bugie, tradimenti, ambiguità; come in passato ai Kennedy. Non così alla moglie Hillary. L’America non è ancora pronta a una presidente donna; lo stesso elettorato femminile le nega il voto.
Ora è la volta di Trump: pluridivorziato, una corte fatta di figli e di amici cui si chiede fedeltà più che lealtà. Trump viene descritto come rozzo, volgare, pacchiano, umorale; forse proprio per questo è stato eletto? Eletto da una America in piena crisi di identità, amara, in cerca della sua anima smarrita? Un’America passata, in sessant’anni dal mito di Camelot al “You’re fired” del volgare reality show che Trump ha trasformato in politica. E allora, Dear America, where are you going?